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2 Gennaio 1971, Vezza D'Alba (Langhe), Piemonte.
Da bambina, Sofia Grimaldi odiava la solitudine. Cercava in tutti i modi di combatterla occupando il tempo a giocare con le proprie fantasie, creando storie che prendevano vita tramite la recitazione data alle bambole regalatele da suo padre, oppure creandosi amici immaginari con cui parlare, perché di veri non ne aveva. Il suo cognome metteva così tanta paura che gli altri scappavano da lei, nonostante il suo sguardo innocente e i fiocchi pieni di purezza che si metteva tra i capelli.
Era sempre stata una bambina precisa e attenta. Amava l'ordine, le piaceva che tutto fosse esattamente come comandava lei, fino a sorridere dall'alto, guardando le proprie cose, nella goduria infantile di vedere tutto in proprio possesso, senza nessuno con cui dividerlo.
Alcuni avrebbero potuto ritenerla una ragazzina egoista ma la realtà era che Sofia stringeva a sé tutte le sue cose per colmare il vuoto che aveva intorno e troppo presto aveva imparato che essere temuta le avrebbe dato una scusa per giustificare l'assenza di persone vicino a lei.
Se solo qualcuno le avesse chiesto perché non aveva un'amica con cui passare i pomeriggi a giocare o perché non preferisse andare a casa di qualche sua collega di scuola a ripassare le materie per il giorno dopo a Sofia sarebbe bastato dire che semplicemente non voleva. Preferiva rimanere sola piuttosto che parlare con gente che aveva troppa paura di lei. Allora, a quel punto, l'impiccione di turno, solitamente appartenente alla cerchia ristretta degli amici dei suoi familiari, le avrebbe chiesto il perché di quella paura nei suoi riguardi e la piccola Sofia avrebbe saputo rispondere in un modo malvagio, privo di empatia.
"Perché il cognome Grimaldi ha un valore. Se non lo sai ti conviene impararlo".
Riusciva a zittire tutti in questo modo, gradi e piccoli, e per questo ne andava molto fiera. Con gli anni aveva imparato a fare i conti con quel vuoto, finché non aveva concesso ad un ragazzo di abitarvi.
Avevano a malapena vent'anni e lui, del tutto indifferente ai suoi commenti maligni e sarcastici, aveva preferito farsi avanti e parlarle piuttosto che agire nelle retrovie come facevano il resto dei suoi compagni. Sofia glielo aveva permesso, in fondo Davide era un tipo silenzioso e non le sembrava male condividere la propria vita con qualcuno, purché non le chiedesse niente in cambio. Quando aveva richiesto un bacio le era apparso sfrontato. Lui l'aveva presa in giro. "Hai vent'anni e non hai mai baciato un ragazzo?". Aveva finalmente trovato una domanda pungente il doppio di quella che lei rivolgeva ad altri, ma Davide l'aveva fatto senza alcun odio. Era davvero curioso della sua vita e del suo modo di andare avanti imperterrita e perfettina, provando il desiderio di entrare all'interno del suo ordine e sconvolgere tutto.
Veniva da un mondo totalmente diverso dal suo. Davide era povero e forse stranamente o proprio per questo i soldi per lui non avevano alcun valore. Non le importava che Sofia ne fosse cosparsa, né che suo padre Pietro facesse paura a qualsiasi ragazzo le passasse vicino perché la verità è che voleva solo scoprire che genere di ragazza fosse e cosa le piacesse davvero, oltre ciò che le veniva imposto.
Era occorso poco tempo prima che Sofia si innamorasse di lui, di quel ragazzo scapestrato con i capelli sconvolti e le mani costantemente in tasca che la fissava con troppo sarcasmo per non risultare la gran parte delle volte un antipatico.
Aveva paura che non l'amasse abbastanza.
Paura che sapesse solo giocare con lei e si fosse imposto il compito di spezzarle il cuore, così imparava a far credere di esserne priva non appena qualcuno le parlava. La riprendeva persino quando diceva ad altri frasi troppo dure, ripetendole una volta soli che lei in verità non era così e che doveva smettere di esserlo con gli altri.
Vivere i panni di suo padre non era il suo sogno, come non lo era dirigere la sua compagnia o finire per vestire le sue scarpe. Doveva smettere di fingere che fosse così e cercare una propria indipendenza, prima di finire del tutto assorbita.
Sofia lo amava.
Ma non rimase sorpresa quando lui la tradì.
Le cose non andavano bene da tempo e lo sapevano entrambi. Non lo ascoltava più quando lui cercava di parlarle, aveva smesso di farlo da quando il pianto dei loro figli aveva coperto ogni cosa, la notte, quando lei doveva tentare di dormire per risultare accettabile a lavoro il giorno dopo.
Odiava essere ripresa da suo padre e suo padre odiava più di tutto vederla addormentata sotto i suoi comandi.
Davide parlava molto, ma lei non lo sentiva più e così aveva l'uomo aveva cercato altro. Finalmente, una donna che non fosse lei e che potesse essergli più giusta.
Sapeva da tempo che avesse bisogno di una donna diversa, ma la verità era che era stata Sofia a spingere una donna simile tra le sue braccia, senza che il desiderio provenisse da Davide per primo... e Davide, per essere finalmente considerato da Sofia, era uscito con quell'amante di cui poi si era innamorato e dalla quale era nato il piccolo Claudio.
Vederlo crescere quel bambino come un loro figlio era stato un pugno al cuore, una stilettata allo stomaco, un grido di orrore per tutto ciò a cui lei stessa li aveva condotti ma niente era più riparabile. Niente.
Il vuoto le si era ripristinato intorno e Sofia era tornata a giocare con le proprie marionette. Dipendenti, familiari, che importava chi fossero purché riuscissero a riempire quel vuoto? Tutte quelle cene, nella casa di famiglia... quelle forzature intorno al tavolo del soggiorno, quei giochi al massacro, quei tentativi di nascondere dietro gli altri il proprio dolore.
Sofia è una donna matura, ormai, con i capelli ingrigiti dall'età per quanto tenti di nasconderlo con le tinte fatte in casa. I capelli corti, come sono sempre piaciuti a suo padre, sono diventati crespi e ispidi da quando ha cessato di curarli.
Non le piace nemmeno il contatto con loro.
O meglio, non le piace passarvi le mani da quando, avendo acconsentito per un periodo a farli crescere, concedeva a Davide di intrecciarvi le mani. Detesta farlo da allora. Un po' per odio. Molto per dolore. Anche non sentire le sue mani è percepire un vuoto e quel genere di oblio non si cancella nemmeno con una frase piena di veleno.
Possibile che i suoi figli siano cresciuti l'uno tanto diverso dall'altro? Possibile, dal momento che Sofia ha sempre avuto una doppia vita. Lo crede fermamente. Crede che il veleno serpeggiante le vene di suo padre sia finito in quelle di Mattia come un sigillo indelebile. Suo figlio non ha colpa, ha solo avuto sfortuna... mentre a Diego è scivolato nelle vene il sangue di Davide, vedendosi mescolata bontà e malignità al tempo stesso, dinanzi l'analisi di un torto. Non vorrebbe che fossero tanto divisi ma ormai non può più negare a se stessa questa distinzione, eppure dove è finito il buono all'interno del male? Mattia ne possiede, tra il suo controllo, la sua furia e la sua preoccupazione? E Diego dove lo cela? Ne cela, tra i tradimenti che ha perpetuato, tra il suo distaccarsi in freddezza da una situazione scomoda, rifuggendone, e nell'odio che sembra sgorgare dal suo cuore ad ogni parola che pronuncia a seguito di un leggero dolore? E Sofia ne possiede?
No, di quest'ultima cosa ne è certa. Il bene se ne è andato ormai. È caduto assieme ai suoi capelli quando nella metà di una notte di lacrime li aveva tagliati con delle forbici nel bagno della loro camera.
E allora in cosa credere? Dove può essere il bene? Non è in Valeria, con tutta la vendetta che ha assorbito. Non è in Diego, con il suo rancore e non è in Mattia con il suo sospetto. È certa che non sia in Silvia, per tutta la cattiveria che possiede e con la quale è stata pronta ad abbandonare chiunque pur di averla vinta lei sola, persino i suoi figli. Forse è in Claudio, ma anche lui ha tradito. Se si fosse trattato solo di un auto sabotaggio potrebbe quasi essere giustificato... inoltre non è in Maurizio, perché troppe cose hanno riempito d'orrore la sua vita prima di portarlo al matrimonio.
Il bene è in Manila. Sì, è in Manila. E Sofia deve fermarsi prima di fare del male anche a lei.
Il bene è in Gaia, persino se è troppo piccola. Sofia non è stata mai una bambina come lo è diventata lei. Deve fermarsi. Deve smettere di seminare odio. Deve cessare di ammalorare le vigne del proprio casolare.
«Mamma... ho bisogno che tu faccia una cosa per me.»
Sofia chiude gli occhi a quella voce che non si era sentita vicina da troppo tempo e alla richiesta che scaturisce proprio da lui, tornato nel soggiorno della casa in cui è cresciuto.
Quando ritrova la forza per aprire gli occhi, si volta verso Diego con un sorriso sarcastico, cercando con tutta se stessa di non mostrarsi debole dinanzi il suo rancore.
«Per caso quello è l'accordo relativo alla cessione delle quote?»
«Ho bisogno che tu lo firmi, in modo da mettere fine a tutto questo.»
«E perché dovrei farlo? Ti ritieni un capo migliore di me, dentro quest'azienda? La guido da oltre quarant'anni... non puoi credere di riuscire a fare di meglio.»
«Non voglio guidarla, voglio solo liberarla da Mattia. Concedendomi le tue quote mi doni la maggioranza e la libertà di decretarne la ripartizione.»
«"Ripartizione?" Cosa vuoi fare, vuoi smembrarla?»
Diego assorbe in silenzio quella supplica piena di orrore, prima di abbassare la testa e posare il foglio, assieme ad una penna, sul tavolo della sala.
Anche Sofia abbassa lo sguardo, ma lo fa con orrore, vedendo la lista di firme che hanno ceduto il loro possesso. Manca solo un rigo, il suo, per completare la piena maggioranza. Superata quella, e ottenuto il 30%, Diego diviene il possessore del 56% della società e quindi proprietario maggioritario rispetto al 44% detenuto da suo fratello. Cosa vuole farne di quel potere non è dato saperlo.
«Credi ancora in tutto questo, mamma? Vedi ancora un futuro, nelle mani di Mattia? Anche dopo quello che è successo la scorsa notte?»
«Che ne sai di quello che è successo la scorsa notte?» Chiede lei con orrore, fissando suo figlio come un estraneo.
«I camerieri parlano. Ho saputo di come Mattia ti si è rivolto... mi hanno detto che sembrava isterico, quasi un matto... Ha rotto tutte le bottiglie di casa e poi è rimasto seduto sul pavimento, premuto vicino ad un angolo della stanza, con le mani sulle orecchie e gli occhi serrati.»
«Aveva paura dei fuochi d'artificio.»
«Ha dei problemi, mamma, ed è ora che anche tu te ne accorga.»
«Tu invece ti sei risparmiato da tutto, non è così?»
Avanza verso di lui che in risposta non muove un solo passo, accettando che lei lo fronteggi.
«Puoi arrabbiarti con me, se farlo ti ricorda mio padre.»
La frase la lascia in silenzio a covare un odio profondo per l'avventatezza del figlio.
«Credi di aiutarmi, così?»
«Spero di farlo, perché sei mia madre e per quanto tu creda non l'ho mai dimenticato.» Sofia rimane in silenzio, fissando Diego dritto negli occhi. «Hai sempre proiettato mio padre in me... forse è anche per questo motivo se continui ad amarmi.»
«Rimarrai con lei, non è vero? Anche se ti porterà via da me.»
Diego esita a riferire le parole successive, scegliendo la verità con accuratezza.
«Non è un tradimento.»
«No... perché tu la ami davvero. L'ho visto, ieri sera. Ho visto come ti sei alzato da tavola credendo che Mattia fosse pronto a rivolgersi contro di noi. Valeria non l'ha notato ma io l'ho fatto. Sei scattato in piedi, avevi paura che avesse preso qualcosa dal mobile delle bottiglie e sei arrivato alle spalle di tua moglie, dando la schiena a tuo fratello e guardandomi negli occhi... forse credendo che fosse un modo per farlo sentire indifeso e incapace di attaccare, confidando nel fatto che l'avrei tradito.»
Il silenzio di Diego è evidente nel risponderle, al che Sofia sorride, annuendo ingenuamente.
«E la verità è che lo avrei fatto, ma che tuo fratello ha deciso di non colpirti, Diego. Se c'è una cosa che ho capito in tutti questi anni è che le persone possono cambiare o essere totalmente diverse da come le si immagina. Addirittura, possono sorprenderti. Lascia su quel tavolo la richiesta, ci penserò con più calma.»
A passo lento Sofia si allontana da suo figlio, dirigendosi verso la propria camera prima di ripensarci e rivolgersi di nuovo nella sua direzione.
«Non solo me lo ricordi, sei la sua fotocopia. Per questo sono pronta a vederti partire. Va bene, è giusto che sia così, non sono stata una buona madre e ti ho fatto soffrire molto in questi ultimi anni. Schierarti al mio confronto è solo un altro modo che ha tuo padre per non farmi dimenticare tutto questo che ci siamo fatti.»
Con queste ultime parole Sofia lascia suo figlio in piedi nel loro soggiorno a pochi passi dal cambiamento in grado di distruggerli o di assolverli. Sono punti di vista. Il vuoto non è mai stato così male per Sofia, perché da che era bambina aveva imparato che solo le persone sono davvero in grado di uccidere.
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Si può credere a molte cose, a una mutazione della genetica per convincersi che dei bambini siano i propri figli pur non essendovi alcun legame parentale così come si può credere che una coincidenza non possa essere tale e che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nell'incastro del mondo... ma credere a tutto questo e pensare di risultare i soli razionali dentro un mondo di pazzi è davvero qualcosa che può essere accettato? Almeno dall'umana comprensione, dalla decenza. Dall'accettazione delle regole che l'uomo si impone e si stabilisce per dare una direzione rettilinea alla normalità.
Possibile che non possa esserci confine? Che l'uomo sappia essere sia animale sia insensato criminale e che possa stare da due parti opposte del proprio lobo frontale nello stesso momento?
Essere ad un passo dallo scoprirlo è qualcosa di affascinante e terribile al tempo stesso, eppure Sanna sta attendendo l'arrivo di Mattia al loro solito bar, rimanendo stavolta seduto al bancone, su di un alto sgabello, per poter ricopiare più comodamente i propri appunti.
Inoltre da quella posizione la cameriera, Greta, figlia del vecchio proprietario, può fissarlo più da vicino a sorridergli dolcemente come sa fare lei.
Si era affezionata, dopo tutto quel tempo in cui lo aveva visto sedere ai tavoli del loro bar in attesa di Mattia, e dal canto suo lo psicologo non può certo smentire di provare lo stesso. Quella ragazzina gli ricorda incredibilmente sua moglie e vedere anche solo il suo sorriso riesce a rasserenarlo.
«Vuoi qualcos'altro, Paolo? Un muffin?» Gli si è avvicinata con timidezza, sollevando la caraffa del caffè caldo, a simulare anche la possibilità di offrirgli persino un sorso di quella nera bevanda, nel caso se la sentisse di iniziare senza Mattia.
L'uomo le sorride ma scuote dolcemente la testa.
«No, Greta, ti ringrazio... non ne mangio.»
«Allora sono sempre per il Grimaldi?» Domanda ingenuamente, prima di annuire in modo calmo. «Ma certo, me lo sarei dovuta immaginare. La spolverata di cacao è proprio il suo tocco. Sembra di dover sempre servire un bambino.»
«Lo ritieni un uomo tanto ingenuo?»
«Ingenuo no... ma certe volte è come se fosse del tutto fuori dal mondo, mi capisci? In un modo troppo strano che certe volte si rivela solo nella mente dei più piccoli o dei più anziani.»
L'uomo sorride dolcemente, accarezzando con la punta nera della penna le bianche pagine e lasciando piccole righe una sull'altra, quasi smaccatamente, pur di aver qualcosa sulla quale attrarre lo sguardo.
«Adesso sono io a sentirmi preso in causa...»
«Non sei tanto vecchio» gli dice, prima di strizzargli l'occhio e allontanarsi. L'uomo sa che la ragazza agisce bonariamente, che l'unico modo per approcciarsi ad un vecchio uomo e risultare simpatica è quello di farlo sentire più giovane, ma ad ogni modo non può non rendersi conto di come sua moglie sembrava affermare la stessa cosa mentre stavano insieme. Greta le assomiglia davvero molto. Avere l'angelo di sua moglie con sé lo esorta ad andare avanti.
Torna a scrivere lentamente lungo il suo diario prima di avvertire la porta del bar aprirsi con una sorta di irrequieta violenza.
Sgrana gli occhi quando nota Mattia venirsi a sedere al suo fianco.
L'uomo si lascia cadere sullo sgabello e tira su col naso, lottando contro la sensazione di congelamento che lo ha reso vittima al di fuori, mentre fissa intorno a se le persone presenti.
«Mattia» commenta sorpreso Sanna, richiudendo il taccuino e sperando che l'uomo, arrivatogli alle spalle, non vi abbia colto niente delle scritte presenti.
«Perché sei sorpreso? Non avevamo un appuntamento?»
«Sì, certo... ma se in anticipo.»
«Ti porto un muffin al cioccolato bianco, Mattia?» Chiede Greta, tornando a loro stavolta con la caraffa del caffè vuota.
Mattia le lancia un veloce sguardo prima di tornare a guardare il resto del bar, evitando anche l'espressione di Sanna.
«No, non voglio niente.»
«Sei sicuro? Nemmeno un po' di caffè appena fatto-...»
«Ti ho detto che non voglio niente.»
Il tono, posto ad imposizione, fa scappare via la ragazza che capisce quanto l'aria non sia delle migliori.
«Cercava di fare solo il suo lavoro» commenta lo psicologo, tentando di difenderla nonostante l'orecchio della ragazza non sia più alla loro portata. «Sei diverso dal solito.»
«Tu credi?»
«Preferisci che ci accomodiamo al nostro tavolo?»
«No, mi va bene rimanere qui per ora.»
Questo è un cambiamento bello e buono, così come la cartella ricolma di fogli che Mattia fa cadere sul bancone, di fronte a loro.
«Questi cosa sono?»
«Il mio lavoro. Ti ho visto scrivere mentre entravo qui per cui ho pensato che fossi riuscito a trovarti qualcosa da fare. Possiamo continuare a lavorare insieme, se la cosa non ti disturba.»
«Non vuoi parlare?»
«C'è altro di cui dobbiamo parlare? Ho molto su cui lavorare.»
Inutile dire quanto lo psicologo sia sconvolto dalla cosa ma che continui a notare i gesti scattanti che l'uomo manifesta nel continuare a fissarsi intorno e a soffermarsi con lo sguardo su qualsiasi persona che nelle vicinanze sembri avviare una conversazione, presumibilmente su di loro.
«Credo che non ti provocherei altro che disturbo nel rimanerti a fianco. Forse è meglio che vada via» commenta lo psicologo, riflettendo già su quali scuse inventare a Diego per quel ritardo imperdonabile nel loro accordo. Si sente ridicolo nel dover valutare quell'opzione di ritiro dopo essersi dimostrato tanto sicuro di sé appena la notte prima ma Mattia sembra essere molto diverso dal solito e qualcosa gli dice che sarà difficile ottenere informazioni da lui con questo sollevato scudo di diffidenza.
«E perché mai? Rimani» gli chiede, afferrandogli prontamente un braccio con forza non appena Sanna si solleva dallo sgabello. Sente dolore lungo tutta la spalla ma sono gli occhi di lui a tramortirlo più di un agguato. «Mi piace parlare con te, credo che tu lo abbia capito ormai quindi non approfittartene più di quanto tu non abbia già fatto e accomodati di nuovo. Lavoriamo fianco a fianco.»
Un inevitabile campanello di allarme suona impazzito nelle orecchie di Sanna che altro non può fare che tornare ad accomodarsi allo sgabello, lanciando uno sguardo a Greta per assicurarsi se la ragazza si sia accorta di niente. La cameriera però continua imperterrita con le sue ordinazioni e obblighi, con una confidenza abbastanza evidente che le proibisce di fermarsi.
Mattia riapre il proprio fascicolo di fogli sparsi di tabelle e annotazioni, sollevando un sopracciglio quando nota che Sanna non sta facendo lo stesso.
«Che cosa c'è? Non torni a lavoro?»
«Non è un lavoro, il mio» commenta Sanna con un tono di voce cauto, dimostrandosi incapace di lasciarsi intimidire. «Ogni tanto scrivo, mi piace farlo.»
«E di che cosa scrivi? Ti inventi delle storie?» Sanna non replica, assicurandosi cautamente di aprire il proprio taccuino nel verso giusto così da evitare che Mattia possa leggere qualsiasi annotazione inopportuna. Ma l'uomo nemmeno sta fissando il suo diario, guarda in alto verso uno degli angoli del soffitto quasi che in quella muffa possa esservi celato un segreto. «Deve essere bello scriversi un copione ed impararsi a memoria le regole per eseguirlo. Non ti fa uscire dallo schema, tenendoti al sicuro e protetto.»
«È quello di cui avresti bisogno anche tu?»
«Ammetto che non mi dispiacerebbe... ma tu non ti sentiresti imprigionato?»
Quello su cui sta riflettendo Sanna è il fatto di star avendo per la prima volta un ragionamento all'apparenza lucido con Mattia, per cui si chiede quanto quell'uomo sia in grado di fingere riguardo a se stesso e agli altri e fino a che punto.
È pieno di carisma mentre lo interroga con le sue domande mirate, mentre si accomoda lungo lo sgabello alto del bancone in alcune movenze che sembrano imitare quelle di Diego, mentre inclina la testa come è solita fare Sofia, anche se questo Sanna non lo sa.
«Non se è il mio lavoro e sono pagato per farlo.»
Mattia sorride, tornando dritto con la testa e concentrato sui propri documenti. «Saresti un uomo molto dedito, se solo avessi un lavoro vero.»
L'ipotesi che tutte queste affermazioni pungenti siano nate sulla bocca di Mattia per un motivo preciso si rende chiaro al medico e a chiunque, dall'esterno, capisca non possa esserci un rapporto socievole tra i due. Mattia non lo ha invitato al suo tavolo e non gli sta parlando con la solita confidenza, mettendolo piuttosto alle strette con una serie di battute mirate per cui deve star agendo con il sospetto di non essere più di fronte a sè un amico ma un completo sconosciuto.
Sanna lo capisce, certo, ma non può permettersi di mandare all'aria tutto. Il fatto che il suo paziente possa essersi accorto della terapia non è una scusa sufficiente per permettergli di mollare o per farlo tornare mani in mano, senza niente di compiuto, verso Diego dopo avergli chiesto così tanto.
Per questo motivo, riaprendo lentamente le pagine del diario e cercandone una bianca, Sanna torna a parlare con la solita voce calma che utilizza con i pazienti, decidendo da solo quale istante possa essere migliore per smettere.
«Sai, Mattia, stavo pensando ad una cosa... Non abbiamo mai parlato del periodo in cui sei stato in America. Mi hai detto che sei partito perché te l'ha chiesto Valeria, ma mai cosa tu abbia fatto lì.»
«Ho lavorato, come faccio sempre» replica, fingendo di interessarsi al primo foglio del plico che ha di fronte a sé ma continuando a prestare attenzioni anche a Sanna.
«Di cosa ti occupavi?»
«Delle vendite, ovviamente.»
«E come andavano nelle americhe?»
«Alla grande, anche le persone erano migliori.»
«Perché mai?»
«Perché nessuno giudica il tuo lavoro quando vieni da una grande impresa estera. Nessuno ti giudica e nessuno parla alle tue spalle. Il vantaggio di essere uno straniero di cui nessuno sa nulla.»
«Deve essere risollevante per l'umore.»
«Eccome se lo era, mi sentivo molto meglio laggiù.»
«E quando hai deciso di tornare qui?»
«Il 21 Luglio 1969.»
«Come?» Chiede Sanna, stringendo gli occhi di fronte ad un ricordo. «Il giorno dopo-?»
«L'atterraggio sulla luna da parte dell'Apollo 11, sì.»
«Perché proprio quel giorno?» Domanda confuso Sanna, cercando una spiegazione ai propri ragionamenti ma ricevendo l'avvicinamento di Mattia a sé, come in un atteggiamento complice.
«Non ti è sembrato strano? Due uomini vestiti dalla testa ai piedi con un tutone bianco che saltellavano sulla luna come se stessero su un tappeto elastico, e tutta quella lotta ai sovietici poi... l'unica cosa che volevano fare era piazzare quella maledetta bandiera americana e ammettere di esserci riusciti per primi.»
«È stato un grande passo per l'umanità.»
«O forse la più grande delle bugie» confessa Mattia, stringendo gli occhi in due minuscoli spiragli mentre Sanna continua a fissarlo quasi senza capire.
«Per questo sei tornato a casa? Ti sentivi tradito dal popolo americano?»
«Era ora di cena quando mi sono piazzato davanti la tv come tutto il resto del mondo, così da fissare l'impresa più eccezionale che l'uomo avesse mai portato a termine ma vedendo quelle immagini, quella superbia, mettendo in muto il telegiornale... non scorsi altro che la finzione dietro la facciata e capii in un attimo che il mio posto non era lì con loro. Non con gente convinta della propria bandiera, abbindolata dai media, che si batte il petto gridando il proprio onore. Ad una sola cosa ho sempre creduto e a lei sono tornato. Valeria mi aspettava a casa e così sono andato da lei.»
Lo psicologo non risponde, analizzando i motivi dell'accaduto e ciò che può aver rovinato la vita a tutti loro. L'altro, al contempo, lo studia con un mezzo sorriso e con la complicità di chi capisce quando l'altro sta tentando di entrare in empatia con le sue idee. Possibile che Sanna non abbia mai valutato l'ipotesi del finto allunaggio? Eppure lo considerava un uomo intelligente. Tutte le frivole valutazioni su ogni minimo aspetto della vita e poi ecco tornare la fredda apatia.
«Non mi credi più, adesso?» Gli domanda, mettendo alla prova la sua mente e la resistenza alle proprie idee.
«No, non è questo, sto solo valutando la cosa.»
«E cosa ritieni di aver compreso, da tutto questo?»
Una domanda così vaga risulta capace di far sollevare la testa allo psicologo e portarlo a guardare con confusione l'uomo che l'ha pronunciata. Che cosa pensa di tutto questo? Pensa molte cose, trascritte, ridette a se stesso al fine di non dimenticarle, ma mai come adesso ha avuto tanta paura di quell'uomo instabile presente al suo fianco.
Non ha ancora ricevuto le cartelle del suo medico, non sa quali altre patologie siano state riscontrate in Mattia così come non può essere certo che ve ne siano. La metà dei suoi colleghi preferisce fingere che non esista alcuna malattia quando non è in grado di curarla, specie se si tratta di malanni invisibili all'occhio umano. Questo lo sa per esperienza, così come sa, sempre tramite l'esperienza, che un uomo può essere pieno di dubbi.
La luna non è il solo traguardo che Mattia non è riuscito a raggiungere perché la verità è che sembra fuggire da un sacco di cose, da che l'ha conosciuto, così come sembra raggiungerne molte altre...
Una fotografia presente tra i fogli di Mattia attira l'attenzione dell'uomo all'istante. Si tratta di un vecchio capanno dall'aspetto dismesso e arrugginito dal tempo. Il sesto senso lo costringe a porgere una domanda che non è certo possa avere una risposta conveniente.
«Questo cos'è?»
In un primo momento Mattia sembra non capire, muove la testa nella direzione dell'uomo e cerca di interpretare la sua richiesta, poi il dito di Sanna si posa sul foglio riportante la foto.
«Oh» commenta quindi Mattia, riesumandolo dalla pila e portandolo alla luce del sole. «Questo è un contratto di vendita, a nome di mio fratello. Ha comprato questo capanno poche settimane fa... forse ha deciso di rimetterlo in piedi. È annesso ad una vecchia casa in cui andavamo da piccoli, là dentro abbiamo molti ricordi...»
Lo psicologo collega quel capanno all'istante, dando un'immagine al luogo in cui Diego da bambino è quasi morto.
«... Ho intenzione di tornarci molto presto, per vedere cosa ne è stato.»
Gli occhi di Mattia sono un buco nero ed il sorriso con cui li affianca sembra masticarsi vivo ogni pensiero. Scappando da loro, Sanna intercetta lo sguardo di Greta che capisce che qualcosa sembra non andare.
«Con quella gamba che ti ritrovi? Forse non riuscirai a muoverti tra quei ruderi.»
«Perché? Cosa ha la mia gamba?» Domanda confuso Mattia, mentre Greta con lentezza si avvicina.
«L'altro giorno zoppicavi, ecco cosa avevi. Mi hai detto che lo hai fatto dopo un'incidente, anni fa, non lo ricordi?»
«Ah, ma certo, la mia gamba. Non è una cosa che sembra piacere molto alle ragazze, chissà se la cameriera ha avuto pena guardandomi entrare... magari dopo glielo chiedo» commenta Mattia, chinandosi verso il proprio ginocchio destro per valutarne il danno.
Il freddo doveva appesantirgli il dolore dell'osso rotto, ma stranamente in quel bar non è entrato zoppicando affatto, come al suo solito.
Sanna scrive veloce su un foglietto un'annotazione e strappa il foglio celandolo con un colpo di tosse, prima di piazzarlo tra le mani di Greta. La ragazza si allontana velocemente ed apre il piccolo biglietto mentre è di spalle, ma il suo tremore risulta visibile ad occhio nudo.
All'interno, lo psicologo ha riportato il numero della polizia ed un'ordine sottolineato come imperativo, affinché possa farlo subito.
La guarda allontanarsi in fretta verso la cornetta del telefono presente nel suo ufficio.
Nel frattempo, Mattia si risolleva in un mezzo sorriso.
«Credo che alle donne, però, non importi di niente. Almeno, non a quelle che possono considerarsi delle vere donne. Tu credi nell'anima gemella, Paolo? Credi che due persone possano essere destinate a riunirsi in qualsiasi modo, nonostante il fato, gli eventi, o un addio?»
Sanna, che sta ancora ricambiando lo sguardo di Greta mentre questa parla attraverso la cornetta, nascosta dal vetro della porta del suo ufficio, con un agente della polizia risponde automaticamente, quasi senza aprire bocca.
«Sì.»
«Anche io lo faccio. Certe persone sono destinate ad appartenersi in maniera inevitabile, per l'eternità. A volte il destino può giocare a favore di certi incontri... ma in altri casi può far davvero ridere per il tentativo patetico con cui sono state forzate le cose.»
Detto questo, Mattia abbandona la fotografia del capanno e prende tra le mani nuovi documenti fatti da infinite tabelle, numerosi calcoli, ed incroci di righe e colonne dalle diciture tanto strette da non poter essere leggibili.
«Vuoi sapere che cos'altro ho scoperto? Mi è costata una fatica immane ottenere questi documenti ma adesso sono fiero di averli. Sono i conti bancari di mio fratello, tutti i suoi spostamenti monetari, dunque puoi capire quanto sia stato appetibile per me leggerli uno alla volta. Volevo la garanzia del suo acquisto di quel capanno e di tutte le altre azioni che mio fratello compie alle mie spalle e così mi sono finto lui.
Un vecchio documento e l'imitazione della sua firma, non mi è occorso altro. Beata somiglianza. E così ho scoperto una cosa strana.
Mensilmente, lo stesso giorno di ogni mese, mio fratello trasferisce una dose precisa, e mai differente, di denaro ad un certo dottor Sanna, dichiarando nella causale l'importo come una "seduta dallo psicologo". Mi faceva piacere che finalmente mio fratello si facesse vedere da qualcuno ma poi ho incrociato le date degli appuntamenti dalla sua agenda, prendendoli dalla scrivania della sua segretaria, e che cosa ho scoperto? Che i suoi appuntamenti erano un terzo di quelli pagati e che quindi non poteva essere una coincidenza che corrispondessero ai nostri, di incontri.»
Nella nera iride di Mattia, tutt'uno con la pupilla, sembrano scaturire dei lampi di puro odio indirizzati verso l'uomo ancora seduto imperterrito al suo fianco.
«Ti ho voluto bene come se fossi mio nonno... credevi davvero che non lo sapessi che è morto? Dimmelo, dottore... credevi davvero che non sapessi che è morto?»
Il giovane Grimaldi balza in piedi al termine di quell'ultima domanda e sferra un pugno violento contro la mascella di Sanna. Lo psicologo cade dallo sgabello a causa della spinta, finendo faccia a terra mentre il sangue gli cola dalle labbra. Greta scappa fuori dal suo ufficio guardando terrorizzata la scena.
Paolo è rivolto verso il pavimento con la sua cascata di capelli bianchi a ricoprirgli lo sguardo, palmi aperti contro terra quasi cercasse di darsi la spinta e gambe appena tese quasi fosse pronto a scattare in piedi... ma la caduta improvvisa gli ha tolto il fiato dal petto ed il sangue che continua a fuoriuscire dalla bocca, a causa del naso rotto e dei denti scheggiati, non lo fa respirare. Inoltre, in uno slancio di lucidità, sembra riflettere se gli convenga sollevarsi in piedi o continuare a difendere i suoi organi vitali.
«Con quale autorità ti sei permesso di psicanalizzarmi? Tu non sei nessuno! Sei al soldo di mio fratello, con il solo scopo di darmi del pazzo! Io non sono pazzo e ho ragione più di tutti voi! Ho ragione su tutto, non ho mai mentito!»
Mattia ha il tempo di sferrare un altro calcio contro il corpo dell'uomo prima che la polizia faccia irruzione all'interno del bar e si precipiti su di lui. Lo costringono ad inginocchiarsi a terra e lottano contro le sue braccia al fine di mettergli le manette.
Gli citano i diritti. Lo dichiarano in arresto sotto lo sguardo macchiato di sangue dello psicologo mentre si risolleva in piedi e sconvolto di Greta, dei presenti, mentre la cameriera va verso Paolo cercando di offrirgli il suo aiuto.
Per tutto il tempo dell'arresto, dal basso, Mattia fissa con odio lo psicologo e la ragazzina che si stringono quasi fossero gli emozionanti protagonisti di una storia ricca di disavventure, consapevoli del loro trionfo e della loro improvvisa libertà.
Uno dei poliziotti chiede poi il nome e il cognome a Mattia per dichiarare a verbale il proprio arresto. Lo ripete due volte, perché l'uomo, concentrato sugli altri due, non sembra aver sentito la domanda o aver deciso di partecipare attivamente.
«Nome e cognome, ragazzo!»
«Sono Mattia Grimaldi» sussurra lui, continuando a fissare negli occhi Paolo. «Questo lo so per certo.»
Lo tirano via senza alcuna premura, trascinandolo fuori dal locale assieme ad un immensa costellazione di occhi estranei diretti sulla scena.
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Quando la chiamata arriva nel soggiorno di casa Grimaldi, Sofia è seduta alla sua solita sedia. Si alza con lentezza, quasi già sapesse che cosa l'aspetta.
Il poliziotto dall'altra parte le dice che suo figlio, Mattia Grimaldi, è in arresto alla centrale. Ha provocato un'altra rissa in un bar ma oltre a questo è indagato per omicidio. Il cameriere che aveva aggredito tempo prima era morto in ospedale quella stessa mattina, dopo essere rimasto attaccato alla vita attraverso le macchine mediche per delle intere settimane. La ragazza che era con lui, l'altra cameriera, si era dimostrata così agguerrita nell'ottenere giustizia da non esitare un solo attimo nel precipitarsi in centrale.
Mattia avrebbe potuto avere più tempo per essere rintracciato, se solo quella chiamata da parte di un'altra giovane cameriera non avesse segnalato l'ennesima aggressione da parte dello stesso.
Sofia aveva terminato la chiamata senza dire una sola parola, continuando a fissare il vuoto prima di riprendere possesso delle proprie azioni, del proprio corpo, e rivolgersi alla strada per la quale era venuta.
Torna al tavolo del soggiorno e fissa il foglio che vi è presente. Prende in mano la penna e firma l'ultimo rigo, dichiarando l'addio all'impero per il quale ha lottato tutti questi anni, non per suo dovere ma per vizio di forma. Per un abitudine che non era mai stata sua.
Si risolleva dalla propria postazione e percorre l'intero tavolo al quale non è rimasto più nessuno, fino a riuscire a raggiungere la sedia alla quale era solito sedersi Pietro Grimaldi, prima che lo potesse fare Davide.
Posa una mano contro lo schienale, fissando la ricchezza dei propri anelli ereditari e il vuoto che le hanno creato intorno, prima di applicare una piccola pressione.
La sedia cade a terra come un trono privo di re e dall'alto Sofia si libera dei propri anelli, lanciandoli contro la seduta in legno prima di riprendere a camminare verso una strada che possa dichiarare la vera indipendenza che ha sempre cercato.
L'impero dei Grimaldi è finito, o almeno ciò che ne restava.
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Nel silenzio del soggiorno di casa Agnelli, Valeria fissa il fuoco del camino ardere senza smettere un solo istante di autoalimentarsi in una combustione continua, perfetta.
Il fuoco brucia come ha fatto la sua anima per tutto questo tempo, prima di trovare una rivalsa.
Allunga un braccio e getta, con un piccolo slancio, tra le fiamme il cavallo a dondolo di cui si era impossessata. Lo osserva bruciare e annerirsi, diventare cenere, finire per essere un ricordo abbandonato come un incubo tra un cumolo di macerie e attende finché di lui non rimane più niente.
Ora, finalmente, è tutto finito.
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