L'arte di disegnare sulle crepe

Aykari aveva il sospetto che chiunque si occupasse di legge o regolamenti avesse una scarsa conoscenza della natura umana. Era risaputo che il miglior modo per convincere qualcuno a fare qualcosa fosse quello di imporgli di non farla. Non c'era da sorprendersi quindi se la damnatio memoriae fosse una delle condanne più inefficaci mai decretate. Cancellare un nome da ogni tipo di media a disposizione era inutile per un popolo che per millenni si era basato sulla tradizione orale. A volte avrebbe voluto funzionasse.

La figura di Berath Nanufaru era presto entrata nella leggenda. Un uomo privo di caratteristiche umane, che da solo aveva messo in ginocchio l'Alleanza, colpendola al suo cuore. Il giorno in cui aveva oscurato il sole. Nessuno era a conoscenza della vera ragione per cui non avesse proseguito nel suo attacco alla Terra.

Il suo corpo non era mai stato ritrovato, così come la sua nave. Alcuni dubitavano che fosse mai esistito. Altri credevano fosse ancora vivo, in attesa di colpire nuovamente, oppure segregato in qualche base segreta, come cavia per esperimenti sulla sua vera natura.

Aykari aveva ereditato il suo cognome e i suoi colori. La sua tenacia e la sua voglia di sfidare il mondo, per lasciare una traccia del suo passaggio. Correva più veloce di quanto le sue gambe la potessero sostenere e non aveva nessuno al suo fianco, solo di fronte. Una cosa però non le era stata trasmessa: la capacità di riconoscere quando fosse il momento di tirarsi indietro.

Per tale ragione, quando alla cattedra era apparso non il cipiglio bonario del professor Yokone, ma lo sguardo severo e inflessibile del neo capitano Su'hahru, non si era unita al poco scarno gruppo di saggi studenti che avevano abbandonato l'aula. L'uomo venuto da Yomit non le faceva paura. Non lo aveva temuto il primo giorno e non l'avrebbe temuto il suo candidato ultimo.

«Lange, Aykari: sostiene l'esame?». Aveva un accento impeccabile, nel parlare la lingua comune terrestre. Come impeccabile era stata la sua carriera all'accademia. Quel giorno avrebbe avuto una brusca svolta.

«Presente». Non era abile come la razza dell'altro a mostrarsi impassibile, estranea a ogni emozione. Una maschera personale era però riuscita a intagliarsela, con la maestria del migliore degli artisti.

Peccato che non tutti fossero in grado di comprenderne il messaggio dietro.





Nella primavera dei suoi undici anni aveva avuto la bizzarra idea di imbucarsi fra le fila di una scolaresca in gita a un museo. L'edificio originale, una chiesa il cui nome non aveva preso la briga di leggere all'ingresso, era crollato secoli prima in un altro continente. Gli ologrammi parlavano di come il movimento delle pacche avesse portato alla perdita di numerosi siti, ma che non fossero andati perduti del tutto grazie agli sforzi di una popolazione che non voleva perdere le sue radici. Aveva rimosso ben presto il resto della spiegazione.

Ciò che invece si ricordava erano le proiezioni alle pareti, che riproducevano ogni affresco perduto in tutto il suo splendore, come era al momento del crollo e come i suoi primi osservatori lo avevano potuto ammirare, vibrante di colori così accesi da sembrare una copia digitale di bassa qualità. Gli angeli, in particolare, pieni di oro, bianco e rosso, le erano rimasti impressi con i loro lineamenti eterei e impossibilmente delicati nella loro muscolatura possente e virile. Ma non erano stati tanti i disegni in sé a colpirla, quando la differenza in quelle figure con quelle riportate negli scritti.

"Non aver paura" era il loro modo di approcciare i mortali, destinatari di importanti richieste e messaggi divini. Suo fratello le aveva raccontato di come fossero tutt'altro che umani nell'aspetto, più simili a orbite dotate di una moltitudine di occhi, ali o teste animali. Come le immagini dei mostri di qualche vecchio romanzo fossero più fedeli, rispetto alle loro raffigurazioni ufficiali.

Quando posò per la prima volta gli occhi su Su'hahru, Aykari capì come anche i volti all'apparenza umani potessero essere usati per infondere terrore.

«Oggi studenti, domani il futuro dell'Alleanza. Quello che apprenderete in queste mura sarà solo l'inizio e non vi preparerà mai appieno a ciò che incontrerete là fuori», la voce limpida e cristallina del supervisore Hon'ke risuonava negli altoparlanti dell'auditorium. «Perché, dunque, frequentare l'accademia?».

«Se fa un'altra domanda retorica, mi alzo e me ne vado», bofonchiò Eriki contro il palmo della sua mano. Lo sguardo fisso sulla schiena del ragazzo davanti a lei, risvegliandosi dal suo stato di abbandono prima di colpirlo con la fronte, in un continuo dondolio del busto. Avevano optato per due posti vicini al fondo dell'aula, nella ingenua speranza che la prossimità con l'uscita avrebbe posto una prematura fine alla tortura. Al quinto oratore, il piano non stava ancora dando risultati.

«Per rispondere a questa e tutte le vostre altre domande, ho chiamato per voi il tenente Su'hahru, uno dei nostri laureati più brillanti. Che tutti voi possiate imitarne il rigore e aspirare a raggiungere i suoi livelli». Le scappò una risata. Sulla Terra avevano un'espressione perfetta per descrivere quella situazione. Com'era? "Se sposta la lingua, passo".

Anche la sua amica aveva avuto un pensiero simile a quella adulazione pubblica. Al contrario suo, era riuscita a contenere ogni suono sigillando le labbra, non impedendo alla sua ilarità di scappare trascinando con sé gli angoli della bocca verso l'alto.

Il professore abbandonò il leggio, come una tenda a teatro che, in un fruscio di drappi rossi, si annulla per segnalare l'inizio dello spettacolo e rivelare il protagonista. La figura avanzò verso i riflettori a passi lenti e cadenzati. Non avrebbe potuto descriverlo con altro aggettivo oltre imponente, nei modi e nella postura: spalle larghe e petto in fuori, accentuato dalla rigidità con cui teneva le braccia dietro la schiena. Solo presa posizione, si rivolse al pubblico, mostrando due occhi di un verde così scuro da sembrare nero. Era riuscita a distinguerli solo tramite gli schermi posizionati per le ultime file.

«Uno yomita?». Un sussurro tremulo alla sua destra le suggerì. Erano uno dei popoli fondatori dell'Alleanza, uno con cui non molti avevano piacere a interagire.

«Il mio nome è Fah'le G'thal'ma Su'hahru, tuttavia, per quelli di voi che rimarranno fino al quinto anno, sarà solo tenente Su'hahru». Fece una pausa, permettendo al brusio di fondo di cessare. «Potrei augurarvi il migliore dei percorsi accademici, nell'attesa di incontrarvi nuovamente dopo questi cinque anni, ma sarebbe criminale da parte mia illudervi sulla possibilità che la maggior parte di voi possa raggiungere tale traguardo. Ancora meno, entreranno a far parte della flotta e solo i migliori saranno selezionati per navigare il settore che mi accingo a supervisionare».

Aykari era in grado di riconoscere un discorso motivazionale, quando ne sentiva uno. Aykari era anche una persona capace di sarcasmo.

«Non dico questo per scoraggiarvi».

«Avrei voluto sentire il discorso per scoraggiarci, allora». In una smorfia di disappunto, Eriki scosse il capo.

Come se l'avesse sentita, Su'hahru si rivolse alla loro area. Era impossibile, anche con un udito superiore a quello umano, ma la tempistica sembrava suggerire il contrario.

«Dico questo per coloro che hanno la capacità e la perseveranza sufficienti a resistere in questi cinque anni». Eriki strinse i pugni. «Dico questo per coloro che vogliono davvero far parte della più grande impresa che le nostre civiltà stanno portando avanti». Aykari deglutì. «Dico questo perché solo l'eccellenza e il minimo errore potranno dare a questa impresa un vero contributo, senza rallentarla. E fra voi, solo alcuni, forse nessuno, potrà vantare tali risultati». Socchiuse gli occhi, abbassando il tono. «Non conta solo la volontà, ma anche la vostra biologia e la vostra capacità di resistenza». Senza aggiungere altro, si allontanò dalla postazione. Solo il silenzio accompagnò il suo ritorno al posto nella lunga fila di relatori e futuri loro professori. L'approvazione negli occhi di quelle leggende temprate da anni nel vuoto non era riflessa in quella degli studenti, divisi tra l'incredulità e la confusione.

Nel mezzo di quelle sopracciglia corrucciate e mandibole contratte, Aykari si convinse di una importante verità: i suoi natali, la sua biologia, l'avrebbero tradita. In ultimo, non le avrebbero permesso di accedere a quella che era stata definita "la più grande impresa della loro civiltà". Lo scudo che le avevano fabbricato addosso non era che un misero specchietto, che non avrebbe distratto a lungo le sue allodole.

Avrebbe dovuto lavorare il triplo e trovare un modo per assicurarsi un posto intoccabile. Analizzò il percorso di studi proposto, marcando più opzioni di quante fossero consigliate. Le cose avevano appena iniziato a farsi interessanti.





Per tutta la durata dei suoi cinque anni di studi, poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva ricevuto una convocazione davanti ai membri del senato accademico. In nessuna di esse l'invito era stato rivolto a un solo destinatario: lei.

Alzò gli occhi dallo schermo, incontrando le braccia incrociate sopra allo stomaco pieno della sua compagna di stanza. Aveva appena chiuso l'anta dell'armadio, poggiandovisi sopra, e la sua espressione sembrava gridare una combinazione di "qualunque cosa sia, non prima del mio caffè" e "ti avevo avvertita".

«Ops?». Usò il lenzuolo come riparo dal giudizio dell'altra.

«Ops?». La futura dottoressa Mun inclinò il capo, indurendo i lineamenti del viso. «OPS?!».

«Credi di potermi iniettare qualcosa?». Batté le ciglia, congiungendo le mani davanti al petto. «Qualcosa che mi metta fuori uso per qualche ora?». Supplicare non avrebbe funzionato con Eriki, ma era difficile anche per lei resistere al suo labbro sporgente.

L'altra arcò un sopracciglio.

Sbuffò, abbandonando il materasso. Doveva aver usato quel trucco troppe volte nella settimana precedente. Portare in stanza quel Timothy... Theo? Trent? Lo studente di lingue, insomma, era stato un azzardo mal calcolato.

«Va bene, andrò ad affrontare le conseguenze delle mie azioni». Buttò le braccia al cielo, marciando verso l'uscita della loro camera. Non era la vittima in quella situazione, ne era cosciente; tuttavia, protestare non era ancora un crimine. C'era un regolamento riguardo al vestiario, però. Rientrò nella stanza, afferrando la divisa che l'altra stava facendo dondolare con due dita. «Andare in pigiama potrebbe essere visto come provocazione, vero?».

Il suo supporto emotivo la spinse sul suo letto.

«Forza, per questa volta verrò con te». Per l'ultima, ebbe la gentilezza di omettere.

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