13. scared of moving on

A febbraio le vacanze finivano.
Io e Aurora tornammo all'Otis College con un sole che spaccava le pietre e una brezza secca leggermente umida. Nell'intravedere l'insegna del college, tutt'un tratto ci sembrò di essere tornate alla nostra seconda casa, quella che avevamo sempre sognato da quando avevamo sedici anni.

Quel giorno il clima dentro di me, era autunnale e instabile. Tornare al college, significava tornare da Michael e lui, era l'ultima persona che volevo vedere.

Trascinammo le valigie fino alla nostra camera nel residence dell'università ringraziando chiunque avesse progettato quel posto per averci costruito dentro un ascensore.
Per tutto il viaggio in macchina, guidai con la mente concentrata esclusivamente sulla strada e quasi per niente sulle parole di Alaska. Lei sapeva di star parlando ad un muro ma immaginai che ci sperasse che ad un tratto, mi potessi girare verso di lei e risponderle, anche solamente a monosillabi.

Dopo pranzo, mi sistemai sotto le coperte e per qualche minuto, rimasi ipnotizzata a fissare un punto indeterminato o a guardare la mia coinquilina fare assolutamente niente.

"Luke mi ha chiesto se vogliamo andare da lui a guardare un film" mormorò ad un tratto mentre era intenta a digitare qualcosa sulla tastiera del suo cellulare. Era illuminata solo dalla luce azzurrina dello schermo, la stanza era completamente buia perché io volevo solo dormire fino all'ora di cena e oltre, nonostante fossero ancora le tre di pomeriggio.

"Io non vengo" bofonchiai voltandomi dall'altro lato del letto. Mi ostinai a tenere gli occhi aperti e osservai, quasi con curiosità, il buio che avvolgeva la stanza.

"Sei convinta di quello che stai facendo, Ree?" mi chiese bloccando il telefono. Io produssi un verso annoiato facendole intendere che si trattasse di un'affermazione.

"Mh-mh."

"Dirò ai ragazzi che stai male e che dormirai per tutto il pomeriggio, va bene?"

"Fai quello che ti pare" risposi trascinandomi le parole avendo la guancia schiacciata contro il cuscino, poi presi le cuffie, le collegai al cellulare ed iniziai ad ascoltare la mia musica. Mi alienai dal mondo come sapevo fare bene.

La mia coinquilina uscì dopo cena e io non la rividi fino al giorno dopo. Non sapevo a che ora fosse tornata, sapevo solo che la mattina seguente era strana, mi guardava con la fronte leggermente corrugata e boccheggiava parole come se avesse voluto dirmi qualcosa.

"Alaska, che è successo?" le chiesi spazientita.

"Non so se hai voglia di sentire questa cosa..." scosse la testa prima di sgusciare dalle coperte "...è meglio che mi sto zitta."

Si voltò per afferrare i vestiti sul termosifone e si fiondò nel piccolo bagno della nostra camera cercando in tutti i modi di evitare il mio sguardo che, in quel momento, speravo vivamente che bruciasse sulla sua pelle. Sbuffai e la seguii spuntando riflessa nello specchio posto sopra il lavandino.

"Non puoi non dirmelo. Che sia una cosa piacevole o no, adesso sono curiosa" ridacchiai.
Alla fine mi ero resa conto di essere stata troppo scontrosa negli ultimi giorni. Il mio malumore mi aveva resa fredda e strafottente con le ragazze e io, non volevo che ce l'avessero con me.

Alaska si sciacquò la faccia e mi sorrise attraverso lo specchio, asciugò il suo viso marmoreo e poi, si voltò verso di me appoggiandosi al lavandino concavo.

"Michael mi ha chiesto se avevi saputo il voto del progetto di fotografia" pronunciò piano. Anche lei si sentiva in colpa per lui, glielo leggevo negli occhi. Gli aveva mentito per colpa mia e la parte più brutta, era che lui fosse ignaro di tutto quanto.
Avevamo preso trenta solo grazie a lui e la mia ricompensa, sarebbe stata quella di evitarlo, di fare finta che non esistesse. Non ero mai stata talmente ingrata con qualcuno, ma la verità era che non volevo e non potevo continuare a sorridergli come se niente fosse. Avrei dovuto parlargli, era questo che mi ripetevano le ragazze e persino la vocina nella mia testa. L'avrei fatto ma non in quel momento. Dovevo riprendermi, dovevo riprendere in mano la mia vita. Non avrei potuto sostenere una conversazione con lui se dentro di me, niente più funzionava: ingranaggi bloccati e decisamente poco oliati, leve incastrate e il motore, decisamente in avaria. Non sentivo nulla, non provavo niente che non fosse il dolore o la nostalgia.
Come si fa a parlare di emozioni quando si è insensibili?
La mia risposta era che non si poteva, era decisamente impossibile.
Quindi avrei aspettato, avrei continuato a camminare per la mia strada finché almeno una goccia di reattività, non mi fosse scesa dagli occhi bagnandomi percettibilmente la guancia come una lacrima, quello sarebbe stato il momento in cui avrei capito di poter sostenere quella conversazione con il ragazzo della libreria.

Senza dire nulla, mi vestii ed uscii dalla camera saltando la colazione.
Passeggiai a lungo per il giardino del campus che si affacciava sulla strada dritta e cementata che portava all'Otis College. Andavo avanti e indietro con le cuffie nelle orecchie mentre la gente mi passava accanto con lo zaino in spalla, qualcuno mi riconosceva e mi salutava cordialmente, io sorridevo semplicemente e continuavo a camminare percorrendo gli stessi metri.

Terminata una canzone, udii in lontananza un rumore familiare, un rumore forte e ruggente. Osservai la strada ed una moto nera, la attraversò con una lentezza frustrante intasata momentaneamente nel traffico che tutte le mattine si creava su quella strada. Io, con la fortuna sempre dalla mia parte, non passai inosservata. Sapevo che mi aveva vista prima che mi voltassi e sapevo che aveva capito che l'avevo fatto di proposito.

Una mezz'oretta dopo, decisi di incamminarmi verso l'università invece di prendere la macchina. Qualcuno aveva detto che l'attività fisica, anche se si limitava ad una semplice passeggiata, poteva facilmente tirar su di morale chiunque.

Procedevo a passo lento e rilassato con la musica sparata alle orecchie e la testa bassa, quello di cui stranamente mi accorsi però, furono gli occhi verdi che avevo incontrato prima, che in quel momento, passando davanti alla libreria, mi osservavano criptici. Li percepii per dei secondi che sembravano infiniti bruciare sulla mia pelle attraverso la vetrata del negozio mentre i miei piedi, che presero velocità, picchiavano sull'asfalto cercando di non inciampare.

La giornata universitaria stava procedendo con una lentezza insostenibile. Un'inspiegabile afa galleggiava tra le mura delle aule rendendomi impossibile la concentrazione. Decisi così di alzarmi dal mio piccolo banco e uscire prima lasciando il docente di geometria a intrattenere, con ombre e prospettive disegnate alla lavagna, una massa di ragazzi che faticavano a tenere gli occhi aperti e le matite puntate sui loro album da disegno.

Mi recai inizialmente in copisteria per stampare delle dispense e all'ora di punta, mi ritrovai affacciata al balcone della serra della mia università osservando le solite persone che a quell'ora, si davano appuntamento in giardino.
C'erano tutti, tutti tranne me. Michael era in piedi di fronte ad un Luke assonnato e in occhiali da sole, con le mani dentro le tasche dei suoi pantaloni neri attillati ed una sola cuffia che pompava musica nel suo orecchio destro. Alaska parlava ai due rivolgendo degli sguardi silenziosi al ragazzo dai capelli rossi e guardandosi intorno. Sapevo che mi stava cercando, mentre Michael era concentrato a non farlo. Osservai come i suoi piedi si voltassero l'uno in direzione contraria all'altro fino a rimanere in equilibrio sulla parte laterale della suola delle scarpe, guardai come i raggi del sole rendessero più vivido il rosso scarlatto dei suoi capelli e notai la sua espressione corrugata totalmente distratta da ciò che stava accadendo attorno a lui.

Mi ricordai del fatto che era stato lui il ragazzo che avevo baciato, quello che, per pochi secondi, era riuscito a sostituire Ander.
E mentre scostai lo sguardo altrove per sfuggire al suo, capii che gli unici occhi che avrei voluto avere addosso in ogni momento della giornata, erano grigi e glaciali. Erano le uniche iridi che sarebbero riuscite a farmi rabbrividire anche ad agosto semplicemente avvertendole tra la folla, quelle che avrei riconosciuto pungere sulla mia pelle, quelle che mi lasciavano senza fiato ogni volta che dovevo fare i conti con esse.
Volevo Ander di nuovo in ogni giorno della mia vita. Volevo vedere i suoi capelli neri tra la neve d'inverno ed il suo sguardo sciogliersi nel latte caldo la mattina. Volevo ancora le sue mani sporche di catrame sui miei vestiti una volta tornato dall'officina di suo padre. Volevo ancora la sua voglia caffè sulle labbra che tutti scambiavano per una macchia di cioccolato, volevo ancora ripetere che no, non era cioccolato, quella macchia non andava via.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top