19. Vacanza

SECONDA PARTE

Il sole creava strani giochi di luce contro le vetrate del corridoio del Dipartimento di Letteratura inglese che stavo percorrendo quella mattina per recarmi a lezione.

Negli ultimi tre anni la mia vita aveva subito una svolta: mi ero liberata di quella strana gente; mio padre – che in realtà non era morto – era venuto a prendermi in quella notte terribile e mi aveva portato finalmente via. Ci eravamo trasferiti in Florida e la mia vita era a dir poco perfetta.

Di lì a poco avrei incontrato il mio ragazzo: Sam, biondo, capelli disordinati e con due stupendi occhi verdi. Giocai distrattamente con la frangia della mia gonna di jeans e ravvivai i capelli che non portavo più lunghi fino a metà schiena; adesso a mala pena sfioravano le mie spalle. Ero anche cresciuta in altezza – pensai con soddisfazione – mentre mi poggiavo al muro in attesa di Sam. Osservai i libri che stringevo tra le mani: amavo la letteratura? Certo che la ami, rispose la voce sconosciuta nella mia mente.

Dovevo concentrarmi sull'obiettivo. Quale obiettivo? Ah, sì certo: l'oggetto.  Non so bene a cosa servisse; mio padre mi aveva mostrato un disegno, una sorta di progetto e mi aveva chiesto di pensarci ogni tanto, come se avessi davvero potuto costruirlo. Ridicolo. Scacciai il pensiero, come sempre avevo fatto in quei tre anni quando qualche strano pensiero turbava la mia mente.

All'improvviso si sentì rumore di spari. I ragazzi nel corridoio si immobilizzarono. Io – disorientata – mi scostai dal muro osservando verso l'ingresso, da cui il rumore proveniva. Ci mancava solo qualche svitato che voleva farci fuori tutti in preda a deliri psicotici. Seguivo le notizie io, sapevo che capitava. La gente può essere dannatamente strana e pericolosa.

Gli spari si ripeterono e tutti si misero a urlare, correndo disordinatamente. Io no: rimasi immobile e ciò che vidi mi lasciò di sasso.

Il pavimento si era trasformato in un acciottolato sconnesso, di quelli che si vedono nei borghi europei antichi. Un uomo camminava ricoperto da una spessa mantella scura e teneva per mano un bambino piccolo – avrà avuto sei anni circa- i capelli biondi arruffati e dei vivissimi occhi color caramello. L'uomo, che era presumibilmente il padre, gli sorrise e si rivolse a lui: "Urian, è tempo di tornare a casa".

Chiusi gli occhi scuotendo la testa, cercando di scacciare quella strana e assurda visione e quando riaprii gli occhi le due figure erano scomparse. Ciò che vidi fu un ragazzo con un lungo cappotto nero che camminava risoluto verso di me, tenendo in mano una pistola.

No, no. Arretrai, rendendomi conto di non avere più tra le mani i libri. Ma dove...?

Mi raggiunse e a quel punto il ricordo di lui mi assalì. No! Non volevo, perché era venuto a cercarmi? Non appartenevo più a quella vita. Non aveva il diritto di rovinare tutto!

Mi si avvicinò fino a posare esitante una mano sulla mia guancia, mi osservò con attenzione con una strana espressione. Era dolore? "Da quanto tempo sei qui?".

Non capii, avrebbe dovuto ricordarlo. "Tre anni", balbettai cercando di scostarmi, ma non me lo permise. Uccidilo, puoi fargli esplodere la mente.

Cosa? No, io potevo semplicemente mandarlo via. Lo implorai. "Ti prego, vattene e lasciami stare, questa adesso è la mia vita".

Il suo sguardo si indurì. "No, Elise", disse con decisione. "Questa, è una menzogna".

I suoi occhi mutarono, le iridi divennero di un rosso acceso e percepii con la visione periferica le pareti come liquefarsi, gocce di colore che colavano dissolvendo il luogo in cui io credevo di trovarmi.

Combattei, stringendo gli occhi e ricostruendo la mia realtà, il mio dipartimento di letteratura inglese, io odio la letteratura inglese. I miei compagni di corso, il mio ragazzo. Luc? No, non Luc, Sam! Ma ha i suoi occhi...

Oddio, oddio.

"Non combattermi! Lascia che lo distrugga per te", e detto ciò avvicinò la fronte alla mia. Trattenne la mia testa vicino alla sua mentre percepii la sua mano infilarsi nella tasca della mia felpa. Ma quale felpa? Io indosso una camicetta di sangallo... Si scostò il tanto da mostrarmi un semplicissimo laccio rosso che mi fece boccheggiare per lo shock.

"Perché mai dovresti averlo con te qui, nella tua perfetta vita, dopo tre anni?", sussurrò concitato a un centimetro dal mio viso.

Mi sostenne, mentre i colori iniziarono a colare impetuosi, sfaldando la realtà farlocca che io stesso avevo creato e alimentato. La consapevolezza fu ciò che di più doloroso ebbi mai provato.

Nessun campus, nessun ragazzo, né amici. Solo polvere e deserto. Il carcere.

Riemersi dal mio stato di coscienza alterata urlando e liberandomi dalle braccia di Griffen nonché dal suo cappotto che stranamente copriva entrambi a mo' di coperta.

Scattai in piedi boccheggiando e guardandomi attorno disperata, osservando i volti attoniti che avevo praticamente dimenticato in quei tre anni che credevo di aver vissuto lontano da lì.

Fui circondata e sostenuta in un istante, braccia premurose che sapevano di condanna mi condussero verso il cortile di quel posto orribile. Qualcuno mi sistemò il cappotto sulle spalle, forse perché si gelava, ma non apparteneva a me; Mancavano quasi tutti i bottoni, registrò di sfuggita la mia mente turbata.

Mi voltai, cercando Griffen con lo sguardo. Feci giusto in tempo a vederlo stramazzare al suolo.

Urian.


Bentrovati! E buon Natale.

B.

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