Capitolo IV


Nonostante ci trovassimo ad una decina di metri dall'Accademia,  i nostri occhi non riuscivano ad abbracciare il palazzo nella sua interezza; era mastodontico.

Se non ne avessi conosciuto la vera identità l'avrei potuta scambiare per un'imponente cattedrale, ma – a mano a mano che ci avvicinavamo all'edificio – la realtà stregata della scuola si fece sempre più palese.

L'accademia nasceva direttamente dalla terra, era il più grande albero secolare che avessi mai visto. Le striature si trasformavano in fessure, che erano adibite a finestre, ogni dettaglio ed ogni ghirigoro era intarsiato direttamente nel legno, uno sfarzo eccelso di natura e magia.

I pinnacoli erano rami incastonati di gemme e pietre preziose, i gargoyle erano così definiti da sembrare vivi.

L'edificio fungeva anche da gigantesca voliera, colma di volatili, un tripudio di becchi e ali che mai avevo visto in vita mia.

Ero ammaliata.

Tutta quella magia nell'aria mi faceva sfrigolare piacevolmente il sangue nelle vene.

Gli immensi giardini che attorniavano il palazzo erano ricchi di flora e fauna di ogni genere, e – in sottofondo – si sentiva la spuma delle onde del mare che si infrangeva sugli scogli, nonostante non si riuscisse a scorgere la distesa marina, probabilmente l'Accademia nascondeva dietro di sé un golfo d'acqua salmastra.

Per tutto il suo infinito perimetro, inoltre, era circondata da una moltitudine di archi, che immaginavo consentissero lunghe passeggiate all'aperto.

La amai, così immediatamente e profondamente come avevo fatto con pochissime altre cose nella mia vita.

Sentivo di farne parte ancor prima di appartenerle.

Arrivammo all'entrata in silenzio, venerando ciò che si ergeva davanti ai nostri occhi, ritrovai in Bren lo stesso mio sguardo ammaliato.

Salimmo alcuni scalini, radici dell'albero che era la Maximea.

«Benarrivati, ragazzi.» 

Pronunciò una voce che sembrava appartenere all'Accademia stessa. Io e Bren ci guardammo spaesati, per essere certi di non aver solamente immaginato quelle parole.

Il maestoso portone di legno scuro si aprì repentinamente, mostrando al nostro sguardo allibito una figura illuminata da un'aura di luce diafana.

Un'entrata degna dei migliori effetti speciali di un film.

Sarei scoppiata a ridere se il tutto non si fosse svolto nel più irreale dei silenzi, persino gli abitanti del verde intorno al palazzo e le onde del mare erano ammutoliti, tutto taceva.

Guardai attentamente la figura che si stagliava sul patio, una donna dalla straordinaria ed insolita bellezza.

Il dettaglio che più mi incantò fu la sua chioma: liscissimi e lunghissimi capelli bianchi... però non bianchi come i capelli di chi è avanti con gli anni, no, bianchi come la neve appena scesa, bianchi come il primo dentino di un bambino, bianchi come se non avessero mai conosciuto la sporcizia del mondo.

Indossava una tiara costituita, all'apparenza, dallo stesso legno dell'edificio, incastonata al centro del gioiello risplendeva una pietra borgogna, che riluceva sotto lo sguardo della luna crescente.

Il suo viso non aveva età, non una ruga solcava lo spazio tra le sopracciglia e l'attaccatura dei capelli, l'aspetto fiero nascondeva una storia antica, aveva labbra rosee e zigomi alti.

Ma ciò che affascinava e mi inquietava maggiormente erano i suoi occhi, di un colore non ben definito data la distanza, ma che si insinuavano nei miei come se riuscissero a scrutare l'anima.

La figura era longilinea, indossava una lunga veste color ametista, morbida, che ondeggiava nell'aria notturna.

Fu lei stessa a rompere il silenzio

«Sapevo sareste arrivati per primi»  pronunciò  quasi a se stessa.

«Non si preoccupi Alexandra, la sua nuova amica Lemon si riprenderà rapidamente – continuò – sua zia sarà di certo compiaciuta ed orgogliosa quando verrà informata che lei è fra i primi arrivati» mi sorrise complice, da amica.

«Mi scusi – cominciai a chiedere disorientata – come fa a sapere il mio nome? Non penso di conoscerla... E cosa c'entra mia zia?» Aggiunsi sempre più in soggezione, cercando di trarre conforto dalle carezze che posavo sul capo di Esme.

«Lexie!» Mi ammonì bisbigliando Bren.

«Lei deve essere il rampollo Brendon Channing secondo cameo. Dove ha lasciato il suo gemello, giovanotto? – lo guardò comprensiva – ma, d'altro canto, Ruben è sempre stato una testa calda, non la biasimo per aver preso le sue distanze» pronunciò malinconica, osservando vacua un punto indefinito.

«È un onore essere in vostra presenza, grande Savia» soffiò con riverenza Bren profondendosi in un goffo inchino, data la ragazza tra le sue braccia, mentre io spostavo lo sguardo dalla sconosciuta a Bren sempre più confusa.

«Non si disturbi aitante Brendon, seguitemi dentro, avremo tempo per parlare in seguito!» Disse la donna  spostandosi di lato per invitarci ad entrare.

Ero sempre più affascinata dalla sua figura, ogni gesto era leggero e soave, come una continua ed ininterrotta danza.

Mentre entravamo di buon grado nell'Accademia, notai l'animale della Savia, una maestosa, rara – se non unica nel suo genere – aquila bianca.

Stava appollaiata poco dopo l'uscio, aveva fatto di una lanterna spenta un trespolo, ed acuta e guardinga non perdeva d'occhio la sua appartenente.

Appena varcammo l'ingresso un odore di spezie aromatiche ci investì piacevolmente ed Esme si rilassò talmente tanto che se fossimo state da sole avrebbe fatto sicuramente le fusa.

«Lady Pungle, lady Ginze!» Chiamò la Savia dopo che l'enorme portone si richiuse silenziosamente alle nostre spalle

«Savia Amandine» risposero corali due voci apprensive, che subito dopo furono accompagnate dai loro corpi cicciottelli.

«Care, prendete la signorina Lemon dalle braccia del giovane Brendon, per favore. Ha bisogno delle cure della guaritrice, Miss Coleen – si rivolse a noi – vedrete ragazzi non esistono mani più esperte e fidate».

Le donne, preoccupate, presero Lemon delicatamente dalle braccia di Bren e si avviarono sulla scalinata centrale.

Erano bassine, rotondette ed avevano delle adorabili fossette, dovevano essere gemelle.

I loro animali erano due deliziosi lemuri, che, iperattivi, gironzolavano e saltellavano nei dintorni delle impacciate appartenenti.

Tutta la scena si svolse in maniera talmente buffa che faticai a trattenere le risate.

Finalmente ebbi l'occasione di guardarmi intorno; l'ingresso era enorme, tre scalinate si stagliavano frontalmente, tanto imponenti quanto eleganti, incise anch'esse nel legno della struttura.

Sia sulla destra che sulla sinistra gli enormi corridoi non avevano apparentemente fine, ovunque si potevano notare delle cavità piene d'acqua, probabilmente pensate appositamente per gli animali, di cui la mia caracal stava – senza troppi complimenti – al momento usufruendo.

Allegre cornici stanziavano sui muri, mostrando scene di storia magica, spesso accompagnate da suoni e luci reali.

C'era un tramonto che particolarmente m'incantava ed assorbiva, a cui senza accorgermi mi avvicinai e mi crogiolai nella tiepida luce del sole che era stato immortalato in un eterno crepuscolo tra sabbia dorata ed oceano cristallino.

«Anche sua madre lo adorava» mi bisbigliò la Savia a pochi centimetri dalla nuca, sorprendendomi, non l'avevo neanche sentita avvicinarsi «e sua nonna prima di lei» affermò affettuosamente in tono nostalgico. 

«Davvero?» Chiesi sorpresa «Lei le ha conosciute?» 

La Savia sorrise gentilmente e mi accarezzò una guancia con affetto

«Sua nonna è stata per molto tempo la mia migliore amica, conosco la sua famiglia quasi da quanto conosco la mia, Alexandra»  

«Ma io non l'ho mai vista!» La contraddissi incredula

«Sì invece, mia dolce, ingenua, Alexandra, semplicemente non lo ricordi. Ti ho presa in braccio ancor prima che aprissi gli occhi»  disse spostandomi una ciocca corvina dalla fronte.

«Ma ora non è il momento di rinvangare vecchi ricordi, per quanto piacevoli... venite ragazzi, c'è una cena calda che vi aspetta!» Si incamminò verso il corridoio alla nostra destra.

«Devo avvisarvi però che non incontrerete nessuno studente, è molto tardi e domattina si svolgeranno regolarmente tutte le lezioni per quelli degli anni superiori al vostro» affermò mentre la rara aquila le atterrava docile sul braccio steso ad accoglierla. «Siete i primi in assoluto ad averci messo cinque ore per trovare l'accademia. Di solito non aspettiamo nessuno fino al giorno dopo l'inizio delle prove» ci lodò allegra e spensierata la strega.

«Cosa?» Urlai, senza riuscire a darmi un contegno. Bren mi stoccò subito una spallata per mettermi a tacere, ma io ero già imbufalita. «Vuole dire che una cinquantina di ragazzi dormiranno da soli nella foresta? Con il rischio di imbattersi in qualche pericoloso predatore? Senza acqua né cibo?» Ero incredula, e furiosa, totalmente furiosa.

La Savia, dal canto suo, fece un sorrisino compiaciuto ed annuì con il capo prima di cercare di darmi spiegazioni a voce.

Non gliene diedi il tempo: «Io vado via!» Sbottai «andrò a prenderli e li guiderò fin qui!» Gridai mentre tornavo sui miei passi.

«Non rischierò che dei ragazzini muoiano per divertimento e negligenza altrui!» Sbuffai sempre più nera di rabbia.

Non capivo neanche cosa stesse cercando di dirmi Bren, ma in quel momento non mi interessava neanche, se non voleva immischiarsi nella vicenda non lo avrei costretto né giudicato. Beh, giudicato probabilmente un pochino sì, ma chi non l'avrebbe fatto?

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