7.「일곱」

Alice si agitò sulla sedia, abbigliata com'era nella nera e severa divisa scolastica sembrava uscita da qualche drama televisivo e molto in voga nei tempi, con il cravattino a strisce gialle e blu che si intonavano ai calzini e l'aria sperduta. La pioggia che cadeva al di là della finestra pareva fosse più interessante, ché di lei e la sua volontà di sapere di più.

«Ha detto che sono un... Persona», disse Ofelia ancora alla ragazza, stropicciando gli occhi arrossati per il sonno arretrato. «Tu lo avevi capito, non è così?».

Per tutta la notte aveva fatto altro che pensare a Kei e non aveva dormito nemmeno per un solo secondo: eppure una parte oscura della sua mente si rifiutava ancora che tutta quella storia fosse reale. 

Poteva essere una proiezione della sua fantasia, il principio di una qualche forma di pazzia, o un incubo? Non poteva di certo essere sparito dal balcone, perché come minimo, se fosse saltato giù, si sarebbe ferito a morte! 

Tuttavia quella frase che le aveva sussurrato all'orecchio, risuonava ancora nei suoi pensieri, e il suo corpo s'irrigidiva ogni volta al solo ricordo. Quell'ultima affermazione l'aveva colpita nel profondo, dritto al cuore come uno sparo, suscitandole sensazioni che non potevano essere riconducibili all'immaginazione.

Sospirando, Alice fece scorrere l'indice sul bordo della tazza del Hola Café.

La luce soffusa del locale era accogliente e si erano accomodate in un punto più riparato, in prossimità della finestra, da dove si poteva ammirare le tipiche bancarelle di strada e l'andirivieni delle auto e degli abitanti del distretto. 

Dentro alla saletta, a differenza di quelli tipicamente italiani, imperava il silenzio più assoluto: la maggior parte degli avventori erano studenti alle prese con lo studio, gli occhi e il naso incollati alle pagine dei libri e dello schermo luminoso dei laptop.

Lo sguardo di Alice parve perdersi nell'orizzonte metropolitano di Seoul.

«Sono una frana con le spiegazioni», esordì l'amica in tono lugubre. «Sono consapevole di essermi comportata in maniera alquanto bizzarra, ma...» e s'interruppe, passandosi le dita tremanti tra i capelli, quel giorno lucenti e liberi sulle spalle. «Insomma, hai capito cosa intendo», concluse con un colpo di tosse secco.

Ofelia si fece più vicina. 

«Cosa stai cercando di dirmi?», la spronò.

Lei si umettò le labbra.

«Quando ci siamo conosciute, avendo gli insegnamenti rudimentali come sacerdotessa, ho avuto la sensazione che avessi incontrato la morte», rivelò. «Immaginavo che questo avrebbe attirato quel mostro da te, in fondo, solo non così presto».

«Perché?».

La ragazza fece una smorfia. 

«Perché è questo ciò che è, Ofelia, anche se va in giro a fingere di essere un umano di nome Jeon Kei Jun-koon», rispose tutto d'un fiato. «Sembra innocuo e carino a tutti, un talentuoso ragazzo di un gruppo musicale molto in voga, ma non è così». Strinse la mascella e indirizzò lo sguardo rabbuiato ancora alla finestra, come se non sopportasse di cogliere incredulità nei suoi occhi. «È stato uno choc per me».

Ofelia si ritrovò a trattenere il fiato. 

«Come sarebbe che... sono... mostri?», farfugliò. «E come è possibile una cosa del genere?».

«Ssh!».

Un paio di teste e occhi infuriati si concentrarono su di lei.

Ofelia arrossì. 

«Pardon me», mormorò imbarazzata in inglese.

Dopo tornò a rivolgere la sua attenzione a Alice. 

«Insomma, è tutto così assurdo», sussurrò poi. «Quando si è sfilato la mascherina, mi è preso un accidenti! Siamo certi che sia lui?».

«Sì che lo è», sostenne lei, determinata. «Tutti i ragazzi di quel gruppo sono mostri e possono mutare il loro aspetto come voglio, ma mi è bastato guardarli meglio negli occhi per vederli davvero, nonostante sia ancora un'allieva». Sollevò il mento, gli occhi lucidi e il volto pallido come un cencio. «Kei ha corna, occhi dorati, bocca grande, lunghi denti affilati, corpo peloso e lunghi artigli: non proprio l'aspetto di un principe azzurro, se vogliamo proprio dirlo!».

A quella descrizione Ofelia ebbe l'impressione che qualcosa di duro, come un grande mattone, si fosse insediato al posto del suo cuore: quelle erano troppe informazioni per digerirle tutte in una volta sola. 

Una parte di lei si rifiutava ancora di averlo incontrato e averci persino parlato, come se credere al soprannaturale, ai mostri, fosse sciocco e infantile. E ora, a peggiorare tutto, era uscita quella storia del gruppo dei Bulletproof Boys...

«E cosa devo fare per uscire fuori da questa situazione?», domandò all'amica. «Se mi rifiuto di seguirlo, Kei mi ha avvisato che morirò».

«Ha ragione: non c'è una via d'uscita, sei un Persona, Ofelia», replicò lei rammaricata. «Devi fare ciò che il Dokkaebi ti ordinerà d'ora in poi, fino a quando non ti consegnerà tutte le parti mancanti della tua anima: non hai scelta».

Quell'ultima parola suonò alle sue orecchie come una condanna.

«Scusami, ma... ma tu e tua nonna non potete cacciarlo via?», ribatté tremante. «Tu lo hai fatto quando eravamo in quel parco, ieri sera... no?».

«E su questo che abbiamo discusso io e la nonna al tempio: i Dokkaebi si generano da oggetti inanimati, alle volte sporchi di sangue umano, e noi sacerdoti possiamo solo esorcizzare le anime perdute degli esseri umani».

«Hai detto che era un oggetto?», ripeté incredula.

«Sì», asserì Alice, portandosi la tazza alle labbra e poi sorbendo un sorso di caffè latte. 

«La nonna lo aveva intuito, poiché abbiamo discusso sul fatto che tu fossi un Persona e che il tuo Guardiano si era già palesato da giorni e io mi sono intromessa per tenerlo lontano, seppure con fatica», narrò poi. «Ieri mi aveva ordinato di ricondurti a casa, di stracciare il talismano di protezione che avevo creato per te e non dirti nulla, perché ti avrei dato solo false speranze e spaventata».

Una grande desolazione s'impadronì di lei.

«Non potete aiutarmi in alcun modo, allora?», insistette con voce strozzata.

Alice scosse il capo.

«Purtroppo no», mormorò intristita. «Quando la nonna si è rivolta a te con quel quando sarai pronta, vieni qua, ho creduto che avesse in mente un piano». Spostò la tazza vuota vicino al porta-tovaglioli. «Tornata al tempio, ho scoperto che è partita di corsa per T'ongdosa, per un ritiro spirituale». Strinse la mascella e i suoi occhi si colmarono di rabbia. «Non c'è altro da dire», gemette infine. «Se n'è andata senza dire nemmeno che partiva».

«E... in caso... non potremo raggiungerla?».

«No, quel luogo è irraggiungibile», replicò Alice lugubre. «Un solo treno parte di giovedì, una volta ogni due mesi e non ci sono altri mezzi di comunicazione verso quella dannata montagna».

Depressa, Ofelia storse la bocca in una smorfia, rendendosi conto che l'opportunità di seguire l'anziana sacerdotessa era sfumata in un soffio.

Con un movimento lento poggiò la schiena contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Di colpo aveva voglia di urlare, e sembrava che ogni forza dell'Universo avesse deciso di renderle la vita impossibile. 

«Come faccio adesso?», mormorò, parlando più con se stessa che con l'amica. «Dovrò sottostare a questa storia assurda, dunque?».

Subito notò della luce preoccupata nello sguardo scuro di Alice: Ofelia respirò a fondo un paio di volte per tranquillizzarsi e cercò di ricomporsi, anche se ormai la ragazza si era accorta della tempesta di emozioni orrende in cui era finita preda.

A sorpresa le afferrò le mani e prese a stringerle con struggente gentilezza.

«Io sono dalla tua parte, Ofelia», dichiarò solenne la giovane. «Non ho intenzione di lasciarti sola ad affrontare tutto ciò».

Poco alla volta, la paura scemò e la abbandonò del tutto.

«Grazie», fece commossa. «Secondo te, cosa intendeva tua nonna con quel quando sarai pronta?».

«A dirti la verità, non lo so», e si alzò e recuperò la sua borsa, afflosciata sulla sedia vuota accanto. «Forse pensava di aiutarti, ma poi ci ha ripensato. Non è la prima volta che si comporta così con qualcuno».

Ofelia la seguì, riflettendo su quell'ultima risposta. 

Per un po' non interagirono mentre si recavano alla cassa e pagavano due cioccolate calde aromatizzate al peperoncino.

Insieme scesero gli scalini e uscirono dal locale sulla via principale del quartiere.

Alice tese una mano e le porse una strana scatolina con un piccolo schermo verde.

«Un cercapersone?», chiese Ofelia afferrando l'oggettino.

«Ha integrato il GPS», spiegò lei. «Quando il Dokkaebi comparirà e ti chiederà di seguirlo, premi il primo tasto, il tal modo potrò sapere dove sei tramite un'app installata sul mio cellulare». Glielo mostrò e le spiegò il funzionamento con parole più tecniche. «Siamo d'accordo?».

Lei annuì, la gola stretta per l'emozione. 

«Grazie ancora, Alice», disse in un sussurro. «Davvero».

«Di nulla», ribatté sorridendo.

E così si salutarono e Ofelia si ritrovò sola a digerire quel che le era stato appena rivelato.

Dirigendosi alla fermata dell'autobus, incappò in un poster del gruppo musicale dei Bulletproof Boys: sconvolta, fece scorrere lo sguardo incredulo sui volti dei sette membri, chiedendosi se l'amica avesse asserito la verità sulla loro reale natura di creature soprannaturali.

Piena di domande più che di risposte, si soffermò su Jun-koon, Kei, per molto tempo, sino a quando non giunse l'autobus di linea. 

Mentre salì sul mezzo, la radio del mezzo mandava l'ultima canzone del gruppo. Per una bizzarra e incomprensibile ironia del destino. 

Era sconcertante. 

* * *

Dokkaebi

Il Dokkaebi è un personaggio molto presente nella mitologia e nel folclore coreani. Possiede poteri e abilità straordinari che usa per interagire con gli umani, a volte aiutandoli e altre punendoli per atti malvagi. Appare sempre durante i giorni di pioggia o di nebbia e "nasce" da oggetti che gli esseri umani custodiscono gelosamente o sono stati macchiati dal sangue di innocenti. 




Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top