2. La corona di fiori d'arancio
25 Novembre 1970, Vezza D'Alba (Langhe), Piemonte.
Poche cose erano in grado di lasciare di sasso Valeria Greco quanto l'imprevedibilità: detestava da sempre trovarsi senza riparo dinanzi un attacco messo in atto da persone esterne alle sue congetture ma ancora di più detestava riceverlo da persone interne, amiche, sfuggite al suo incrollabile controllo, del quale si era più volte vantata senza ritegno.
Il messaggio riportato nel foglietto abbandonato sulla sua scrivania non stava lasciando vie d'uscita ed in un attimo la Greco aveva capito che non c'era niente da fare.
Per questo motivo è ancora immobile ad osservare quelle poche parole che hanno il sentore di una sentenza.
Dopodiché abbandona il telegramma sulla sua postazione, recupera un nuovo pezzo di carta, una penna ed inizia a scrivere.
Dimmi che stasera ci sarai.
Non puoi lasciarmi sola.
Mi avevi promesso che non lo avresti mai fatto.
Appesantita da una sorta di vergogna, la penna a sfera ruota con difficoltà tra le sue dita fino a dilatare il tempo al termine dell'ultima "O".
Fatica nel rileggere la portata di una simile richiesta ma poi la sua schiena si fa rigida, la penna viene richiusa e quando prende a camminare a passi decisi nel corridoio dell'azienda, Valeria tenta di osteggiare sicurezza, nonostante le dita si perdano troppo spesso ad accarezzare la liscia chioma di capelli corvini.
Tutto questo è ridicolo, prova a convincere se stessa, perché lei non è così.
La ragazza alla reception ha pochi anni meno di lei ma è distratta, di sicuro troppo impacciata nei rapporti umani ma perfetta nel suo lavoro. Per questo sobbalza alla sua vita ma reagisce con prontezza di spirito, lasciando da parte l'amicizia che le lega per poter assumere un tono professionale, udibile anche al personale presente attorno a loro.
«Buongiorno, stava cercando il signor Grimaldi?»
«È in riunione?»
La dolce Emma, la Emma presente alla reception dietro una sfilza di foglietti con segnati gli appuntamenti del proprio capo, la tenera Emma che non le mentirebbe mai per una gentilezza rivoltale un giorno dinanzi un caffè, viene costretta dal decoro ad abbassare la voce, oltre che per la timidezza di stare per dar vita ad un peccato.
«È dentro il suo ufficio con la signorina Ferrara da più di un'ora.»
Nemmeno un minuscolo spostamento delle pupille di Valeria dal volto di Emma. Solo un silenzio indecifrabile che percorre l'aria per molto tempo, poi una mano che tende un biglietto piegato a metà alla segretaria.
«Puoi dargli questo, da parte mia?»
«Certamente. Desidera sapere altro?» Ancora quelle iridi nere immobili. C'è da stupirsi che Emma continui a insistere. «Ad esempio quando uscirà dal suo ufficio o quando vedrà il suo messaggio...»
«No. Non è importante. Digli solo che è da parte mia.»
«Certo, non si preoccupi.»
Una breve esitazione convince Valeria a non reagire prontamente ed a rimanere immobile ancora per un po', con quel foglietto tra le dita, forse nel desiderio di recapitare quel messaggio in prima persona e potervi allegare parole che, nonostante gli anni passati e la sua situazione, non è in grado di comunicare alla ragazza che le è di fronte.
Detesta essere in imbarazzo ma vivere situazioni tanto confuse non la risparmia affatto. Come adesso, per esempio. Proprio come adesso mentre è intenta ad osservare Giulia Ferrara uscire dell'ufficio di lui, aggiustandosi con il polpastrello dell'indice il rossetto colato all'angolo della bocca. L'attimo dopo, terminata quella sorta di cura estetica e con una finta sorpresa, questa è pronta a sorriderle ed avanzare con trasporto verso di lei.
«Valeria... come mai da questa parte dell'azienda? Hai bisogno di qualcosa?»
«Cercavo Diego.»
«Oh... ma è uscito dal suo ufficio pochi minuti fa» afferma la donna in tiro che, terminato con il rossetto, passa ad abbassarsi l'orlo della camicetta come se qualcuno l'avesse stropicciata di foga. Valeria fa scendere gli occhi lungo le mani occupate nell'azione mentre l'altra inchioda con lo sguardo la troppo giovane segretaria. «Non hai notato niente?»
«No, signora.»
«Che strano... eppure andava di fretta» afferma Giulia, pensierosa.
«Quindi l'ufficio è vuoto» taglia però corto Valeria, ricevendo due paia di occhi addosso, aventi espressioni diametralmente opposte.
«Ma certo... entra pure. È ora che io torni alla mia postazione, buona giornata...»
Nemmeno attende che la Ferrara si allontani a sufficienza: recupera il proprio diritto ed entra all'interno dell'ufficio, provando una sensazione celestiale di liberazione non appena la porta si chiude alle sue spalle lasciandole raggiungere il silenzio. In tutta la compagnia, l'ufficio di lui è il solo luogo di completa calma dove le è concesso di rallentare.
Tra le dita ha ancora il suo pezzo di carta ma passa in secondo piano l'ipotesi di abbandonarlo ed andarsene: è trascorso troppo tempo dall'ultima volta che era riuscita ad essere sola in quell'ufficio e molte cose sono cambiate. Si concede il compito di poterle analizzare con tranquillità, sfiorando le superfici ed il materiale degli arredi perché Diego non sarebbe stato di ritorno. Ne è certa, non rientra mai a casa, o in ufficio, senza risolvere prima le questioni che lo avevano fatto scappare via e solitamente queste erano abbinate a ragioni complicate.
Aveva aggiunto un divano verde scuro dall'ultima volta ed anche una pianta a foglia larga, molto elegante, di cui Valeria è certa si prenda cura Emma in vece sua. Persino alcuni soprammobili sono stati apportati mentre sulla scrivania rimane intramontabile la locazione del morbido supporto in pelle nera su cui scrivere, la penna, la lampada di alto design e sotto di essa la piccola palla natalizia d'arte Temari che lei gli aveva donato molti anni prima.
Si avvicina per sfiorarla, facendo il giro della scrivania e lanciando con distrazione uno sguardo alle cornici delle foto che sa essere presenti in un angolo del tavolo, fin quando non nota la presenza di un nuovo ritratto tra di esse. Proprio accanto ad una foto di Diego solo su un campo da golf, vestito completamente di bianco, ed una di lui con il famoso e tenero leviero scozzese, dall'aspetto troppo anziano in tono con il suo pelo grigio, eccone una di lui e lei, al ricevimento tenutosi poche settimane prima.
La foto li ritrae seduti accanto su due delle poltrone in paglia di cui era stato riempito il giardino, vestiti con abiti di festa, neri ed eleganti, mentre le persone in movimento attorno apparivano come sfocate, quasi fossero stati loro due i soggetti immobili per troppo tempo... ed in effetti era stato così.
Ricorda quel momento. Ricorda il motivo che l'aveva condotta a distogliere lo sguardo dalla pista da ballo per rivolgerlo verso il volto di Diego e così verso la telecamera del fotografo. La causa era ancora lì, piccola, intrappolata tra di loro: lui le aveva stretto la mano e poi era rimasto immobile, senza guardarla e senza alcuna intenzione di toglierla. Valeria ricorda bene la scarica che le aveva percorso l'intero braccio quel giorno. Ricorda di aver convissuto con quella sorta di fulmine sotto pelle per delle ore. Ricorda di essere stata immobile a fissare lui, nella speranza di capirlo. Ciò di cui non era affatto a conoscenza era quella sorta di dolore celato nella sua stessa espressione.
Si accomoda alla postazione di Diego, continuando ad osservare sé stessa ed il riflesso che si infrange contro lo specchio che protegge lo scatto fotografico, rigirandosi tra le dita il foglietto di carta. Non vuole domandarsi il perché lui abbia conservato quel loro ricordo, né il perché farlo in un luogo considerabile come suo presidio, per cui tiene a freno i pensieri e con una mossa decisa strappa il foglietto, lasciandolo cadere nel cestino, prima di compilare per scritto un nuovo messaggio.
Ti aspetto stasera, a casa dei tuoi.
Maurizio si sposa.
Vedi di non tardare.
Valeria dedica un ultimo sguardo alla loro fotografia e alle mani ritratte intrecciate. Si chiede che cosa sia quello sfoggio di un attimo privato, se debolezza o forza, prima di sollevarsi dalla seduta ed andarsene, abbandonando quel luogo di pace per poter tornare partecipe del suo personale inferno.
-
Villa Grimaldi era da sempre considerata un luogo di ritrovo per importanti feste, fosse solo per il nome altolocato, fin troppo noto nella terra delle Langhe, che riportava per cui vederla illuminata come durante la festa di un patrono non era cosa insolita. Da considerarsi, però, evento allo stesso modo spettacolare grazie all'atmosfera che luci, colori, fiabesco verde da giardino, riuscivano a ricreare.
C'era come nell'aria una sorta di incontrollabile magia, dipinta nei toni dell'avorio e contornata da infiniti brillanti, capace di carpire tutti gli ospiti della festa. Tutti ad eccezione di una persona sola che, alla stregua di un cigno nero, passeggiava con i suoi abiti scuri e la sua notevole altezza in una sorta di irriverenza, sfidando chiunque dei presenti a farsi avanti e parlarle.
Sfortuna per lei non erano in pochi coloro che tentavano la sorte poiché se Villa Grimaldi possedeva un fascino fiabesco capace di tradursi in allegria, per la maggior parte dei presenti, allora l'enigma rappresentato dalla figura della cupa ed affascinante Valeria all'interno della festa era sufficiente ad attrarre curiosi e spudorati. Una bellezza del genere affiancata ad un'altezza concessa dalle lunghe gambe magre e da una presenza scenica tanto magnetica da essere fatale, rappresentavano un evidente punto esclamativo al di sopra della sua testa.
No, Valeria non era una donna capace di passare inosservata alle feste o in generale e di questo ne era fin troppo consapevole, essendo stata la causa della sua sfortuna così come lo erano stata la fiducia riposta nelle persone sbagliate e la vecchia inclinazione di concedere amore senza mezzi termini. Ricordi trascorsi di una donna che non è più se stessa, abituata ormai a vivere nel rancore di una realtà da tollerare.
«Posso portarle qualcosa da bere, dolce Valeria?» Si approccia a lei un uomo dal volto conosciuto, forse uno degli impiegati più importanti dell'azienda, ma Valeria declina presto l'offerta.
«Non bevo niente di alcolico e credo che questa casa non offra alternativa.»
«È per caso astemia?»
«Ne detesto l'odore e l'inibizione data dal consumo.»
L'uomo si mostra sorpreso dalla sua mancanza di esitazione nel rispondere.
«Persino il sapore del vino?»
«Soprattutto del vino.»
L'uomo sobbalza e la genuina reazione riesce a far sorridere appena Valeria. «È consapevole di aver sbagliato festa?»
«Più che mai.»
«Lavora nell'industria vinicola dei Grimaldi, è parte integrante della famiglia e detesta il vino», se la ride l'uomo, «roba da non credersi.»
Sconvolto dalla sua stessa riflessione, l'importante impiegato si allontana lasciando Valeria da sola quanto le è sufficiente per poter prendere di nuovo il controllo della sala, prima che un'altra figura la affianchi. Sfortunatamente, la grazia di poter essere fiancheggiata da un ospite meritevole è difficile possa ripetersi.
«Signora Grimaldi» esordisce il nuovo arrivato che Valeria conosce fin troppo bene. Un uomo basso e dall'aspetto tarchiato, con abiti troppo stretti sul corpo grasso, stringente un'importante calice di vino rosso tra le mani. La pesantezza dell'alito giunge prima dell'aspetto conturbante dei suoi occhi, al di sotto del capo calvo, lasciando intendere quanti altri bicchieri in vetro, contenenti quello stesso liquido e non solo, si siano posati sulle sue labbra precedentemente all' attuale.
«Signor Costa...» sussurra Valeria, spostandosi di un passo di lato per poter mettere distanza tra se e quel mentecatto. La parete tondeggiante, terminante la sala del ricevimento, sorregge le loro spalle e pone un limite alla ritrazione dei loro corpi, tanto da vanificarne la fuga. «Mi ha conosciuta come signorina Greco, può continuare a chiamarmi così.»
«Non vedo perché dovrei farlo, ormai lei è una donna sposata, Grimaldi, e con una famiglia molto facoltosa. Piuttosto chiedo a lei un favore: che cosa ne pensa di ringraziarmi? In tutti questi anni non si è ancora sforzata di farlo.»
«L'importante calice di vino che tiene in mano ed il suo maglione in lana di Vigogna non sono stati un ringraziamento sufficiente per lei?»
L'uomo volge la testa verso la donna, in una sorta di espressione sconvolta.
«Che cosa c'è? Si stupisce che ne conosca il materiale? Sono una donna colta, signor Costa, o ancora meglio una donna. Quella strana figura mitologica che ancora fatica ad essere considerata alla pari, in termini lavorati o di intelligenza, parlando per i vostri canoni, alla figura eterea dell'uomo. Non abbia paura, siamo tra amici qui, non è vero? Può possedere ancora tutto il potere che crede.»
Per semplice ripicca personale, nell'aggiudicarsi un posto in prima fila dinanzi l'impotenza di quel piccolo e miserabile uomo, Valeria si rivolge nella sua direzione per poter sfiorare, con il pollice e l'indice della mano destra, la qualità del tessuto.
«Lo sa? Viene anche chiamata "Fibra di Dio". Credo che sia appropriato. Si è sentito come un Dio, in fondo, a vendermi a queste persone per potersi guadagnare un lotto di terra. Non è vero... Bacialè?»
La mano che stava sfiorando il tessuto, forza la presa favorendo una stretta nemica che lascia l'uomo in un primo momento sconvolto e con il fiato affrettato.
«Il nostro compito è quello di unificare l'Italia. La guerra si è portata via troppi morti e queste terre erano disabitate. Grazie al nostro operato ed ai nostri matrimoni combinati siamo riusciti a far rinascere l'Italia una regione alla volta.»
«Davvero il compito di un Dio.» Replica maligna Valeria, forzando la presa.
«Avresti potuto rinunciare ma non lo hai fatto. L'accordo beneficiava entrambe le parti.»
«È questo che ripeti a te stesso? Di avere la coscienza apposto?»
«La tua vita non mi riguarda più, sei passata di moda da dieci anni... questa sera è lei la novità.»
Con la testa sporta in avanti, l'uomo indica l'attrazione della serata mentre questa volteggia in un abito celeste chiaro ridendo, abbandonata al vanto con il quale il suo futuro marito la manifesta, ma non è l'allegria con cui sta vivendo il suo debutto la sola cosa di lei che colpisce Valeria. Al di sopra dei capelli biondi come l'oro un ornamento abbellisce i suoi tratti angelici, facendola assomigliare ad una ninfa.
«L'hai riconosciuta, non è vero? La corona di fiori d'arancio...»
Le pupille di Valeria divengono come spilli, contratte come sono alla vista di quei pallidi petali, sinonimo di un orrore celato, ed ogni forma di forza o di arroganza perde per un attimo di consistenza.
«La ragazza si chiama Manila Scalzi ed è originaria del tuo paese. Casa sua dista pochi chilometri da Palermo... Hai visto? Stesse tradizioni, stessa età. Anche tu avevi una corona di fiori d'arancio il giorno in cui per la prima volta le vostre famiglie si conobbero... per quale ragione lo fate? Ad ogni modo, vi rende ancora più belle. Come un fiocco rosso su un pacco regalo.»
«Rovinerai la vita anche a quella ragazza?»
«Rovinare? Ed in che modo? Non vedi quanto è felice, adesso? Non aspetta che il momento di andare in sposa a Maurizio e diventare parte integrante della famiglia Grimaldi.»
Ad udire quelle parole, Valeria reagisce di scatto, tornando la forte guerriera dagli scuri abiti di battaglia.
«Non te lo consentirò» sussurra, sfidando le iridi immobili dell'uomo.
«Non vedo come tu possa impedirmelo. Gli accordi con le famiglie sono già andati a termine. Ormai è un contratto stipulato, "carta canta".»
«Non te lo consentirò.»
«Dovresti proprio adeguarti ad essere una donna del tuo tempo, Valeria. Tutto queste lotte femministe seguenti il '68, per non parlare del pari stipendio salariale introdotto nel '61, ti hanno dato alla testa e ti hanno illuso di poter avere una vita della quale puoi decidere la direzione. Non è così, perché il nome della famiglia Grimaldi pende come una spada di Damocle sulla tua testa. Un solo sbaglio e te la troverai staccata dal collo. La signora Grimaldi non sarebbe così a sfavore...»
A Valeria non è mai importato di rimanere al proprio posto ma ora più che mai imporsi dinanzi questo uomo diviene una soddisfazione più che appagante per la sua anima ribelle.
Stringe l'uomo con ancora più forza per il colletto della bianca camicia al di sotto del maglione, costringendolo a farsi più vicino mentre è intenta a vomitargli addosso parole.
«Per molto tempo ho pensato che fosse il vostro lavoro di Bacialè il problema. Voi, con i vostri accordi, le vostre spartizioni, le vostre illusioni di rendere due persone felici consentendo loro di conoscersi... ma poi ho capito che il problema è lei, signor Costa, bramoso come è di trarre vantaggio da ogni singola situazione e questa famiglia, la perversione che cela. Per cui non mi importa in che modo potrò riuscirci... ma io ce la farò, ne sia certo.»
Attraverso un gesto calcolato, posto al termine di queste parole di giudizio, Valeria abbandona la presa sulla camicia e poi spinge con un colpo di gomito il calice di vino rosso, inclinandolo fino a farlo ricadere sulla lana di Dio.
Il Bacialè arriva a maledirla per il suo operato ma non può far niente per punirla, non davanti un'intera sala e non adesso che è appena riuscita ad abbandonarla.
Nello scompiglio generale creatosi attorno all'importante ospite, Valeria aveva raggiunto la portafinestra della terrazza, chiudendo così il mondo alle proprie spalle.
Nel freddo della notte, però, le immagini della serata appaiono ancora più violente nell'eco che offrono del ricordo ed è così che Valeria rivede Manila, come una figura ridente a rallentatore mentre sfoggia la sua corona di fiori d'arancio.
Raggiunta la ringhiera in ferro battuto terminante la terrazza, Valeria la afferra con forza e gli occhi le scivolano fino alla fede al dito mentre questa brilla più delle stelle del cielo presenti al di sopra della propria testa. È una specie di supplica la sua, rivolta all'oro di quel cerchio. Una supplica di sostegno mentre avverte come la sensazione di cadere a pezzi, sulla terrazza di questa orrenda casa.
Non può farlo, non può permetterselo, non lo farà.
Per questo motivo appena avverte dei passi raggiungerla alle spalle in un moto lento, consapevoli come sono della visione di lei rivolta verso la vallata di fronte, Valeria può espirare, far rallentare il cuore, perché unicamente un uomo la seguirebbe e cercherebbe dietro ad un disastro... solo che è sempre incredibilmente in ritardo.
«Finalmente sei arrivato, non puoi credere a ciò che ho appena sentito...»
«Ciao, Valeria.»
La donna alza di scatto gli occhi verso il cielo oltre la valle, percependo chiaramente la detonazione di una bomba atomica rimbombare lungo il paesaggio collinare, lasciando nell'aria il sapore acre di una rabbia feroce che è solo rosso.
Profondo rosso di un passato tornato a tormentarla.
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