2. IL PARCO DEI GIGLI
Marina camminava a passo lento attraverso il parco, le mani infilate nelle tasche della sua giacca grigia, colore standard assegnato ai figli di Ien. I suoi occhi azzurri si spostavano distrattamente da un fiore all'altro, ma il suo sguardo sembrava distante, poiché qualcosa di più profondo la stava tormentando. I suoi capelli biondi faticavano a mantenere l'ordinata acconciature del caschetto e ondeggiavano leggermente sotto il vento, ma lei sembrava non accorgersene.
Il Parco dei Gigli si estendeva come un'oasi di tranquillità, circondato da una cornice di natura e bellezza senza pari. La sua struttura richiamava una sorta di campeggio, ma con un'aura mistica che solo gli Stirpemista potevano percepire. Al centro di quel luogo quasi sacro, due piazze erano delimitate da ventiquattro case eterogenee disposte in un doppio cerchio perfetto, una disposizione che ricordava il simbolo dell'infinito.
Gli edifici, alcuni semplici, altri eleganti, erano piuttosto variegati sia in dimensioni che in stile, ma tutti si armonizzavano in modo perfetto con l'ambiente circostante, come se la natura stessa avesse voluto integrarle nel paesaggio.
Il giardino naturale che costellava ogni minima zona libera del parco era un tripudio di colori e profumi. I gigli bianchi, che davano il nome al luogo, si piegavano dolcemente sotto il vento leggero, i loro petali brillavano di un riflesso luminoso, come se essi stessi emanassero le particelle di mana che permeavano l'atmosfera.
Alberi alti e maestosi, offrivano riparo dal sole di ottobre, mentre i loro rami si curvavano in archi naturali sopra i sentieri, creando percorsi ombrosi e tranquilli. In mezzo al parco, piccole vie di ghiaia conducevano verso luoghi diversi: la spiaggia, con la sua sabbia scintillante e le acque che lambivano delicatamente la riva; l'arena, dove gli Stirpemista potevano far pratica con le loro abilità oppure sfidarsi fra loro per migliorare; e infine il promontorio dei templi, una zona rialzata che sovrastava l'intera area, dove si ergeva l'edificio principale della dirigenza e i templi dedicati agli dèi.
Ogni respiro dell'aria era carico di mana, un'energia pulsante che vibrava tra le foglie degli alberi, penetrando la pelle e i pensieri di chiunque si trovasse lì.
Gli Stirpemista venivano portati in quel luogo per imparare a conoscere la loro vera natura, per scoprire ciò che li rendeva speciali. Per alcuni era nient'altro che un rifugio, ma fungeva allo stesso tempo da scuola, tempio e campo di battaglia sia fisico che mentale, dove le identità della nuova generazione venivano forgiate.
Marina attraversò la piazza centrale, il cuore pulsante del parco.
Al centro del luogo, una statua monumentale dominava lo spazio: quattro figure eroiche scolpite, con espressioni solenni e pose che suggerivano una grande battaglia in corso. Erano gli eroi scomparsi, Stirpemista leggendari provenienti dall'Accademia dei Narcisi che avevano lasciato un vuoto incolmabile solo pochi anni prima.
"Chissà che fine hanno fatto, gli dèi hanno perso quattro valorosi generali per il loro esercito."
Ogni volta che la ragazza guardava quella statua, un senso di malinconia e mistero si faceva strada nel suo cuore. Provò a ricordare i loro nomi ma, per qualche motivo ignoto, la sua memoria ferrea decise di tradirla.
"I loro nomi erano... perché non mi vengono in mente? Ce li ho sulla punta della lingua."
Rimase alcuni minuti a riflettere, prima di sbuffare. Tra le più spiccate caratteristiche dei figli di Ien rientrava una memoria quasi fotografica, dunque non riusciva a comprendere perché le informazioni le stessero sfuggendo.
Aspettò ancora un minuto, prima di scuotere la testa con fastidio e proseguire oltre. I suoi pensieri si spostarono su Shirei, il presunto Erede Proibito conosciuto quella mattina.
Liceo le aveva chiesto di tenerlo d'occhio, ma lui era scomparso improvvisamente alla fine della lezione e lei non sapeva proprio dove trovarlo.
Marina si fermò per un momento, i suoi pensieri concentrati su di lui. Dove poteva essere? La sua mente non riusciva a trovare risposte.
"Mi servirebbero più informazioni per formulare delle ipotesi valide."
Da quando era scomparso, il chiasso mattiniero intorno a lei era diventato un sottofondo per risolvere un enigma che la divorava dall'interno. Non sapeva dare una spiegazione a quello che stava provando, ma sentiva di aver conosciuto qualcuno che aveva il potenziale di essere davvero interessante.
"E la mia indole curiosa non fa altro che spingermi a cercare altre notizie su di lui."
C'era qualcosa in lui, oltre ai ricordi latenti, che la attraeva.
"L'influenza di suo padre, forse? Sempre se è il suo genitore divino."
Ammesso che Shirei fosse un figlio di Cragar, Marina si domandava come avesse fatto a sopravvivere così a lungo senza giungere al parco, se fosse fuggito dai mostri per tutto quel tempo o se fosse stato portato via dall'Accademia dei Narcisi dopo la sua improvvisa perdita di memoria.
Il mistero dello Stirpemista dagli occhi viola l'aveva decisamente catturata.
"Non ha senso pensarci se non riesco prima a trovarlo."
Constatò Marina prima di riprendere il proprio cammino. La sua destinazione era la settima casa, la dimora dei figli di Ien.
Per quanto non volesse ammetterlo, essere una figlia della dea della saggezza comportava delle responsabilità, non solo nei confronti degli altri, ma anche verso sé stessa. Dopo i suoi primi anni, l'avevano anche ritenuta perfetta per tenere lezioni come membro dello staff.
Essere sempre il faro di luce per i nuovi arrivati, la guida che tutti cercavano, era un peso che a volte la opprimeva. Eppure, nonostante tutto quello, amava profondamente il Parco dei Gigli. Per lei, era uno dei pochi luoghi in cui riusciva a trovare una vera pace, lontano dal caos delle responsabilità familiari e dalle aspettative che gravavano sulle sue spalle fin dall'infanzia.
Ogni volta che attraversava i sentieri del parco, non riusciva a fare a meno di sentire un legame profondo con quella terra. Era come se il mana che scorreva nell'aria le parlasse, le sussurrasse parole di conforto e di saggezza che a lungo aveva cercato da sua madre.
Lì, tra alberi e gigli, poteva permettersi di essere sé stessa. Senza maschere, senza dover fingere per impressionare gli adulti o la sua casata.
Lì, le pressioni del mondo esterno si dissolvevano e tutto ciò che rimaneva era Marina, pura e semplice.
Riprese il cammino verso casa e il suo pensiero tornò di nuovo a Shirei. Si soffermò sul volto del ragazzo, sui suoi calmi occhi viola. Non riusciva a spiegarselo ma sentiva che, in qualche modo, il loro destino fosse legato, come se quelle iridi purpuree nascondessero una verità da tanto sopita nei loro animi.
Un vuoto che un tempo era ripieno di ricordi.
"Lo sto pensando davvero?" domandò a se stessa dopo aver rallentato. "Forse il mana mi sta dando alla testa. Sto cominciando a farmi troppe paranoie per uno Stirpemista, come se non ne vedessi di nuovi ogni settimana."
Alla fine, si fermò davanti alla porta della settima casa. Il vento le scompigliò leggermente i capelli e, per un istante, ebbe la sensazione che una presenza invisibile la stesse osservando. Si voltò di scatto, ma non c'era nessuno. Solo il parco, che cominciava a diventare movimentato e rumoroso, era lì a farle compagnia.
Fece un respiro profondo e varcò la soglia.
Proseguì fino alla camera che condivideva con i suoi fratellastri e chiuse la porta dietro di sé con un gesto leggero, lasciando fuori il vento e i suoni del Parco dei Gigli.
"Dovrei recuperare la colazione, ho ancora una fame" pensò appoggiando una mano sul suo stomaco.
Aveva quasi deciso di andare alla mensa, quando si fermò un attimo a osservare la sua scrivania. Su di essa c'era un disordine quasi controllato: appunti, pergamene e libri che aveva lasciato aperti la sera prima. Senza esitare, Marina iniziò a riordinare. Rimise i volumi al loro posto e organizzò in fretta gli appunti in pile ordinate. Un quaderno, in particolare, attirò la sua attenzione: un fascicolo con note sui figli di Cragar, che aveva lasciato aperto in fretta, interrotta dall'improvvisa ondata di sonno che l'aveva presa la notte precedente.
Sfogliò le pagine, osservando le informazioni raccolte dalle sue giornate condivise con la sua migliore amica. Cragar, dio dei morti e dell'Oltremondo, aveva una progenie dal potenziale devastante. I suoi figli erano rari, spesso portatori di caos e cambiamenti, come calamità che alteravano ogni cosa al loro passaggio.
"E tu, Shirei, sei proprio questo, non è così?"
Chiuse il quaderno con un sospiro, allontanando per un attimo quei pensieri dalla sua mente. Si lasciò cadere sul letto, lo sguardo fisso al soffitto, mentre la sua mente si perdeva in un vortice di riflessioni. Essere una figlia di Ien le aveva sempre dato un profondo senso di orgoglio, ma a volte si domandava cosa significasse davvero. Cosa implicava portare il peso della saggezza su di sé? Non era mai stata una di quelle persone che si perdevano nell'entusiasmo del potere o della forza fisica.
"Già, ormai sto crescendo... devo capire cosa fare dei doni che ho ereditato."
Si sentiva felice di poter essere una guida per i nuovi arrivati. Ogni giorno Stirpemista confusi e spaventati giungevano al parco, strappati dalle loro vite ordinarie per essere catapultati in un mondo di mostri, divinità e poteri sovrannaturali.
Era suo compito aiutarli a orientarsi, a trovare un senso in tutto quello. Lei, tuttavia, non aveva mai avuto quell'esperienza di smarrimento. Fin da bambina, aveva saputo di essere diversa, solo non in quel senso. Gli dèi, i mostri e le leggende non erano altro che la sua quotidianità. Aveva visto da subito le dinamiche di quel mondo sovrannaturale, crescendo con la consapevolezza di essere destinata a qualcosa di più grande.
"O, almeno, è quello per cui mi hanno educata."
Marina si spostò sul letto, sedendosi con la schiena appoggiata al muro e le gambe incrociate. Nonostante le sue responsabilità, nonostante il rispetto e l'ammirazione che riceveva dagli altri, c'era una parte di lei che si sentiva profondamente sola. Pochi capivano davvero cosa significasse portare il peso di essere lei.
Sorridere, insegnare ed essere la persona solare che tutti cercavano nei momenti di difficoltà. Ma dentro, c'erano momenti in cui la solitudine la colpiva con forza. Pensava molto, troppo forse. Spesso, quando i pensieri si addensavano, diventavano un vortice che la risucchiava.
«Essere una Lupi...»
Tornò a guardare le pareti.
L'architettura e l'arte erano diventate la sua scappatoia mentale.
Quando si perdeva nei progetti o nelle strutture, quando immaginava palazzi, città, ponti che sfidavano la gravità, la sua mente si liberava dalle preoccupazioni. Ogni dettaglio di una colonna, di un arco, di una finestra cesellata, le permetteva di isolarsi da quel peso opprimente, di trovare ordine nel caos. Le linee precise e i calcoli strutturali le davano un senso di controllo che, nella sua vita, sembrava sempre sfuggirle.
Si domandò da quale dei suoi genitori avesse ereditato quelle passioni e sorrise inconsciamente.
Ma, nonostante quei momenti di evasione, la sua mente tornava sempre al legame che la univa a sua madre. Ien, la dea della saggezza, era una figura distante, eppure presente in ogni suo pensiero.
Essere attenti significava vedere ciò che gli altri non vedevano, significava anticipare le conseguenze delle proprie azioni e di quelle altrui, essere consapevoli delle possibilità e dei pericoli.
Quella consapevolezza, però, l'aveva allontanata dai suoi coetanei. Mentre gli altri si perdevano in giochi e scherzi, Marina sentiva di dover sempre mantenere una certa serietà, una responsabilità che non poteva permettersi di ignorare. Non poteva essere spensierata come gli altri e ciò la rendeva, agli occhi di molti, distante, forse addirittura fredda alle volte. Anche se dentro di sé, il suo animo era pieno di emozioni complesse, spesso contrastanti.
"Forse è per questo che mi trovo così bene con altri impopolari... mi identifico in una di loro e mi trovo a mio agio."
Si chiese se Ien la stesse osservando in quel momento. Forse la dea era sempre lì, in agguato nei suoi pensieri, pronta a intervenire se necessario. Cosa avrebbe pensato di lei? Marina rifletteva spesso su quella domanda.
Era stata all'altezza delle aspettative che Ien si era fatta su di lei? Era difficile dirlo.
"Chissà se mi ritiene anche solo speciale, non sono la sua unica figlia dopotutto."
A volte, il suo cervello non le offriva risposte chiare, ma solo ulteriori domande. Da una parte c'era il dovere di essere una leader per gli altri, una buona figlia per la propria famiglia e un motivo di orgoglio per sua madre. Dall'altra, avrebbe buttato tutto al vento pur di realizzare il desiderio di essere semplicemente sé stessa, una ragazza con sogni e aspirazioni, con incertezze e paure.
"Un'adolescente..."
Qual era il suo posto? Era destinata a seguire le orme di altri prima di lei, essere un faro in un mondo in continuo tumulto, o avrebbe potuto scegliere un cammino diverso? Uno che l'avrebbe allontanata dalla propria eredità, magari.
Era in quelle situazioni che le giornate passavano più velocemente, eppure Marina si sentiva intrappolata in una sorta di stasi che la distraeva.
Le era già capitato in passato.
Si chiese, per caso, se anche Shirei, come lei, si fosse sentito prigioniero di un destino che non aveva scelto. Forse stava cercando una via di fuga dalla sua eredità da figlio di Cragar.
"Sempre ammesso che sia suo padre."
Marina si lasciò andare contro il cuscino, cercando di liberare la mente. Gli ultimi pensieri su Shirei continuavano a tormentarla, ma in qualche modo, doveva accettare che non c'erano risposte immediate. Era inutile continuare a cercare indizi laddove aveva già analizzato tutto quello che aveva visto. Aveva memorizzato tutto ciò che aveva visto e sentito, ma la realtà era che, a meno che lui non avesse deciso di farsi vivo, ogni ricerca sarebbe stata un viaggio nel buio.
Sospirò pesantemente, rassegnandosi al fatto che, per il momento, Shirei sarebbe rimasto un enigma irrisolto. Quel pensiero le lasciava un senso di vuoto, come se le fosse stato sottratto uno scopo.
Era presto e la giornata sembrava già priva di direzione. Dalia, la sua migliore amica, probabilmente dormiva ancora. Aveva l'abitudine di svegliarsi tardi, lasciando Marina da sola nelle prime ore del mattino. La solitudine, che di solito le offriva lo spazio per riflettere, in quel momento sembrava un po' troppo opprimente.
Decise di alzarsi con uno scatto.
Non poteva restare lì, chiusa nella stanza, intrappolata nei suoi pensieri. Aveva bisogno di qualcosa che le desse conforto, qualcosa di familiare e rassicurante.
Nebula, il suo cavallo, le venne subito in mente.
Nelle stalle poteva sempre trovare un po' di pace. Era l'unico essere che sembrava capirla senza bisogno di parole, e quel legame profondo era spesso l'unico rifugio nei momenti di smarrimento.
Marina si sistemò velocemente la felpa grigia e si incamminò fuori dalla casa. L'aria fresca del mattino la colpì di nuovo, un sollievo dopo il calore soffocante dei suoi pensieri.
Il Parco dei Gigli aveva abbandonato del tutto il silenzio della prima mattinata. La luce del sole filtrava tra le fronde dorate degli alberi, creando ombre lunghe e sinuose sul sentiero che conduceva alle stalle. Il giardino di gigli bianchi, che Marina aveva sempre ammirato, quella mattina sembrava meno splendente, forse riflettendo il suo stato d'animo cupo.
Il suo ritmo era lento, cadenzato dai passi regolari sulla ghiaia del sentiero. Il vento leggero che le accarezzava il viso sembrava portare con sé una promessa di serenità, ma Marina non riusciva a liberarsi del nodo che sentiva al petto.
"Liceo, dovevi proprio presentarmelo? Lo sai come sono fatta. Adesso non riesco più a togliermelo dalla testa!"
Dopo alcuni minuti, raggiunse finalmente il posto, un edificio elegante ma semplice, costruito in legno dorato e pietra chiara, come altre svariate strutture secondarie del parco, quale la baita sulla spiaggia.
Entrò, respirando subito l'odore familiare di fieno fresco e di animali. Si fermò per un attimo nell'ingresso, ascoltando il rumore delicato degli zoccoli che graffiavano il pavimento e il respiro calmo dei cavalli che riposavano nelle loro stalle. Si incamminò tra le file di box, fino a raggiungere quello di Nebula, il suo cavallo dal manto color ruggine.
Non appena l'animale la vide, alzò la testa e sbuffò piano, come se l'avesse riconosciuta subito. Un piccolo sorriso si fece strada sulle labbra di Marina.
«Ciao, Nebula,» mormorò, sentendo finalmente un po' di pace tornare nel suo cuore.
Marina osservava il purosangue, perdendosi nel lento movimento del suo respiro. Gli occhi profondi dell'animale la osservavano con una calma silenziosa, quasi come se potesse comprendere ciò che lei non riusciva a esprimere a parole.
Nebula era un cavallo maestoso e che non apparteneva al regno mortale. Era più di un semplice animale: l'unico ricordo che aveva deciso di portare con sé alla sua partenza.
"Non ti avrei abbandonata lì per nulla al mondo."
Nebula emise un piccolo nitrito, come per salutarla. Marina sorrise, più per abitudine che per reale allegria, e afferrò una spazzola appesa alla parete della stalla. Cominciò a passargliela sul manto, un gesto automatico. Le setole scorrevano leggere sui peli lucidi del cavallo, e mentre eseguiva quel movimento ripetitivo, sentì la tensione scivolare via, come se i suoi pensieri potessero trovare una sorta di pace momentanea in quel semplice atto affettuoso.
«È stata una mattinata strana, sai?» domandò in modo retorico alla compagna, come se il cavallo potesse davvero capire.
«Non riesco a smettere di pensare a questo nuovo ragazzo, a dove possa essere andato e perché sia scomparso così all'improvviso. Forse è stupido preoccuparsi così tanto, ma non posso farne a meno.»
Nebula sembrava ascoltarla, il suo respiro regolare e il lieve scuotere della criniera erano l'unica risposta. Marina continuò a spazzolare in silenzio, trovando sollievo in quell'interazione tranquilla.
Poi, come un sussurro portato dal vento, qualcosa cercò di catturare la sua attenzione. Al margine della vista, tra i boschi dorati che circondavano il parco, un bagliore improvviso fece capolino tra gli alberi. Marina continuò a spazzolare senza voltarsi, il cuore che accelerava leggermente. Tra le fronde, una figura eterea prese forma. Non era chiaramente visibile, ma sembrava quasi un lupo di luce, un'apparizione trasparente e brillante, che si muoveva con grazia nella natura. Il mana sembrò risuonare nel petto della figlia di Ien, risvegliando in minima parte i poteri che lei tendeva a non utilizzare.
Il cuore di Marina cominciò a battere forte mentre provava a immaginare cosa o chi potesse esserci dietro di lei.
Non era sicura di cosa significasse, ma sapeva che non era un caso.
Ien. Doveva essere sua madre.
La dea della saggezza aveva intuito il suo stato d'animo e stava cercando di comunicare con lei, anche se non direttamente. La strana sensazione era una mera manifestazione del potere e della presenza divina, forse un promemoria che lei non era mai davvero sola, anche nei momenti di dubbio.
L'apparizione svanì così come si era materializzata, dissolvendosi tra le ombre degli alberi, prima che Marina potesse decidersi se girarsi a guardarla o meno.
Forse sua madre la stava osservando.
Forse, in qualche modo, aveva sempre vegliato su di lei.
Marina abbassò lo sguardo e continuò a spazzolare Nebula, con movimenti lenti e attenti.
«Probabilmente è solo quello di cui ho bisogno,» sussurrò alla creatura, «sapere che i miei sforzi non passano inosservati.»
Nebula sbuffò di nuovo, come a confermare le sue parole. Quella reazione fece sorridere Marina, la quale batté le mani e annunciò: «Bene, ragazza! È ora che ti racconti della lezione di stamattina!»
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