BONUS 3. ARCIERE PROVETTO
L'arena era diventata silenziosa all'imbrunire, immersa in una calma surreale che sembrava amplificare ogni minimo suono. Gliomede Capobianco si trovava nella sezione del poligono, il suo posto preferito nel Parco dei Gigli. L'odore acre della corda di canapa bruciata, delle frecce conficcate nel legno e del terreno polveroso, gli riempiva le narici. Quel profumo misto al silenzio era rassicurante, quasi ipnotico.
Il figlio di Ione alzò lo sguardo verso il bersaglio distante circa cinquanta metri. Il centro, marcato da un cerchio rosso vivido, sembrava sfidarlo, pulsando nella sua mente come un richiamo irrinunciabile. Nonostante la sua mira fosse definita perfetta da tutti i suoi fratelli, continuava a esercitarsi con ostinazione.
"Solo così potrò diventare infallibile. Ti renderò fiera, madre."
Non era solo questione di perfezione: era un obbligo, parte della sia routine giornaliera, un modo per placare la sua mente irrequieta e trovare un equilibrio.
Chiuse gli occhi per un istante, serrando la mascella.
Inspirò profondamente, contando nella sua mente.
"Otto... sette... sei..."
I numeri scorrevano, ciascuno cadenzato con precisione. Mentre contava, sentiva il mondo attorno a sé dissolversi. La sua mente si svuotava, lasciando spazio a una calma assoluta.
"Cinque... quattro... tre... due... uno... zero..."
Normalmente il pensiero comune avrebbe indicato quel conto alla rovescia come un ultimatum, che si sarebbe concluso con lo scoccare della freccia.
"Meno uno... meno due... meno tre... meno quattro... meno cinque..."
Quello era il suo mantra. Lo zero non era che un punto di mezzo.
"Meno sei... meno sette... meno otto..."
Una volta arrivato a quel numero, iniziò a risalire, come se il ciclo non fosse altro che un pendolo. Si spostava verso destra, verso sinistra e riportava il suo equilibrio al centro.
Quando raggiunse nuovamente l'otto, il suo respiro era lento e regolare.
Allungò un braccio, lasciando che la sua mano destra sfiorasse il suo arco personale, temporaneamente appoggiato alla rastrelliera. Il legno levigato aveva una consistenza calda, familiare sotto le dita. Ogni venatura raccontava storie di battaglie e di vittorie, di prove superate con fatica. Era un'arma che veniva trasmessa di rappresentante in rappresentante, un simbolo di comando per i figli di Ione.
Lo sollevò con delicatezza e lo osservò alla luce morbida dell'arena, mentre sentiva il mana iniziare a scorrere nei pori della sua pelle.
Il processo era naturale, ma non meno intenso. Il mana si infiltrava lentamente, come una corrente sottile che entrava dalla superficie del suo corpo e scivolava nelle vene. Gliomede lo percepì come un formicolio diffuso, che si concentrava gradualmente verso il suo sterno. Il nucleo divino, il centro del suo potere, pulsava piano, un groppo apparentemente impercettibile che si faceva sentire fin nella gola. Trattenne il fiato per un istante mentre il mana si accumulava, e poi espirò profondamente, svuotandosi.
La calma lo avvolse come un mantello invisibile, gli coprì la testa come un cappuccio.
Si chinò leggermente per afferrare una freccia dalla faretra appoggiata al fianco. Le sue dita si chiusero sul legno lucido, avvolgendolo con una presa sicura. La freccia sembrava gelida, ma quel freddo non era sgradevole; era naturale, rifletteva l'atteggiamento che ogni cacciatore doveva mantenere nei confronti della preda. Chiuse gli occhi un'altra volta e concentrò il mana nel palmo della mano, lasciandolo fluire dentro l'asta di legno.
La freccia cominciò a risplendere, prima con un bagliore tenue, poi con una luce argentea sempre più intensa. Gliomede avvertì una piccola vibrazione lungo il fusto della freccia, come se l'energia al suo interno stesse per traboccare.
"Perfetta" pensò, osservando il metallo scintillante come se fosse sul punto di esplodere. La magia che aveva infuso nell'arma sembrava viva, pronta a rispondere al suo comando.
Con un movimento fluido, incoccò la freccia e sollevò l'arco. Il legno scricchiolò appena quando tese la corda, ma il suono non gli aveva mai dato alcun fastidio. Al contrario, era un promemoria del suo controllo, della forza che aveva nelle mani.
Mirò al bersaglio, gli occhi fissi sul centro rosso.
La distanza non era nulla per lui; era abituato a colpire bersagli anche cento metri più lontano nelle sue sessioni più frenetiche, quando voleva allenare una situazione di battaglia. Eppure ogni colpo doveva essere considerata come una prova a sé, un'occasione per convincersi del proprio valore.
"Un giorno entrerò nei Fiori d'Equinozio" si ripromise, tendendo l'arco al massimo.
La freccia d'argento sembrava bruciare tra le sue dita, pronta a essere liberata. Gliomede era stufo di essere un semplice sentinella.
"Sette anni, sono qui da sette anni."
Aveva dato tutto per il parco, lavorando instancabilmente, e sentiva di meritare di più. Se avessero deciso di rifiutare la sua richiesta di entrare nel gruppo d'élite, allora avrebbero dovuto riconoscere il suo valore in altro modo.
Leader della pattuglia: un ruolo che rispecchiava il suo impegno.
"Sì. Io lo merito."
Inspirò profondamente un'ultima volta, lasciando che ogni dubbio si dissipasse. Poi, con un movimento deciso, rilasciò la corda.
La freccia partì con uno scatto fulmineo, attraversando l'aria con un sibilo acuto. Il bagliore argenteo lasciò una scia luminosa, un arco perfetto che sembrava sospeso nel tempo. Gliomede seguì il suo volo con lo sguardo, il respiro trattenuto mentre la freccia colpiva il centro preciso del bersaglio.
Un suono secco ruppe il silenzio dell'arena: il legno che cedeva al colpo con una precisione chirurgica. La freccia rimase lì, immobile e splendida, come un simbolo del suo talento. Un attimo dopo, la luce che la avvolgeva brillò, ma non aveva intenzione di richiamarla a sé. Lascio che si spegnesse lentamente, lasciandola tornare alla sua forma originaria.
Gliomede abbassò l'arco e si lasciò andare a un'espressione soddisfatta.
Era un colpo perfetto, come sempre, ma non bastava.
Non gli bastava mai.
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