1. A un matrimonio
Vi narro questa storia, che è un po' una storia e un po' una vita, la vita di qualcuno di cui, probabile, non vi importi nulla e forse anche a me, come a voi, non importa. Nonostante fosse la mia di vita e almeno della vita di me stesso dovrebbe importarmi, ma anche quando vivevo, quando avevo questa vita misera e inutile... ero troppo impegnato a preoccuparmi di altro e di altri per vivermela.
Avevo cinque anni e ancora non sapevo né leggere, né scrivere... Niente a cui non avessi posto rimedio in seguito, ma, se solo mi fosse importato quanto importasse a mia madre, forse, avrei imparato prima, con uno di quei libri grandi quanto un comodino che aveva le lettere in stampatello maiuscolo giganti.
A quei tempi ero povero e non lo sapevo, siccome ero ricco dentro: di vita, di gioia e di speranza. Quella vita ricca che avevo a cinque anni, però, non mi apparteneva neanche la metà di quanto credessi e io da bambino ero un bagaglio trascinato da mia madre e mio padre, inconsapevole della destinazione...
Come quel giorno, che mi portarono vestito come un dandy a un matrimonio, dicendo quanto fosse necessario essere belli ed eleganti e che non importasse nulla del fatto che in un solo anno quel gilet - per cui si era spesa una fortuna - che avevo in dosso non mi sarebbe entrato neanche per sbaglio.
Un infernale papillon nero mi solleticava il collo e, senza pensarci, l'allentai, mentre mio fratello Walter mi guardava con il riso nascosto da un velo di indifferenza. Mi disse che ero identico a uno di quei quadri francesi di metà ottocento, con le braghe strette e i capelli tirati all'indietro alla James Bond.
«Walt e Mike non vengono?» chiesi a mia madre, qualche minuto prima di uscire di casa.
Lei aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sbuffato.
Mio fratello Micheal era di soli tre anni più grande di me, eppure sarebbe rimasto a casa a farsi i fatti propri, mentre Walter era ormai quasi un uomo fatto e ci credevo che avesse abbastanza anni per rimanere solo soletto. Avrei capito solo in seguito che entrambi i miei fratelli fossero rimasti a casa quel giorno perché comprare tre abiti, anziché uno solo, sarebbe stato uno sganassone per il portafoglio di mio padre.
Non andammo in chiesa. I miei genitori avevano usato la scusa del figlioletto soggetto a svenimenti - in cui di vero c'era poco e niente - per giungere a destinazione senza attendere che gli sposi si scambiassero la loro promessa d'amore eterno. Era metà luglio e il sole era caldo quanto un forno. Prendemmo il treno, per giungere a Brighton, e salii per la prima volta in vita mia in un taxi, il cui conducente ci intrattenne con chiacchiere troppo impegnative per me, che avevo solo cinque anni, fino al ristorante.
Mi trovai senza sapere bene come o perché stretto a un braccio di mia madre, che si sventolava il viso tinto di trucco con un ventaglio, nel bel posto in cui avremmo consumato il pranzo della cerimonia. Era uno di quei locali da ricchi, quando varcai le tende di seta bianche i miei occhi non riuscirono a credere che quello fosse un posto vero e non una bomboniera. C'erano tavoli, le cui tovaglie colore del latte erano imbandite con cascate di ostriche e bottiglie di champagne rosé, e decorazioni floreali di rose e gigli per l'intera sala. Non era un luogo a cui io, povero di denari e di virtù, ero consono entrare.
La sposa, zia Titty me la facevano chiamare - nonostante il suo vero nome fosse ben diverso -, era la cugina di mio padre. Una signorina tutta impettita che sorrideva a chiunque gli passasse accanto e camminava avvolta nel batuffolo bianco del suo ingombrante vestito di tulle, il cui strascico era talmente lungo da farla inciampare di tanto in tanto.
Quel giorno vidi Mela per la prima volta, con un sorriso sdentato e la schiena dritta, se ne stava buona accanto a un paio di signorotti ricercati, che stringevano fra le mani un calice di bollicine e si scambiavano sorrisi senza gioia.
Chiesi a mia madre chi fossero quelle persone sedute nel tavolo in fondo, con gli sguardi fini e le maniere eleganti, che sembravano essere appena usciti dalla corte della Regina.
Lei si voltò a guardare e sussurrò qualcosa nell'orecchio di mio padre, che di rimando mi fece un occhiolino di cui capii poco, se non nulla.
«Quella è gente per bene, John... Non vedi?» Rise mia madre, arricciando le labbra.
Io annuì. Vedevo, vedevo bene che fosse gente che non sbagliava mai nulla e che agiva con la certezza che al mondo non ci fosse nessuno in grado di scavalcarla, ma il mio modo di vedere, a cinque anni, non mi faceva comprendere chissà quanto.
«I Dixon, i fratelli dello sposo, ragazzo» aggiunse mio padre.
«I ricchi» commentò un'altra signorina, una cugina, seduta al tavolo con noi.
Ci furono un paio di risate e lei alzò il suo calice, ridendo.
«Un brindisi a zia Elisabeth» disse, aggiungendo sottovoce: «che spelli vivo il disgraziato che ha sposato.»
Le risate echeggiarono nella sala, insieme al tintinnio dei calici che si sfioravano. Io mi strinsi nella mia sedia e mi sentii più piccolo di quanto già non fossi, mentre gli sguardi curiosi degli ospiti si voltavano a commentare la gente che era seduta al tavolo da cui provenivano schiamazzi poco educati.
Mi dovete perdonare se di quel giorno non so dire altro, ma il me a cinque anni era un bambino veloce e la vita che credeva di controllare gli scivolava dalle mani senza che se ne accorgesse. Trovai però una foto di quel giorno, una di quelle che tenevo negli scatoloni chiusi con lo scotch in soffitta, in uno di quei grandi album di famiglia impolverati. Nella foto di cui vi dico c'era zia Titty, con il suo pomposo abito da sposa che occupava un quarto dell'immagine, il suo nuovo marito e il loro centinaio di invitati, tra cui il me bambino, con il completo che aveva fatto penare le tasche di mio padre, e Mela, vestita di rosa antico e i bei capelli biondi ordinati.
A cinque anni, in quella foto, guardai Mela e la vidi per la prima volta. In quel ricordo stampato, di cui ho perso il ricordo in questa vita di preoccupazioni, le sorridevo e lei sorrideva a me, con quell'incisivo mancante che la portava fuori dallo schema di perfezione che avrebbe dovuto dipingere.
All'inizio di questa storia Mela non era Mela, ma una bambina con lo sguardo da donna e i capelli intrecciati. Bella? Forse... non che a cinque anni mi interessassero chissà quanto le bambine, belle o brutte che fossero. Eppure attirò la mia attenzione, per il suo modo raffinato e poco conforme a ciò che ero solito vedere.
Vivevo nell'East Sussex, in un piccolo paese che contava meno di tremila abitanti e frequentavo una vecchia scuola primaria in decadenza... Le bambine avevano tutte lo stesso modo sgarbato e parlavano con un accento dialettale marcato; come Mela, dalle mie parti, non ce ne erano, quelle come lei vivevano a Londra, a Manchester o in qualunque altra città che non fosse un piccolo sobborgo di una contea smarrita nel sud dell'Inghilterra...
Avrei capito in seguito perché Mela fosse così diversa, perché lei non si infilasse le dita nel naso come tutti gli altri bambini e camminasse graziosa, come se avesse una corona sulla testa. Allo stesso modo avrei capito il motivo che avesse spinto mia madre a spendere tanti soldi per comprare a me, piccolo e destinato a diventare grande, un completo costoso come quello che indossavo per il matrimonio di zia Titty.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top