1.Pazzia


Il ticchettio continuo del registratore di cassa riusciva a tenere momentaneamente sommersa la paura che mi attanagliava ormai da giorni. Sarà stato il settantesimo caffè che servivo quella sera nel piccolo locale di quella cittadina dimenticata da Dio, era solo l'ennesimo posto di passaggio, a breve ce ne saremmo andati. La voce nella mia testa si fece strada nonostante cercassi di reprimerla. Sei sicura che ce ne andremo? Tornerà? Deglutii mentre passavo lo straccio sul bancone. Mio padre non tornava a casa da una settimana e dentro di me stava prendendo piede la consapevolezza che non era un'assenza come tutte le altre, in cui sbrigava le sue faccende e poi tornava da me.

Stavolta era diverso. Lui mi diceva sempre di ascoltare la voce - di fidarmi- ma fidarmi significava ammettere che gli era accaduto qualcosa di terribile e che ero sola. Avevo sedici anni - certo,  sapevo come cavarmela - ma è una strana sensazione quella di avere la consapevolezza che nessuno si sarebbe più interessato a me, occupato di me e nonostante mio padre avesse dei limiti come genitore, sapevo che mi voleva bene e che aveva sempre fatto il massimo. Tirai indietro con stanchezza una ciocca dei miei capelli castani sfuggita alla coda e quando sollevai lo sguardo mi ritrovai a fissare un nuovo cliente.

Non lo avevo mai visto, ormai credevo di aver avuto modo di conoscere tutti i ragazzi del posto, ma lui lo avrei ricordato.

Avrà avuto una ventina d'anni, una massa di capelli disordinati biondo rossicci e occhi color caramello che fissavano con ostinazione un punto imprecisato della mia fronte. Perfetto, mi stava spuntando un altro maledetto brufolo.

"Cosa prendi?", chiesi cercando di celare il fastidio. Non potevo maltrattarlo, avevo bisogno di questo lavoro, ora più che mai.

Il suo sguardo divenne ancora più penetrante e ci mise qualche secondo di troppo a rispondere, il tanto da farmi afferrare al di sotto del ripiano del bancone il mio fido coltello a serramanico. Non ero una sprovveduta io, e sapevo anche usarlo molto bene all'occorrenza.

"Un caffè", rispose sovrappensiero.

Inquietante, come il suo lungo cappotto nero, doveva essere uno di quei nerd che al momento andavano molto di moda. Mi voltai con un minimo di apprensione: dare le spalle a un tizio che mi fa suonare i campanellini d'allarme in tutto il corpo andava contro ogni allenamento che mio padre mi aveva impartito, ma dovevo riempirgli la tazza da asporto. Non me la aveva chiesta, ma decisi di dargli la giusta motivazione ad andarsene alla svelta.

Feci il più in fretta possibile e gli porsi la tazza senza incrociare il suo sguardo.

Lui la afferrò e poi, senza smettere di osservarmi la lasciò cadere sul bancone, con ostentazione. Sobbalzai mentre il liquido ancora caldo si spargeva sul bancone e schizzava il mio grembiule color crema.

Ma allora non era pericoloso: era solo un grandissimo stronzo! Lo guardai a bocca aperta, raccogliendo le parole adatte ad insultarlo in maniera appropriata, mentre lui aggrottò le sopracciglia, vagamente a disagio, come se si fosse aspettato qualcosa da me, come se in qualche modo avessi fatto un che di imbarazzante. Stavo per lanciargli contro lo straccio quando il cuoco dalle cucine chiamò il mio nome, probabilmente l'ordine del tavolo numero due era pronto.

"Elise!".

Mi voltai automaticamente verso il retro, ma Greg il cuoco avrebbe dovuto aspettare perché io lì avevo da rimettere in riga mister capelli fluenti. Mi voltai immediatamente e... lui non c'era più, così come ogni traccia del caffè versato e della tazza vuota. Sul bancone perfettamente pulito spiccava una banconota da cinquanta dollari.

Rimasi immobile come congelata ad osservare il ripiano per un tempo indefinito. Annuii ai bisbigli che prontamente invasero la mia mente. Era decisamente tempo di tagliare la corda. Sarei andata via la notte stessa.

Fu dura attendere la chiusura; quel bastardo del mio capo, dopo avergli annunciato il mio licenziamento, aveva preteso che chiudessi io. I sussurri nella mia testa diventavano sempre più insistenti e la paura stava aumentando man mano che il buio calava e che gli avventori diminuivano. Continuavo a fissare la vetrina, attendendo che la porta si riaprisse e che il tizio con il cappotto venisse a non prendere sicuramente un caffè. Deglutii e mi rigirai nervosamente il coltellino tra le mani, mi dava sicurezza sentirne il familiare peso; lo poggiai solamente per togliermi il grembiule e infilare il vecchio giubbotto rosso che aveva un'assoluta necessità di andare in pensione. I polsini erano tutti consumati e le tasche sfondate. Questo è l'ultimo inverno, mi ripetei per l'ennesima volta, ma già sapevo che l'anno successivo mi sarei ritrovata impreparata al primo freddo e lo avrei indossato nuovamente. Tanto ormai dubitavo che sarei cresciuta ancora. Mi ero rassegnata a una vita sotto il metro e sessanta. Tuttavia, ripensando al giubbotto, era bello avere qualcosa che non cambia, una costante nella vita. Aspetta un attimo: sarò viva il prossimo inverno? Non so perché lo pensai, di sicuro non è l'ideale quando stai uscendo nel buio della notte da sola.

Le strade erano deserte, la mezzanotte era passata da un pezzo e tutti i bravi cittadini dormivano tranquilli nei loro letti, che poi che ne sapevo? La gente è piena di casini, è sbagliato non considerarlo, però... I miei al momento mi parevano peggiori.

Cercai di restare sotto il fascio di luce dei lampioni, ma a un certo punto per raggiungere casa dovevo attraversare un tratto sterrato e senza illuminazione. Sì, mio padre era un grande fan della privacy, i suoi problemi con la legge ci imponevano di stare defilati e non dare nell'occhio. Il che va benissimo finché non pensi che uno psicopatico stramboide con strani poteri paranormali potrebbe crearti dei problemi.

Un rumore alle mie spalle. Come nel peggiore dei film horror. Mi voltai senza smettere di camminare, nulla. Affrettai il passo, voltandomi nuovamente, cercando di concentrarmi sulla casa che già potevo scorgere nonostante l'oscurità. Era bianca, anonima, come tutte le altre che avevamo abitato. Un movimento nell'ombra alla mia sinistra. Non guardare negli angoli bui Elise, se non lo vedi non esiste. Così mi ripeteva sempre mio padre, ma è più facile a dirsi che a farsi. Ero sempre stata strana, ma mio padre aveva sempre rifiutato di portarmi da un medico nonostante avessi più volte sentito bisbigliare la parola "schizofrenia". In quei casi guardavo l'espressione di mio padre indurirsi e quando gli assistenti sociali continuavano a insinuare il dubbio che io avessi dei problemi, Il giorno dopo ci trasferivamo.

Potevo essere pazza, potevo accettarlo, eppure le spire di oscurità che vedevo sollevarsi dal suolo in quel momento sembravano talmente reali che volendo pur essere razionali a tutti i costi non potevano essere ignorate. 

Mi capitava a volte di scorgere cose strane con la coda dell'occhio, come se fossero visibili solo con la visione periferica. Se non mi ci soffermavo non erano reali, così mi ripetevo.

Il senso di pericolo aumentò come non mi era mai capitato prima e mi trovai a correre verso casa. Esultai dentro di me quando la chiave entrò al primo colpo e con il cuore in gola mi richiusi la porta alle spalle. Misi il catenaccio e feci scattare la serratura, dopodiché corsi in bagno e accesi il phon.

Lo tenni stretto mentre scivolavo lungo le piastrelle del vecchio bagno e chiusi gli occhi appoggiando la fronte contro le ginocchia. Rumore bianco, lo chiamano. Non so perché, ma avevo letto da qualche parte che aiutava i neonati a dormire. Nel mio caso fermava le voci e tornavo a respirare.

Piansi, per la prima volta in quella terribile settimana in cui, nonostante avessi cercato in tutti i modi di negarlo a me stessa, avevo sempre saputo che mio padre era morto; dal suo primo giorno di assenza.

Dopo un numero imprecisato di singhiozzi mi sentii meglio, nonostante il mio naso fosse diventato una massa informe di materiale gocciolante. Spensi il phon e tirai su la testa, poggiandola contro le piastrelle, e fu allora che gli avvertimenti nella mia testa esplosero a un volume assordante, arrabbiati di essere stati soffocati da un semplice elettrodomestico. Scattai in piedi e corsi in camera di mio padre. Sapevo dove cercare. Nel suo armadio, sotto il maglione a collo alto verde c'era la scatola dei biscotti danesi e no, dentro non c'erano ago e filo, ma una Glock con il caricatore inserito. Come sempre accadeva quando si trattava di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, una strana calma mi invase, procedetti a passo felpato verso l'ingresso in penombra e osservai. Le volute di fumo nero sembravano prendere vita, si insinuavano sotto la soglia, cercando un varco per entrare e... entrarono.

Ok, se davvero ero pazza perché diavolo mio padre aveva passato sedici anni ad allenarmi come se dovessi davvero difendere la mia vita? Perché insisteva affinché ascoltassi il mio istinto e colpissi più forte? Le alternative erano due: o qualcosa di strano esisteva davvero, o era pazzo anche lui, certe cose in fin dei conti sono genetiche.

La nebbia grigia stava diventando più densa, andando a formare una sorta di melma grigio scuro che sembrò accorgersi della mia presenza, si immobilizzò a pochi metri da me e iniziò a raggrupparsi, come a voler formare qualcosa di più grosso.

Pazza? Non pazza? Decisi in fretta: sollevai la pistola e la presenza informe avanzò verso di me a velocità impressionante. Arretrai freneticamente con le braccia tese, sentendomi una perfetta idiota all'idea di voler contrastare una cosa del genere con un'arma da fuoco, ma non avevo molte alternative, soprattutto nel momento in cui con la mia schiena arrivai al muro che si trovava dal lato opposto della porta.

Fu in quel momento che la porta d'ingresso esplose in mille frammenti informi, come pezzi di carta accartocciati su stessi. Al di là della cortina di quella strana roba vidi una figura stagliarsi sulla porta: un ragazzo con un lungo cappotto nero.

Cosa avreste fatto nei miei panni? Bé, per andare sul sicuro, io gli sparai.


Benvenuti nel primo capitolo della mia nuova folle storia!  Per il momento la trama è abbozzata nella mia mente e spero di riuscire a svilupparla come si deve.

Naturalmente se vi va, ditemi cosa ne pensate e se vi ha incuriosito un po' :)

 A presto!

B.


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