VII. Scelte
L'aria era fredda, sapeva di pioggia e bruciava la gola a ogni respiro. In qualche modo, faceva sprofondare Malva in uno stato molto simile all'ubriachezza. La ragazza sentiva la testa leggera, vedeva le luci della strada, i fanali delle automobili, i fiochi luccichii dei semafori che vorticavano in un valzer splendente di colori.
Ma i colori erano spaccati a metà dalla figura di Paura, che la precedeva sul marciapiede.
A un tratto, lui si voltò. Aveva un colorito pallido e sembrava un po' infreddolito. Malva, riparata dal chiodo di pelle che lui non si era ancora ripreso, si sentì in colpa.
‒Allora, dove siamo diretti?
‒Te l'ho già detto, al Giardino degli Aranci.
‒Che?
‒Il Giardino degli Aranci. Non è molto distante, potremmo solo...
‒Lo conosco, so dov'è. Ma non è chiuso, a quest'ora?
‒E questo basta a fermarci, Paura?
‒Temo di no.
Il ragazzo tornò a darle le spalle e riprese a camminare. Rallentò solo quando si trovarono sotto al Colosseo. Sollevò la testa per ammirare l'antico monumento, poi andò ad appollaiarsi sul muretto senza dirle una parola.
Malva lo seguì. ‒Ci fermiamo?
Lui non rispose. ‒Conosci la storia del Colosseo?‒ disse invece.
Ravenna scosse la testa, immaginando l'espressione di puro disgusto che le avrebbe rivolto la De Santis, la sua insegnate di storia, se solo avesse potuto vederla.
‒E' stato eretto per riparare alla politica di Nerone. Perché lui era così egoista che avrebbe voluto tenersi tutta questa zona per sé‒ le spiegò Paura, senza riuscire a nascondere una punta di saccenza.
Malva si domandò se fosse appassionato di storia, ma non glielo chiese. Invece, si ritrovò a scrutare l'imponente monumento da capo a piedi con grande interesse, come se non lo avesse mai visto prima. ‒Pensare a certe cose mi fa sentire così piccola... Come se niente di quello che mi capita fosse importante. Come se nessuno si ricordasse della mia esistenza.
‒E questo è un bene o un male?
‒Non lo so. Tu che dici?
Paura fece spallucce. ‒Non è che Nerone fosse molto diverso da noi. Ha solo scelto di far diventare i suoi problemi più grandi di quelli degli altri.
Malva fece una smorfia. ‒Di Nerone ricordo con una certa chiarezza che ha scelto di essere un crudele e subdolo megalomane.
‒Però è passato alla storia.
‒Se devo passare alla storia per aver fatto qualcosa di terribile, preferisco cadere nell'oblio.
Paura esitò solo un istante, prima di ribattere. ‒Non puoi sapere quale fosse la contropartita.
Malva lo sbirciò con la coda dell'occhio. ‒Che intendi?
‒Magari il prezzo da pagare per non essere crudele era immenso. Magari, al momento di scegliere, ha scelto ciò che lo avrebbe reso libero. E forse non è la scelta più lodevole, ma credo che sia quella più comprensibile.
Malva non riusciva a credere alle proprie orecchie. ‒Stai davvero facendo un'apologia di Nerone?
Paura si girò a guardarla. ‒Sto semplicemente dicendo...‒ prese un respiro, ‒che non penso che Nerone sia nato crudele, subdolo e megalomane. Può darsi che gli eventi della sua vita lo abbiano reso tale.
Paura aveva il viso contratto, gli occhi velati da qualcosa che Malva non avrebbe saputo definire con esattezza, ma che la mise a disagio. ‒Messa così, sembra quasi una vittima‒ disse.
Paura fece spallucce. ‒Ciascuno di noi è una vittima‒ disse, rassegnato. ‒E ciascuno di noi è un carnefice. Anche se quasi mai nessuno se ne rende conto.
Cadde il silenzio. Dopo qualche istante di contemplazione, i due ragazzi si alzarono e ripresero a camminare.
Ma Malva continuava a rimuginare. La riflessione di Paura le stava stretta. Era davvero così? Ciascuno era un po' vittima e un po' carnefice? E se uno era carnefice, la vittima doveva soltanto accettarlo, senza reagire? Dopotutto, secondo quel ragionamento, anche il carnefice era stato vittima, no?
No, risuonò nella testa di Malva. E' ingiusto.
‒E' vero.
Paura parve confuso. ‒Che?
‒E' vero, lui ha dovuto scegliere, e magari ha scelto di essere il carnefice perché era la scelta più comprensibile.‒ Malva deglutì acido. ‒Ma le vittime di Nerone, quelle che sono morte per via della povertà, o degli omicidi, o dell'incendio...‒ disse. ‒Loro che scelta hanno avuto?
Non ce l'aveva fatta, non c'era riuscito.
Se ne stava lì, in piedi, le braccia abbandonate lungo il busto, le guance rigate di lacrime, la gola che bruciava a ogni respiro.
Nella stanza, il freddo e il buio la facevano da padrone.
Casa loro era sempre in disordine, da quando sua madre se n'era andata: i mobili erano coperti di polvere, cianfrusaglie buttate alla rinfusa, bollette non pagate, posta che nessuno si era preso la briga di leggere. I piatti sporchi si accumulavano da giorni nel lavello della cucina, troppo grande per mangiarci solo in tre. Doveva esserci qualche infiltrazione, perché il soffitto cominciava a macchiarsi in più punti.
Alle sue spalle, la televisione era accesa come al solito. Non taceva mai, era il sottofondo costante delle loro giornate, una litania incessante che Alessio aveva imparato a detestare.
Sul pavimento giacevano un plaid, il telecomando e numerose bottiglie di birra, vuote e rovesciate.
Poi, disteso sul divano di fronte a lui, molle, quasi contorto, con la barba incolta e le orbite iniettate di sangue, Umberto Carracci. Era stato un uomo bello, un tempo: prestante, con capelli e occhi castano chiaro, pelle olivastra e un sorriso luminoso e rassicurante. Era stato anche un buon padre.
Ora di quel padre, di quell'uomo, non restava altro che un guscio vuoto.
E quel guscio sarebbe dovuto sparire.
Diego, che aveva assistito a tutta la scena ed era intervenuto appena in tempo per fermarli, ora ansimava forte, come se l'aria si rifiutasse di entrargli nei polmoni. -Ti ha dato di volta il cervello?
Alessio era pietrificato dallo stupore.
Nell'oscurità gli occhi di suo padre erano due buchi neri che lo stavano ingoiando. Umberto li spostava; osservava ora le sue mani tremanti, ora la lama brillante del pugnale sul pavimento, ora l'elsa di ossidiana intarsiata, infine il suo viso.
Analizzava ogni dettaglio della scena con un misto di apatia e interesse clinico, quasi si trattasse dei sintomi di un morbo terminale per cui stava cercando una cura.
Di colpo, lo sguardo di suo padre si accese.
Alessio avvertì un brivido risalirgli su per la spina dorsale, viscido, insolente: Umberto Caracci stava sorridendo. Non uno dei suoi sorrisi antichi pieni di serenità, bensì uno di sfida, di scherno.
‒Fallo‒ gli disse.
Alessio sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene.
Diego, al suo fianco, fece un passo in avanti. ‒Papà, smettila.‒ Non era altro che uno smilzo quattordicenne dalla faccia butterata, però la sua voce suonò adulta, imperativa.
Umberto lo ignorò. ‒Coraggio‒ incalzò. ‒Dopotutto, me lo merito. Non sono un buon padre. Che aspetti?
Una pausa. Alla TV c'era la pubblicità di un nuovo medicinale per l'insonnia.
Alessio non sapeva che dire. No, proprio non lo sapeva, perché una parte di lui pensava che avesse ragione.
Era la verità: Umberto Carracci li aveva abbandonati. Aveva preferito crogiolarsi nel suo egoistico dolore, piuttosto che raccogliere i cocci e aiutarli a ricominciare da capo.
Forse, se si fossero sostenuti a vicenda, avrebbero potuto farcela. Forse, se solo quella caricatura di uomo avesse alzato gli occhi, avrebbe visto che c'era ancora qualcosa per cui valeva la pena lottare.
Perché i suoi figli erano proprio lì, di fronte a lui, e avevano bisogno di qualcuno che si prendesse cura di loro. Di un adulto responsabile, che andasse a lavoro, facesse la spesa e tenesse la casa in ordine. Di qualcuno che li accompagnasse a scuola la mattina e li andasse a riprendere all'uscita, che li obbligasse a studiare anche quando non ne avevano voglia e che gli vietasse di rimpinzarsi di schifezze. Di qualcuno che li consigliasse nei momenti di dubbio e, perché no, li rimproverasse in quelli in cui sbagliavano. Di qualcuno che li facesse sentire amati e al sicuro. Di un papà, un papà vero.
Ma da quando sua madre se n'era andata, Umberto Carracci aveva deciso di lasciar perdere. Tutto quello di cui Alessio e Diego avrebbero avuto bisogno, lui non l'aveva mai fatto, non ci aveva mai nemmeno provato.
E Alessio non poteva perdonarlo per questo.
Giada gli aveva chiesto di essere forte, ma lui non era forte, era solo un ragazzino di sedici anni che voleva una vita normale, una come quella di tutti gli altri. E rivoleva indietro la sua mamma. A qualunque costo.
Eppure.
Eppure non ce l'aveva fatta.
Eppure non c'era riuscito.
Alla fine la sua scelta era stata un'altra. E adesso gli occhi di suo padre lo stavano dilaniando.
Con un movimento secco e senza dire una parola, Alessio raccolse il pugnale dal pavimento, poi si voltò e si gettò verso la porta di casa alla velocità della luce.
‒Alessio!‒ urlò Diego.
Ma prima che suo fratello potesse anche solo tentare di fermarlo, Alessio era già scappato via.
Mancava un quarto d'ora alle quattro.
L'entrata del Giardino degli Aranci era un cancello racchiuso in un arco di pietra, a partire dal quale si stendeva un alto muro di cinta. Due lunghi alberi ricurvi facevano da guardia ai due stipiti.
Malva vi si fermò di fronte. -Non sarà facile entrare- constatò. La luce era poca, fioca, e proveniva per lo più dall'interno delle mura. Malva la guardava e il chiarore riverberava sul suo profilo greco, sulle labbra sottili ormai prive di rossetto, sui capelli rosa intenso e nei grandi occhi scuri e arguti.
Ravenna Vizi, pensò Alessio, era arrivata al capolinea. Sarebbe entrata, ma non sarebbe mai più uscita da quel giardino. Sarebbe morta lì.
Malva sarebbe morta lì.
Una voragine gli si aprì nel petto. La punta del pugnale gli pungeva la pelle del fianco, sotto ai jeans.
‒Paura‒ lo chiamò lei.
Alessio si riscosse e sentì che le mani iniziavano a tremargli. Le affondò nelle tasche della felpa. ‒Io sono pronto‒ mentì.
Malva lo fissò come se potesse leggergli nel pensiero, e Alessio si sentì affogare.
‒Che c'è?‒ le chiese.
‒Non è che hai paura di entrare?
Alessio sbuffò. ‒Ti piace proprio questa battuta, eh?
‒In realtà no‒ rispose lei. ‒Ho già abbastanza paura io per tutti e due. Se ci beccano là dentro siamo fregati.
Il tremore alle mani di Alessio si era fatto incontrollabile, e aveva contagiato anche le ginocchia, ma il ragazzo pregò che Malva non se ne accorgesse. ‒Perché vuoi entrare, se hai paura di farlo?
‒Me lo chiedo anche io. Forse ho più paura di restare che di scappare via.
Alessio trasalì.
Fu impercettibile, come un battito d'ali o di ciglia. Però lui lo seppe, proprio in quell'istante, davanti a quel cancello, che una volta attraversato non si tornava più indietro. E lo sapeva anche lei. Ma voleva andare lo stesso.
Ormai era deciso.
C'era una grossa fontana inserita nella cinta di mura, proprio al lato dell'entrata: una vasca di granito sormontata da un mascherone con la bocca aperta e l'espressione accigliata.
Alessio si avvicinò e mise una scarpa sul bordo. Era ricoperto di muschio, e l'umidità penetrava nelle ossa.
‒Che fai?‒ gli chiese Malva, accostandosi a sua volta.
‒Dobbiamo scavalcare‒ le rispose lui con un cenno del mento. ‒Da qui possiamo riuscirci.
‒Ma se scivoliamo...
‒Facciamo un tuffo, o peggio, ci spacchiamo la testa‒ concluse Paura, sorprendendosi della sua stessa nonchalance. ‒Proprio così. Ma se siamo arrivati fin qui, bisognerà pur correre qualche rischio.
Malva si specchiò nell'acqua salmastra della fontana, ma non replicò.
Paura si aggrappò agli occhi del mascherone. Era scivoloso, gelido e bagnato al tatto. Si diede una spinta: un piede in una scanalatura, l'altro in un'altra e, in men che non si dica, era arrivato sulle mura. Si guardò indietro. Malva era sotto, pallida come un lenzuolo.
‒Non è difficile‒ disse Paura. ‒Prova.
Poi le tese una mano.
Malva annuì e fulminò il mascherone come fosse stato il suo nemico mortale. Paura rise.
Malva iniziò ad arrampicarsi. Perse l'equilibrio un paio di volte, lanciò qualche urletto terrorizzato e alla fine afferrò la mano di Paura. Lui la tirò a sé e, con un ultimo sforzo, la ragazza finì a cavalcioni sul muro.
Erano vicini, spalle contro spalle, fronte contro fronte.
Malva aveva il fiatone e l'espressione sbalordita, come se non riuscisse a credere di essere arrivata davvero fin lassù. Guardò Paura, gli sorrise e le loro dita si separarono.
Paura aveva l'elettricità sotto alla pelle. Si sbrigò a guardare giù.
La distanza dal suolo era poco più di due metri.
‒È un bel salto‒ affermò Malva con un fil di voce.
‒Possiamo farcela‒ le disse lui. ‒Io vado.
Saltò. Un attimo dopo era atterrato senza farsi neppure un graffio.
Si voltò. Malva era ancora in cima, le gambe penzoloni e le labbra tirate dalla preoccupazione.
‒Buttati!‒ disse Paura. ‒Ti prendo io!
‒Sei sicuro?‒ chiese di rimando lei.
E Alessio lo vide. Che quella ragazza si fidava di lui. Che l'avrebbe fatto, se le avesse risposto di sì.
Che Ravenna Vizi si sarebbe buttata.
Che Malva avrebbe firmato la sua condanna a morte.
La sua visione, i capelli rosa intenso, i grandi occhi sgranati e pieni di attesa, gli diedero le vertigini.
‒Aspetta‒ esclamò. "Che stai facendo?" si chiese.
‒Che c'è?
Alessio deglutì. Ci fu una lunga pausa.
‒Perché ti sei fidata di me?‒ sibilò infine. ‒Non hai paura di quello che potrebbe succedere?
Malva lo scrutò per istanti interminabili, e lo terrorizzò, come un giudizio divino. Eppure la sua risposta non fu severa, bensì rassegnata e un po' triste. ‒Io non ho niente da perdere.
‒Tu hai una vita‒ le fece notare Paura.
‒No, io sopravvivo.
E forse lei non voleva essere Ravenna Vizi. Forse quella era la sua scelta, per quella notte.
Alessio socchiuse le palpebre. Il magone gli premeva la gola e i brividi lo scuotevano da capo a piedi. Ma non poteva più rimandare.
Aprì le braccia e le allungò verso di lei. ‒Ti prendo io‒ ripeté.
Malva esalò un lunghissimo sospiro.
‒Va bene‒ disse.
Poi cadde. E lui la prese.
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