ISOLA DEI CERVI
Appena salgo in barca è l'acqua a rapire il mio sguardo con i suoi colori e la sua trasparenza.
Capiamo subito che i due ragazzi neri dell'equipaggio sono tipi brillanti. La musica che scelgono e la velocità lo confermano. Per i corpi è impossibile star fermi, tutti ci muoviamo seguendo il ritmo. Di donne siam solo due e io sono la più vicina al piccoletto con la chitarra. Si volta, mi prende la mano e mi fa fare alcuni giri di un ballo sud-americano. Si ride. Poi, sempre lui, tira fuori una bottiglia di rum, della Coca-Cola e una bottiglia dal contenuto lattiginoso. Bene, è cocco, penso. Prendo il mio bicchiere e glielo porgo, me lo riempie.
Bevo. Ma è alcolico... eh sì, è pignacolada. Buono, peccato siano le dieci di mattina.
Arriviamo su un isolotto dove c'è un Faro.
Man mano che ci avviciniamo cambia l'atmosfera. L'oceano si trasforma. La calma di prima ora è impeto. Metri e metri di schiuma delle onde che s'infrangono e si ritraggono. Il fragore ne misura la forza.
Mi separo da gruppo.
Cammino lenta, mi godo profumi e rumori. Li scompongo e ricompongo. Arrivano anche le note del vento, che scompiglia i capelli.
Supero il faro e mi avvicino all'altro versante per sentire la forza dell'oceano.
Devo fare attenzione a non sporgermi troppo.
Fotografo.
Ora chiudo gli occhi. Ascolto. Respiro profondamente.
Vento. Fragore. Impeto. Distesa di schiuma. Profumo di salsedine. Rocce che resistono, ma si lasciano modellare. Personaggi che irrompono nella mente.
Questo luogo attiva emozioni tumultuose, misteriose.
Nel faro vive un uomo, Philip, un sessantenne americano.
In uno dei suoi viaggi in Europa incontrò Lole, che aveva vent'anni meno di lui, in Francia.
Lui era un uomo libero.
Lole era sposata da poco quando i suoi occhi incontrarono quelli di Philip su una spiaggia di Marsiglia.
Lole stava uscendo dall'acqua con il surf sotto il braccio, aveva appena cavalcato una delle onde più emozionanti della vita. Era bellissima. I lunghi capelli avevano l'effetto di un ritaglio di seta bagnata e stropicciata, posata sulla sabbia, nell'ora più calda di una giornata di sole.
La guardò negli occhi e commentò lo spettacolo che gli aveva regalato cavalcando l'ultima onda.
Un istante dopo erano già persi.
Lole lasciò il marito e andò a vivere NY. Amò Philip più della sua stessa vita, ma non era felice. Era di parole che aveva bisogno e Philip era un uomo dalle molte qualità, ma arido di parole.
Anche lui l'amava molto, ma non sapeva esprimerlo.
Vennero in vacanza qui nella primavera del 2014, in tre come sempre. Lei, lui, e il surf.
- Oggi non è giornata da surf, il mare è troppo grosso, Lole!
- Philip, Tranquillo, so quello che faccio.
Entrò in quel mare irrequieto, ne era attratta proprio per questo.
La seconda onda la inghiottì, senza restituirla più.
L'assenza e la mancanza di Lole lo stavano uccidendo. Non si perdonava d'esser stato incapace di dar forma ed espressione al sentimento che aveva provato per quella donna.
Tornò su quest'isola dopo un anno esatto e decise di acquistare il Faro. Affidò la direzione delle sue aziende a due collaboratori e si trasferì qui, con un intento preciso.
Dopo colazione usciva, si sedeva a un tavolo in legno con lo sguardo rivolto all'oceano.
Tornava nel passato e lo traduceva in parole. Erano lettere quelle che scriveva su un quaderno dalla copertina nera. La destinataria era Lole.
Glielo aveva regalato lei il quaderno. l'aveva acquistato a Vienna a una mostra dedicata a Egon Schiele. In basso a destra, sulla copertina, c'era un particolare di "L'abbraccio", tra le loro opere preferite.
- Per te,- gli aveva detto posando le labbra sulle sue.
- Grazie! Ma... io non scrivo più da tempo sulla carta.
- Troverai qualcosa da scrivere, vedrai...
Stava seduto ore a quel tavolo. Sceglieva le parole con cura. Ogni giorno, al termine della lettera, strappava il foglio, si alzava dal tavolo, si avvicinava allo strapiombo e leggeva ad alta voce. Poi lanciava il foglio nella direzione in cui Lole era stata inghiottita. Il foglio, quando il vento taceva, fluttuava lento e si lasciava cullare dalle onde prima di esserne risucchiato; impazziva precipitando, quando il vento ululava. Lo sguardo di Philip accompagnava il foglio fintanto che non scompariva. Poi si sedeva su un sasso sempre con lo sguardo sull'oceano. Talvolta lasciava che qualche lacrima rigasse il suo volto. Non era tristezza, ma un'emozione più sottile.
Quella era la sua cura.
Philip lo vedo muoversi qui, ma è impossible incontrarlo poiché esiste in un luogo che non è questo.
Passeggerei ancora, invece risaliamo in barca. La prossima meta è una cascata.
Prima di raggiungerla facciamo incontri ravvicinati con le scimmie.
Il pranzo sull'isola dei cervi è accompagnato da musica e canzoni di un gruppo di mauriziani. I nostri corpi si muovono, è impossibile rimaner composti.
I loro corpi e la loro voce incarnano l'Africa e ce la fanno sentire.
Oltre alle canzoni locali cantano "No woman no cry", " Mare nero" e altro ancora. L''apice emotivo su "Somewhere over the rainbow". Questa canzone è tra le mie preferite. La versione originale la eseguì Judy Garland nel 1939 per il film "il mago di Oz".
Qui è magica.
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Appena finiscono di cantare faccio un giro sull'isola. Uh... una stella marina, dei semi di mangrovia... e ancora, cespugli marittimi dalle forme artistiche.
I momenti conviviali sono molto divertenti e anche arricchenti professionalmente, ma per interagire col paesaggio a livello emotivo sento il bisogno d'esser sola.
E i cervi?
Non ce ne sono più sull'isola. Li portarono gli olandesi, non ricordo in quale periodo, li utilizzavano nelle battute di caccia.
Andiamo a fare il bagno in un altro pezzo di mare.
In barca beviamo rum Coca Cola e pignacolada e in sottofondo bella musica. Bravi i DJ, i nostri due membri dell'equipaggio. Li incitiamo ad aumentare la velocità, non se lo fanno ripetere.
Ci tuffiamo e immediatamente Lorenzo Luconi viene preso di mezzo dal mio gruppo. Ridiamo tantissimo. Non ce la posso fare, devo smettere di ridere se non voglio... andare a fondo. Lorenzo, che anni fa, avevamo soprannominato vent'all'otto, non si può dire abbia un fisico d'atleta, è una persona che mi fa stare bene quando l'incontro. Abbraccia metaforicamente, accoglie chi gli sta di fronte con una battuta o una frase carina. Sta al gioco quando lo prendono di mezzo usando i soliti cliché sul cibo o sulla compiacenza. Lui incassa e replica amabilmente. È una gran persona. E... mi tiene sempre il posto al tavolo, dettaglio non trascurabile.
- Domattina si va a correre. Ci vediamo vent'all'otto. - questo diceva Lorenzo, la sera, in un viaggio di alcuni anni fa.
Quel nomignolo l'ha portato per un po'
Be', adrenalinico il ritorno.
Il crepuscolo come al solito me lo gusto in totale solitudine sulla mia spiaggetta, ormai deserta e di nuovo mi pongo la solita domanda: perché nei due momenti emotivamente più intensi, l'alba e il crepuscolo, sono tutti in camera? O altrove? Perché forse lo sono solo per me, e non lo sarebbero neanche per me se non fosse così.
È l'intimità con il paesaggio che ne acuisce la percezione. Nessuno che si frappone tra me il mare, la barriera corallina, le barche in lontananza...
Anche uno solo di questi momenti vale l'intera vacanza.
N.d.A.
Questa parte la sto scrivendo in aereo. Ora sono in volo per NY.
Non ho ancora finito di raccontare Mauritius. Mancano ancora due esperienze... impegnative e... altro. Riprenderò al mio ritorno, a maggio.
Ora tutta l'attenzione sarà su NY.
Mi hanno appena servito il pranzo. Ne ho approfittato per rivedere un pezzo di "A star is born". L'ho riguardato solo per rivedermi una scena.
S'incontrano nel locale dove lei canta. Iniziano a parlare, succede una certa cosa poi escono insieme. Parlano, vanno in giro per la città, stanno in giro tutta la notte. Qui c'è un'inferenza, un tempo sospeso, in cui lo spettatore non sa che cosa abbiano fatto. Lui l'accompagna a casa la mattina. Si salutano, lei scende dall'auto e va verso casa. Lui abbassa il finestrino e la chiama.
- Che c'è?
- Volevo guardarti ancora una volta.
Lei sorride e con l'indice, reclinando il capo, percorre il suo profilo, dalla fronte al mento.
L'ho riguardato per questa scena, per riascoltarmi queste due semplicissime e meravigliose battute.
E poi ce n'è ancora una che voglio rivedere, quella in cui lui canta sul palco e lei è tra gli spettatori. Quando finisce la canzone si toglie la chitarra dalla spalla, va verso di lei e la invita sul palco a cantare la canzone che ha scritto lei e che lui ha arrangiato. Fa resistenza, non se la sente e lui l'abbraccia e le sussurra nell'orecchio:
- Ti devi solo fidare di me.
Tra le frasi che amo di più sentir dire da un uomo a una donna c'è anche questa - fidati di me - che insieme a - mi manchi - stanno sul podio. "Fidati di me" che sottintende "lasciati andare, ti sorreggo io, non ti deluderò". Che poi quell'uomo sia davvero degno della fiducia è tutto da verificare, in ogni caso questo viene dopo.
A quel punto lui comincia a cantare la sua canzone, lei resiste ancora, poi cede, va sul palco e cantano insieme.
Tel me something boy...
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Quando ho visto il film per la prima volta ho provato emozione e basta, adesso sono arrivate due lacrime e le ho lasciate andare.
A presto!
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