VIII. Cupole di Roma
‒Ti rendi conto di quello che hai fatto?!
Ravenna aveva tredici anni, e andava ancora alla scuola privata. Una ragazzina impertinente della sua classe l'aveva infastidita nei bagni, dicendole che i suoi genitori non le volevano bene.
Per tutta risposta, Ravenna l'aveva schiaffeggiata. Proprio così: le aveva dato uno schiaffo e non se ne era pentita nemmeno un po'.
Però per questo motivo era stata sospesa, e ora si trovava nella sua cameretta in Via dei Gracchi, insieme ad Alberto Vizi e a Luisa Boneio, che le stavano facendo la paternale da più di mezz'ora.
Tuttavia, Ravenna ne coglieva solo stralci distanti e sconnessi: ‒Sconveniente... Condotta... Professori... Cosa penseranno di noi?
Era come se il suo cervello si rifiutasse di concentrarsi sui discorsi vani, sui corpi magri e freddi che la sovrastavano, sulle gambe lunghe e sempre pronte a filare via quando ne avrebbe avuto più bisogno.
Seduta sul letto, osservava invece le pareti rosa confetto su cui non le era mai stato permesso di appendere poster, la scrivania priva di foto, l'armadio barocco pieno di vestiti che detestava, l'ordine inappuntabile.
Non c'era nulla che le piacesse in quella stanza, nulla a cui si rivolgesse con affetto.
‒Ravenna, ci stai ascoltando?!‒ tuonò sua madre.
Ravenna si ridestò e la guardò. Luisa Boneio aveva il viso congestionato, in tinta con il completo rosso fuoco e con le labbra spalancate. Nella foga di rimproverarla, alcuni boccoli erano sfuggiti all'acconciatura, e questo era un indizio sufficiente a suggerire quanto fosse in collera.
Suo padre, al contrario, era il ritratto dell'indifferenza: braccia conserte, espressione indecifrabile, colletto della camicia inamidato come se stesse sbrigando l'ennesima pratica d'ufficio.
Ravenna avrebbe voluto saltargli addosso, urlare, distruggere tutto.
Invece rimaneva lì a fissarli.
‒Perché no?‒ chiese. ‒Perché non posso schiaffeggiare chi mi infastidisce?
‒Ma come "perché"?‒ sbottò sua madre. ‒Te lo abbiamo spiegato fino ad ora!
‒È molto semplice, Ravenna‒ intervenne allora Alberto Vizi. ‒Noi non cresceremo una figlia violenta.
Ecco pronta la risposta.
Il punto non era se ci fosse o meno una connotazione negativa nelle sue azioni.
Il punto era che lei era la figlia dei Vizi. E la figlia dei Vizi non poteva certo permettersi di compiere misfatti.
La figlia dei Vizi doveva essere perfetta: studiosa, atletica, simpatica, garbata, con una bella gonna a ruota e un sorriso preconfezionato sempre pronto all'uso.
La figlia dei Vizi doveva fare la scelta giusta in ogni situazione, senza mai sentirsi a disagio, fuori luogo, o peggio: persa.
Ma c'era un problema: Ravenna non era la figlia dei Vizi. Ravenna era stata adottata, e questo voleva dire che non era perfetta, ma sbagliata.
Forse, visto che era entrata a far parte di quella famiglia solo per errore, Ravenna non sarebbe mai cresciuta. Forse sarebbe rimasta in eterno in quel limbo maledetto, in quello stato larvale di tredicenne, senza mai completare la metamorfosi per potere, finalmente, volare via.
A volte Ravenna si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se i suoi veri genitori non fossero mai morti.
In quale casa avrebbe vissuto? Che scuola avrebbe frequentato? Quanti amici avrebbe avuto? Che tipo di persona sarebbe diventata?
Eppure cercava di non indugiare mai troppo a lungo in quelle domande, perché spesso le risposte le procuravano una sofferenza insopportabile.
Quindi eccola di nuovo lì, in quell'odiosa cameretta, coi suoi insoddisfatti genitori.
Suo padre sospirò, annoiato. ‒Che non si ripeta mai più‒ disse. Poi, rivolto a sua moglie: ‒Muoviamoci, Luisa, o faremo tardi per la riunione.
La donna annuì e i due fecero per andarsene, ma Ravenna li fermò.
Un dubbio l'assillava: ‒Perché mi avete adottata?
Luisa si voltò di scatto. ‒Che domande sono?
‒Perché l'avete fatto?
‒Be', perché volevamo un figlio, no?
Ravenna la squadrò. ‒E perché volevate un figlio?
‒Be'... Be', perché...‒ di colpo, sua madre sembrava aver perso la parlantina.
Suo padre taceva.
Ravenna sorrise e decise che le avrebbe sguinzagliate. Tutte le parole che aveva covato per tredici lunghi anni, tutte le ansie, tutti i timori, tutto il risentimento.
‒La verità‒ disse, ‒è che non lo sapete nemmeno voi per quale ragione avete voluto un figlio.
‒Ravenna!‒ la richiamò sua madre, ma lei la ignorò.
Le frasi erano come un fiume in piena che arrivava diretto, dalla sua testa, alla sua bocca. ‒A voi non importa niente di me. Non vi importa di quello che mi succede, o di come mi fa sentire.
‒Falla finita...
‒Il problema non è mai quello che faccio, o perché lo faccio, o se sia giusto o sbagliato. Il problema è sempre e solo quali ripercussioni le mie azioni avranno su di voi.
‒Smettila!
‒Ma è la verità!‒ sbraitò lei, saltando il piedi. ‒È come ha detto quella ragazza, aveva ragione! Vi importa solo del vostro stramaledetto lavoro, delle vostre cretinate da adulti e della vostra ridicola reputazione!
‒Basta, Ravenna!
‒Voi non mi volete bene!
Il ceffone le arrivò con una velocità e una forza tali da mandarla distesa sul letto.
Ravenna rimase stordita dal dolore per alcuni secondi, il viso affondato nel cuscino. Sentiva tra i denti il sapore metallico del sangue e vedeva stelline nere ovunque.
Tenendosi la guancia pulsante, si rialzò.
Alberto Vizi, la mano ancora a mezz'aria, appariva imperturbabile, come se non se non l'avesse appena schiaffeggiata, come se non fosse mai successo niente.
Ravenna non aveva la più pallida idea di cosa fare. Era paralizzata dal male, e dal terrore, e da una tristezza senza fondo.
‒Smettila di fare la bambina‒ disse Alberto. ‒Non abbiamo tempo da perdere.
Poi si voltò e uscì dalla stanza.
Luisa Boneio non fiatò, né la guardò. Seguì solo suo marito, chiudendosi la porta alle spalle.
E Ravenna rimase di nuovo sola.
Sola con la sua guancia dolorante, sola con la sua inadeguatezza e con l'assoluta certezza che lei non sarebbe mai stata una figlia.
Ma solo una bambola.
Ravenna si accasciò sul pavimento e pianse fino a quando si addormentò.
Luisa Boneio marciava da un capo all'altro dell'open space come se stesse tentando di scavarci un solco in mezzo. Si era tolta i tacchi, aveva i capelli in disordine e non la smetteva più di mordicchiarsi le unghie smaltate.
Alberto Vizi, invece, era seduto sul divano borgogna coi gomiti sulle ginocchia. Si era tolto gli occhiali e si teneva con una mano il ponte del naso, mentre con l'altra reggeva il telefono. ‒Ho capito, ho capito. Sì, va bene. La ringrazio comunque per il disturbo.‒ E attaccò.
‒Quindi?‒ chiese Luisa, impaziente. ‒È con loro?
‒No, Diletta l'ha persa di vista all'inizio della festa. Hanno recuperato le sue cose e il cellulare nel seminterrato, ma non sanno dove possa essersi cacciata.
Luisa fece un giro su sé stessa, incrociò le braccia al petto e riprese a passeggiare per la stanza. ‒Che facciamo? Chiamiamo la polizia?
‒E se la notizia dovesse diffondersi?‒ rispose Alberto, massaggiandosi una tempia. ‒Penseranno che non sappiamo gestire nemmeno nostra figlia.
‒Vogliamo aspettare che passi qualche mese, prima di intervenire? Che penseranno allora?‒ chiese di rimando Luisa, sbattendo i talloni sul parquet.
Poi si voltò verso di lei, angosciata come non mai. ‒Tu che cosa ci consigli, Dolores?
Dolores, che era rimasta in silenzio dal momento in cui era entrata in casa, se ne stava accomodata intorno al tavolo, avvolta nel suo scialle color prugna, con le braccia conserte di fronte a sé e lo sguardo assorto.
Pensava molte cose, ma a nessuna di queste riusciva a dare un senso. A volte si chiedeva se non fossero altro che pedine dell'ultima, grandiosa trama di Porzia, se lei avesse sempre saputo che alla fine si sarebbero ritrovati in quella stanza a rimuginare sul da farsi.
In un modo contorto, e forse anche sbagliato, Porzia li aveva resi una famiglia. Una famiglia che non aveva mai voluto esserlo, una che spesso finiva per odiarsi e sabotarsi, ma anche una che, nonostante tutto, aveva rispettato i patti, crescendo per sedici anni una bambina.
E ora che il compito era terminato, ora che più niente li teneva uniti, come erano finiti ancora una volta insieme?
"Perché Ravenna è scappata" si disse Dolores.
Ma questo era sufficiente ad allarmare i Vizi a quel modo? A farli giocare all'angustiata famigliola?
Dolores li osservava e non li capiva. Oltre a offrirle vitto e alloggio, quei due non avevano mai fatto niente per Ravenna, se non maltrattarla. Per quale ragione adesso si affannavano per ritrovarla?
‒Sono passati sedici anni da quando Porzia è morta‒ disse. ‒Gli obblighi che ci legavano a lei sono scaduti. Voi non le dovete più niente, e nemmeno io.
Luisa Boneio si rabbuiò. ‒E questo ti sembra un buon motivo per starcene con le mani in mano?
Dolores arricciò le labbra, perplessa. ‒Mantenere immacolata la vostra immagine non sarà un problema‒ proseguì. ‒Come sempre, potrete contare sul mio silenzio. D'altronde hanno tutti una grande stima di voi, nessuno potrebbe dubitare della vostra buona fede. Nel migliore dei casi otterrete anche un po' di visibilità mediatica e, se saprete simulare un lutto abbastanza pietoso, i vostri guadagni di certo ne gioveranno. Basterà farlo sembrare... un incidente.
‒Che diavolo stai dicendo, Dolores? Sei forse impazzita?!‒ strepitò Alberto.
Dolores gli scoccò un'occhiata raggelante. ‒Que te pasa, querido? Non vedo che cosa vi sia di tanto irragionevole.
‒Stiamo parlando di un omicidio!
Dolores fece spallucce. ‒Stando ai fatti, non mi pare che abbiate mai esitato quando Porzia vi ha chiesto di versare del sangue, e nemmeno io.
Il tono di Luisa era sprezzante. ‒È diverso.
La strega mise su un'espressione confusa. ‒Che cosa c'è di diverso?‒ chiese. ‒Sarebbe l'occasione perfetta per liberarvi di lei.
‒Noi non possiamo...‒ iniziò Alberto, ma Dolores lo interruppe.
‒Se è vero che Ravenna per voi non è mai stata altro che una seccatura, se è vero che non vedevate l'ora di sbarazzarvi di lei... che cosa vi trattiene?
A quelle parole, sulla stanza calò un silenzio pesante come il piombo. Nessuno dei presenti osava guardarla, troppo indaffarati a giocherellare con le proprie dita o con le punte dei piedi.
Alla fine, Luisa Boneio si riscosse. ‒Io chiamo la polizia, Alberto‒ annunciò.
Dolores non riusciva a credere alle proprie orecchie. La consapevolezza che i suoi sospetti erano fondati e lo stupore per gli stessi le fecero sbarrare gli occhi. ‒Voi le volete bene.
Luisa sussultò come se avesse preso la scossa. Il suo viso iniziò a deformarsi, fino a diventare livido e alterato dall'ira. ‒Taci, stupida zingara! Cosa vuoi saperne, tu, di amore?!‒ gridò.
Dolores scattò in piedi e puntò un indice minaccioso contro la donna. ‒Mira, Luisa!‒ tuonò. ‒Siete voi che mi avete richiamata qui, e non il contrario!
‒Tu...‒ rantolò Luisa. ‒Con chi pensi di avere a che fare?
‒Todo lo que hiciste, lo hiciste por codicia!‒ rincarò impietosa l'altra. ‒Il mio debito con Porzia è scaturito dalla necessità, ma voi... voi non ne avevate alcun bisogno. Siete persone piccole, meschine e ingannevoli.
‒Come osi...
‒Pero todavia‒ proseguì Dolores, muovendo qualche passo in avanti ‒a la nina la trajiste aqui, y nunca la cuidaste. Cosa pensavate di fare? Vendicarvi su di lei per i torti di Porzia?!
‒Tu non capisci, Dolores!‒ urlò Alberto, tradendo un'agitazione inusuale, innaturale.
Dolores spalancò le braccia. ‒No, en serio yo no lo entiendo.
Ci fu una lunga pausa. Dolores scrutava i due coniugi in attesa di una risposta, che sembrò non arrivare mai.
Ma infine, quando Luisa Boneio parlò, ciò che disse la sbalordì. ‒È vero,‒ esalò ‒è così. Tutto ciò che abbiamo oggi lo dobbiamo a Porzia. Ma a quale prezzo? Non poter godere della gioia di un figlio è stato il dolore più grande delle nostre vite.
La donna fece una pausa e riprese a camminare. ‒E poi? Poi, quando finalmente è morta, quella strega ci ha appioppato la sua, di mocciosa! E lei, lei era così... piccola e innocente, come se non condividesse lo stesso sangue di quell'orrido mostro!‒ esclamò, levando le braccia al cielo. ‒Non sarebbe mai dovuta nascere. Ogni volta che la guardavo desideravo che sbattesse la testa o che morisse nel sonno. Lei era l'incarnazione di tutto quello che non avremmo mai potuto avere, di tutto ciò a cui avevamo rinunciato per la buona riuscita delle nostre aspirazioni! Eppure...
Luisa si fermò. Fissava un punto nel vuoto con la fronte corrugata, come se si fosse appena resa conto di qualcosa di gravissimo e aberrante. ‒Eppure lei è cresciuta in questa casa, con noi‒ disse con un filo di voce. Le labbra le tremavano, e le guance avevano perso tutto il loro colore. ‒Non con Porzia. Ravenna è cresciuta qui, con noi.
Sotto allo sguardo attonito di Dolores, gli occhi di Luisa Boneio si riempirono di lacrime. ‒Dobbiamo ritrovarla. Noi dobbiamo ritrovare la nostra bambina.
Alberto Vizi, che fino a quel momento non aveva più fiatato, si alzò dal divano per avvicinarsi a sua moglie e stringerla tra le braccia.
Le accarezzò la testa con inaspettata dolcezza, bisbigliandole: ‒La ritroveremo, cara. Te lo prometto.‒ Poi, rivolto a lei, aggiunse: ‒Per favore, Dolores. Abbiamo bisogno di te.
Dolores li osservò a lungo. Per la prima volta in sedici lunghi anni, quei due le parvero sinceri.
Prese un respiro profondo, infine annuì e si alzò in piedi. ‒Farò tutto il possibile, ma non posso promettervi niente‒ disse.
Andò all'ingresso, dove aveva lasciato la propria valigia, e frugò al suo interno, estraendone alcuni antichi talismani, polveri scintillanti e quanto di utile fosse in suo possesso per sistemare la situazione.
Anche Dolores voleva bene a Ravenna. L'aveva vista crescere e l'aveva amata, a tratti, come una figlia, ma sapeva anche che il corso del destino è inarrestabile. Si poteva tentare di deviarlo o di sfuggirgli, proprio come avevano fatto quando Porzia era morta, o ancora a Villa Borghese, tanti anni prima. Ma presto o tardi li avrebbe travolti. Non esistevano amuleti, incantesimi o pozioni potenti abbastanza da impedirlo.
Raccogliendo a sé tutto lo spirito che riuscì a trovare, Dolores invocò per Ravenna la più grande forza nell'universo, l'unica in grado di salvarla e di riportarla a casa.
Pregò che questa forza la proteggesse, la guidasse e la rassicurasse, che le infondesse giudizio e sicurezza in egual misura, e che non l'abbandonasse mai.
Poiché solo una cosa era più inarrestabile del Destino.
Se Ravenna si fosse salvata, quella notte, Dolores sapeva che sarebbe stato merito della pura, semplice e più cieca Fortuna.
Nel Giardino degli Aranci si aprivano due slarghi. Il vialetto centrale era costeggiato da rialzi di pietra, sormontati da grandi vasi ocra, in cui crescevano alcuni alberelli.
Contro il cielo notturno e i fuochi fatui delle lanterne, i pini del parco erano braccia lunghe e magre pronte a chiudersi su di loro, e i rami mani intrecciate sopra alle loro teste.
Malva si accorgeva dell'impegno profuso per concentrare la sua attenzione altrove; qualunque cosa, qualunque cosa, pur di non guardare Paura.
Mentre si avvicinavano al belvedere, iniziava a notare dettagli insignificanti, eppure imprescindibili: i loro respiri che si condensavano in candidi sbuffi di vapore e poi svanivano; ogni centimetro di distanza tra i loro corpi e l'elettricità che vi si annidava in mezzo; lo scricchiolio dei loro passi sul brecciolino a intervalli regolari.
Lei stava camminando in modo strano, mettendo un piede di fronte all'altro con cura estrema, maniacale, come se ne fosse dipesa la sua stessa vita.
Di colpo, era divenuto il suo compito, il suo scopo primario e fondamentale, che le rette incidentali delle loro esistenze non si annodassero, aggrovigliandosi e sovrapponendosi in una sola.
Non avrebbe saputo spiegarlo ad altri, ma di quell'evenienza ne percepiva il pericolo, come la preda che sta per essere divorata dal suo naturale predatore.
Ma non c'era ragione perché lui la divorasse. O forse sì?
Malva non ne aveva la più pallida idea, ma comprese di star vaneggiando.
Si costrinse quindi a guardarlo, domandandosi da quale romanzo decadente fosse uscito.
Paura aveva un profilo dipinto. Il riverbero della luce gli rendeva i capelli d'argento, gli bordava le spalle e la schiena, indurendone la curva, gli sfumava le pupille di un bagliore sinistro. C'era un abisso nel suo sguardo. Un segreto ulteriore. Un baratro.
Malva non voleva affondarci dentro. Aveva il sospetto che non ne sarebbe mai più riemersa. Ma quell'erebo la invitava, la reclamava.
Il cuore le martellava nei polsi e nelle orecchie, e lei ne era cosciente in un modo strano, esterno, come se quel battito non appartenesse soltanto a lei, ma fosse, in realtà, un po' di tutti e due.
Lo spazio che li separava dalla terrazza panoramica stava diminuendo inesorabilmente. Si rese conto, allora, in un misto di orrore, sgomento e trepidazione, di stare aspettando e che lo stava facendo dal primo momento in cui aveva messo piede in quel giardino. Attendeva qualcosa. Ma non aveva idea se a terrorizzarla fosse l'oggetto della sua attesa o l'attesa stessa.
Era confusa.
Alla fine, furono lì. Salirono il primo gradino, poi il secondo e anche il terzo, superarono le panchine di marmo e si accostarono al parapetto.
Malva trasalì quando la vista si aprì di fronte a loro. Da lassù, poteva vedere le chiome degli alberi che torreggiavano sulla strada, le poche automobili che vi sfrecciavano attraverso, le acque torbide del Tevere che rotolavano nel canale e, sopra tutto questo, lo splendore delle luci di Roma nella notte, sfavillanti pennellate di un quadro impressionista.
I due ragazzi tacquero.
Il vento soffiava, e portava con sé l'odore del fumo, dell'umidità e dell'erba appena tagliata, insieme all'eco lontana di alcune sirene, eppure Malva non aveva più freddo.
La bellezza del panorama si specchiava in lei, e lei si specchiava nella bellezza del panorama. Se ne nutriva, la aspirava come un balsamo per le brutture della sua anima. Le sembrava che potesse ricucirne i bordi, appianarne le cicatrici. Forse sarebbe bastato. Avrebbe fatto in modo che bastasse, per continuare a vivere.
Si chiese se anche lui la pensasse in quel modo. Se aveva un'anima a brandelli come la sua, come se l'era procurata? Avrebbe voluto domandarglielo, ma avrebbe rotto il momento.
Quindi si limitò ad aggiungerla alla lista di incognite, e rimasero entrambi in silenzio.
Ma poi Malva reclinò il capo all'indietro, su di un cielo privo di lentiggini. Si stupì della somiglianza con lo sguardo di lui, senza fondo, e ne fu sopraffatta.
Senza pensare, parlò.
‒Paura, secondo te dove finisce il cielo?
A quel punto, anche Paura si voltò. I suoi occhi la trafissero di blu. La studiò, corrugando la fronte. -Dove inizia l'universo, credo.
‒E dove inizia l'universo?
‒Be'...
‒Noi ci siamo dentro, no? All'universo, dico.
Paura appariva sempre più perplesso. ‒Sì, mi risulta di sì.
‒Ma allora deve essere fatto anche un po' di cielo, l'universo‒ proseguì Malva.
‒Probabilmente...‒ Paura arricciò le labbra. ‒Ma che stai dicendo?
‒Sto dicendo che noi ci siamo dentro.
‒Dentro a cosa?
‒Dentro al cielo.
‒Dentro al cielo?
Malva annuì con decisione. ‒Certo! Se qui finisce la terra...‒ spiegò, indicando la terrazza sotto ai loro piedi, ‒noi siamo dentro al cielo‒ e qui rivolse l'indice verso l'alto.
Paura la fissò incredulo per qualche istante, prima di offrirle un sorriso divertito e una scrollatina di spalle. ‒Mi sa che il freddo ti ha dato alla testa‒ disse.
Malva ridacchiò e abbassò lo sguardo. Sentiva le guance calde. ‒Già, sembro un po' matta...
Eppure, nella sua follia, lei ci credeva. Malva era convinta di essere parte del cielo, e quindi anche dell'universo. Perché era impossibile che fosse altrimenti. Era impossibile che fossero avulsi da un simile disegno, uno che li aveva nascosti per sedici lunghi anni, e che invece quella notte li aveva portati fino a lì.
Non c'erano parole per descriverlo. Malva lo sapeva e basta, che era così. Erano nel luogo e nell'ora in cui dovevano trovarsi. Si rifiutava di ammettere il contrario.
Scrutò il ragazzo attraverso la penombra. Paura era pallido. La sua espressione appariva sempre più turbata, la mascella sempre più dura. Apriva e chiudeva i pugni, tentando di afferrare qualcosa che ogni volta finiva per sfuggirgli.
Malva si schiarì la gola.
‒Paura,‒ iniziò, ‒hai mai pensato... Sì, insomma, hai mai pensato che esista un destino?
L'occhiata che lui le rivolse le gelò il sangue nelle vene. Era ghiaccio, e fuoco, e la stava annientando.
‒Voglio dire, guardati intorno‒ proseguì in un sussurro. ‒Il cielo, il giardino, la città, io e te, qui e ora. Forse è il freddo, o forse è l'orario, ma è come se lo avessi sempre saputo. Come se sapessi già che ti avrei incontrato.
Malva cercò in lui una reazione, ma il suo volto era una maschera di cera.
Eppure, doveva sentirlo. Malva voleva che lo sentisse.
‒Io penso che noi due ci assomigliamo‒ disse. ‒Tu lo sai come ci si sente a essere diversi, a essere soli, intrappolati senza via di scampo. E lo so anche io. E forse sono egoista, però mi fai sentire un po' meno sbagliata e un po' più felice.
Fece un pausa. Fu minuscola, ma sufficiente a darle sollievo.
‒Questa notte...‒ esalò, ‒questa notte è come se fossi nel posto giusto al momento giusto. Come se fossimo arrivati nel luogo a cui apparteniamo.
Malva prese un respiro. La sua voce tremò.
‒Come se fossimo finalmente a casa.
Le parole di Malva risuonavano nella notte. Aleggiavano nel giardino, oltre la balaustra, sopra al fiume, sulle strade e sulle case, fino a coprire l'interezza dell'orizzonte.
Adesso la realtà di Alessio non ammetteva altro all'infuori di quelle parole. Ma lui non sapeva come spiegarle, come decodificarle, quasi fossero state pronunciate in un'altra lingua, una misteriosa e molto diversa dalla sua.
Eppure gli avevano fatto male, questo lo sapeva. Gli avevano stretto il cuore.
Perché forse non aveva bisogno di capirle, ma solo di sentirle, e questo bastava.
E poi si guardarono. A lungo e perdutamente. Cercando di aggrapparsi l'uno all'altra per non soccombere. Ma non c'erano né un riparo, né una salvezza. C'erano solo loro.
Malva fece un sorrisetto nervoso, spezzato. ‒Sono una stupida, vero?
‒No, non lo sei.‒ Paura sentì la risolutezza nella propria voce. ‒Non lo sei affatto, Malva.
E poi accadde una cosa tremenda, la peggiore di tutte: Paura immaginò.
Non come era, no, ma come sarebbe potuto essere.
Lei avrebbe indossato un vestito bianco e quasi trasparente, e avrebbero camminato in riva al mare, coi piedi a mollo, tenendosi per mano. I suoi capelli rosa sarebbero stati nel tramonto, e poi sparsi sul cuscino, e lei avrebbe riso, e la sua risata lo avrebbe tormentato giorno e notte, perseguitandolo come un fantasma, nei suoi sogni.
E lui avrebbe abbattuto le sue difese e lei avrebbe lenito il suo dolore, solo guardandolo. Per sempre. Proprio così, come stava facendo adesso, con quei suoi grandi occhi buoni e pieni di aspettativa. Perché Alessio avrebbe voluto che lei potesse aspettarsi qualcosa da lui... ma la verità era che non poteva. Non doveva.
Ma quando Malva infine si decise a distogliere lo sguardo, Paura si sentì morire.
Poi rimase solo il silenzio.
Malva che ammirava la città e Paura che ammirava Malva. E non riusciva a credere - no, proprio non ci riusciva - che stesse accadendo veramente.
Perché ora era Alessio Carracci a non volere, a non potere.
Ravenna Vizi era davvero una strega. E come tutte le streghe, lo aveva ammaliato.
‒Roma di notte è il massimo. Le cupole sono incantevoli‒ disse lei, forse per sdrammatizzare.
Una considerazione passò nella sua mente e, come per magia, si materializzò sulla terrazza, proprio lì, tra di loro.
‒Tu sei più bella delle cupole di Roma.
Gli occhi di Malva volarono su di lui. ‒Cosa?
‒Che?
‒Cosa hai appena detto?
‒Io non ho fiatato.
Il volto della ragazza era in fiamme. ‒Hai appena detto che sono...‒ Il suo labbro inferiore ebbe uno spasmo impercettibile, eppure lui lo notò. Lo notò.
Malva ruotò in fretta il collo. ‒Niente, lascia stare.
Un bisogno dilaniante esplose nel petto di Alessio. ‒Forse l'ho detto, non me ne sono reso conto. Ma è vero. Tu sei più bella... Sì, sei più bella delle cupole di Roma.‒ Il fiato gli si mozzò in gola. ‒Sei più bella anche del Colosseo, se è per questo, e dei Capitolini, e anche di Piazza di Spagna...
Malva era sconcertata. ‒Che stai blaterando?
‒Sei bellissima‒ esalò lui tutto d'un fiato. ‒Sei la creatura più bella che io abbia mai visto.
Diego Carracci temeva che sarebbe impazzito. L'istante successivo a quello precedente, sarebbe di certo uscito di senno. Eppure le lancette dell'orologio ticchettavano un secondo alla volta, e lui rimaneva in sé, gambe larghe sulla sedia, rigirandosi il telefono in mano come se avesse potuto rivelargli le risposte alle domande che lo assillavano.
La litania incessante che proveniva dal televisore metteva a repentaglio la sua già provata pazienza.
Nella penombra del salotto, Umberto Carracci non era altro che una sagoma in un teatro di ombre cinesi. Fiacco, disteso sul divano logoro, una bottiglia di birra quasi vuota in una mano e la maglietta sgualcita che seguiva le ossa macilente, fissava lo schermo in catalessi, gli occhi e il colorito giallastro di chi è vicino al punto di non ritorno.
Era una scena nota.
Diego non ricordava di averlo più visto in altro modo dopo che sua madre era morta.
La fine di lei era stata l'evento scatenante, la supernova che aveva dato origine al buco nero.
Quell'estate di tanti anni prima, la sua famiglia era collassata.
Quell'estate di tanti anni prima, Alessio aveva firmato la sua condanna e suo padre aveva smesso di muoversi.
Erano morti anche loro. Suo fratello e suo padre l'avevano abbandonato da solo coi loro relitti, i pallidi fantasmi di chi non sarebbe tornato mai più.
Un destino raccapricciante, e Diego non avrebbe saputo dire per quale motivo l'avesse accettato.
Ma lui non ce l'aveva con Alessio e Umberto per questo. Ce l'aveva con sé stesso, perché sapeva che avrebbe dovuto andarsene, ma non ci riusciva. E poi ce l'aveva con Giada Ragusa, perché morendo si era portata via anche loro, e non ne aveva il diritto.
Ma la parte peggiore era che, per quanto si arrabbiasse, i morti non tornavano a chiedere scusa. Nessuno gliel'avrebbe mai chiesta.
Si fece scappare un grugnito insofferente, sbirciando per l'ennesima volta l'orologio da parete con la coda dell'occhio.
Le quattro e trentasette. Sbloccò il telefonino. Ancora nessuna notizia. Mancava poco all'alba, e di quel maledetto di suo fratello neanche l'ombra. Non appena fosse tornato, gliel'avrebbe fatta pagare cara per essere scappato in quel modo.
Diego si sentì sopraffare dall'esasperazione. Affondò il volto tra le mani, cercando di fare profondi respiri per calmarsi.
‒Lui non lo farà.
Le parole gli giunsero roche, flebili a tal punto che Diego pensò di averle immaginate.
Alzò di scatto la testa e guardò suo padre. Umberto parlava raramente, mai se non interpellato.
‒Hai detto qualcosa?
‒Lui non lo farà‒ ripeté l'uomo, senza distogliere gli occhi vuoti dal film che stavano trasmettendo. ‒Alessio non ucciderà la ragazza.
Diego rimase di stucco. Quella situazione gli parve surreale, e lui la visse dall'esterno, come se il suo spirito non fosse nel suo corpo, ma aleggiasse nella stanza, sopra di loro.
‒Che vuoi dire?
‒Tuo fratello non è un assassino‒ spiegò con calma l'uomo. ‒Non ha ucciso me e non ha ucciso quel demonio di Porzia. Non ucciderà neppure lei.
Diego fu assalito da un moto di fastidio. Ora, di colpo, suo padre si comportava come se capisse ogni cosa, come se li conoscesse. Ma Umberto non sapeva un bel niente di loro. Diego non ce l'aveva con lui, no. Ma non poteva lasciargli sperare che la porta fosse ancora aperta. Perché non lo era più da un pezzo.
‒Perché mi stai dicendo queste cose, adesso? Che cosa credi di ottenere?‒ rantolò, iniettando di fiele ogni singola parola.
Allora, per la prima volta dopo anni, Umberto Carracci si mosse. Volse il capo e guardò suo figlio dritto in faccia, come Medusa, pietrificandolo sul posto. ‒Tu devi andartene. Sei l'unico che ancora può vivere, qua dentro. Vattene, Diego, finché sei in tempo.
Ci fu una pausa. Fu lunga e pesante.
Padre e figlio rimasero a scrutarsi per un po', e quando infine Umberto tornò a concentrarsi sul televisore, Diego si accorse di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo, e che stava tremando.
Non sapeva che pensare. O forse lo sapeva fin troppo bene.
Strinse la mascella e riprese a rigirarsi il cellulare tra le mani. Per abitudine, lo sbloccò.
Un messaggio.
Alessio gli aveva inviato un messaggio.
Diego lo aprì con foga febbrile, col cuore che gli palpitava nelle orecchie.
E poi lesse.
Solo due parole.
Una sentenza.
Il momento della verità.
"L'ho
trovata."
Il tempo si era fermato.
Malva e Paura si scrutavano.
La brezza notturna copriva con una cortina rosa intenso i lineamenti di lei, mischiava ciocche ribelli a lunghe ciglia coperte di mascara, ma il volto della ragazza brillava nel buio.
Malva aveva le guance di porpora, labbra sottili dischiuse, umettate appena, occhi luminosi, giganteschi e insostenibili.
Alessio era fatto di vetro. Si sentiva come se ogni cellula del suo corpo si fosse di colpo tramutata in una farfalla, e quel nugolo, quella moltiplicazione di ali, se solo lei lo avesse sfiorato si sarebbe dispersa nel mondo.
Lui non sarebbe stato più.
Malva esalò un respiro breve, tremulo.
Le farfalle fremettero.
‒Ci stai provando con me?
‒No, io...
‒Speri che succeda qualcosa? Hai secondi fini?
‒No! No, io volevo solo... dirtelo.
‒Oh.‒ Il petto di Malva si alzava e abbassava velocemente. ‒Grazie.‒ Si torse le dita, mordicchiandosi l'angolo della bocca. ‒Il fatto è che nessuno mi ha mai detto una cosa simile, prima. Io non penso di essere bella.
‒Tu non capisci‒ disse Alessio prima di poterselo impedire.
Perché era così, lei non capiva.
Non comprendeva che il fatto stesso che fosse destinata alla morte la rendeva magnifica, che trasformava la sua mera presenza in un miracolo. Lei questo non lo afferrava, non ci arrivava. E come avrebbe potuto?
‒Cosa?‒ chiese la ragazza, sorpresa. ‒Che cosa non capisco?
Alessio la guardò. Ma prima che potesse rispondere, le parole gli si raggrumarono in gola e la vista gli si annebbiò di lacrime.
Malva si allarmò, l'espressione preoccupata, il tono apprensivo. ‒Va tutto bene?
Il ragazzo scosse la testa. ‒Scusami...‒ riuscì solo a biascicare. ‒Io non so cosa mi sia preso, è solo che...‒ ma prima che potesse finire la frase, Malva fece un passo avanti e lo abbracciò.
Non un cenno di esitazione, non un dubbio, o un'incertezza.
Lo aveva accolto nel cerchio delle sue braccia.
Alessio sapeva che era tutto sbagliato.
Perché lei era la sua vittima, e perché lo stava tenendo vicino, e perché lui avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo, all'ennesima occasione, proprio lì, in quel momento, in quel punto, ma non voleva ucciderla.
Alessio non voleva ucciderla.
Ma avrebbe dovuto farlo.
Non si trattava di lui, si trattava di tutta la sua famiglia, della loro vita, della loro libertà.
Come poteva tirarsi indietro?
E le braccia di Malva erano calde e confortanti, e il suo profumo avvolgente e familiare. Lei non gli chiedeva spiegazioni, non ne aveva bisogno.
Ma presto sarebbe stata fredda, e vuota, e non sarebbe esistita più.
Mai più.
Solo.
A Causa.
Sua.
Alessio esplose in un pianto dirotto. Gridò, singhiozzò e ricambiò l'abbraccio di Malva, avvinghiandola in un moto disperato, delirante, come se quel solo gesto bastasse a prolungare la sua permanenza su quella terra e la durata di quella notte, ma non sarebbe servito a niente.
Non c'era nulla che potesse fare.
Alessio doveva ucciderla.
La strinse a sé, meravigliandosi della consistenza del suo corpo sotto ai suoi palmi, così fragile eppure così reale.
Era una tortura, per lui, un torto che stava facendo a sé stesso.
Ma non poteva privarsene.
‒Mi dispiace‒ piagnucolò nell'incavo del suo collo. -Mi dispiace così tanto, Malva...
‒Non fa niente‒ bisbigliò Malva di rimando, passandogli una mano tra i capelli. ‒Sfogati e basta se ne hai bisogno, Paura.
Alessio sussultò, abbandonandosi a lei.
L'aveva chiamato Paura.
Paura.
Non Alessio Carracci.
Non "Piccolo codardo".
Paura.
Solo Paura.
Malva e Paura.
Malva, che era rosa, e Paura, che era spina. Malva, che era quiete, e Paura, che era tempesta. Malva, che era sollievo, e Paura, che era tormento. Malva, che era compassione. E Paura, Paura che era condanna.
Ma quella notte ribaltava le regole e annullava le distanze. Perfino il diavolo si sarebbe commosso alla loro vista. Tutto era possibile, e Lui lo sapeva.
Perché Alessio Carracci avrebbe dovuto uccidere Ravenna Vizi, ma Paura no. Paura non doveva fare proprio un bel niente. Quindi, se Paura piangeva, Malva poteva abbracciarlo. Perché non c'erano più regole, né distanze da rispettare. Paura poteva respirare e sperare e perfino pregare. E stringere Malva e sognare. Fingere.
"Ancora un istante" si disse. "Solo per stanotte. Solo fino all'alba. Dammi tregua fino al sorgere del sole. Poi lo farò. Giuro che lo farò. Ma tu aspetta ancora. Aspetta e basta."
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