VI. Là Dove stai Andando


Ormai avevano abbandonato le sponde del fiume e si erano infiltrati nei vicoli romani.

Malva sbirciò il cielo notturno: grosse nuvole scure si addensavano nell'etere. ‒Dobbiamo sbrigarci‒ disse. Poi allungò il passo. Paura rimase indietro. Malva svoltò l'angolo senza aspettarlo.

‒Dove stai andando?‒ chiese lui, alzando la voce.

Per qualche motivo, Malva si sentì come se lo avesse abbandonato. ‒Sono qui‒ rispose senza fermarsi.

Paura sbucò dietro di lei. ‒No‒ disse. ‒Dove stai andando?

‒Ah, ci ho pensato! Potremmo andare al Giardino degli Aranci, se ti va.‒ Malva imboccò l'ultima traversa prima di Piazza della Rotonda. ‒Non è molto distante, dobbiamo solo...

‒Non è quello che intendevo.

Una folata di vento li accolse nella piazza. Malva rabbrividì e si fermò. L'attimo dopo, Paura era al suo fianco. Aveva un'espressione inquieta. I capelli erano un'aureola dorata intorno alla sua testa, i suoi occhi mare in tempesta alla luce fumosa dei lampioni. Malva ne fu attratta e intimorita al contempo.

Il suo cuore mancò un battito. Ci fu una pausa. "Come siamo travagliate, piccola Malva!"

Una pioggia sottile e leggera iniziava a scendere su di loro.

‒Dove stai andando?


Il ticchettio dei tacchi di sua madre la faceva uscire di testa.

Un'altra insufficienza, Ravenna abbaiò Luisa Boneio. La terza in due settimane. I professori ci hanno convocato a ricevimento. La donna si piantò di fronte a lei, dita smaltate premute sul tavolo in vetro, un corpo slanciato impacchettato in un bel tailleur femme di raso verde. Che cosa dobbiamo fare con te?

Ravenna ringraziò il cielo che si fosse fermata. Il punto non è mai quello che dovete fare voi, ma quello che devo fare io bofonchiò.

Cosa?

Lasciate perdere.

La ragazza si alzò, trascinando la sedia sul parquet lucido di cera e provocando uno stridio acuto, lugubre, molto simile a quello che sentiva dentro.

Dove credi di andare? rimbrottò la donna.

Ravenna le rivolse un sorrisino beffardo. A studiare. Non è quello, il problema?

Luisa pareva sul punto di esplodere. Il problema è che...

"Continui a esserci d'intralcio."

Ecco.

Questo era il problema.

Questo riecheggiava tra le pareti di quella casa tanto grande quanto vuota.

Sua madre si era fermata giusto un secondo prima di ammetterlo, ma lo sapevano tutti, là dentro.

Peccato, pensò Ravenna. Almeno avrebbe potuto sfogarsi un po'.

Io non farei così schifo se solo studiassi qualcosa che mi piace, e non queste stupide... lingue morte.

I coniugi Vizi la fissarono come se avesse appena confessato di essere un alieno.

Be', sentiamo. Che cosa ti piacerebbe studiare, invece? chiese Alberto Vizi col solito tono misurato.

Poi la guardò. Si mise composto sul divano di pelle borgogna, un braccio rilassato lungo lo schienale, le lunghe gambe incrociate. Aggiustò gli occhiali sul ponte del naso e concentrò la sua attenzione su di lei, per la prima volta da quando era cominciata quella conversazione.

E Ravenna lo odiò. Perché il suo non era lo sguardo interessato di un padre, ma quello supponente di uno che sa di star perdendo tempo.

E perché... lei non aveva una risposta a quella domanda. Ma, senza una risposta, la questione era chiusa. Non aveva potere, né via di fuga. Non aveva niente.

Io... ciancicò, la voce poco più che un sussurro. Io non lo so.

Alberto distolse lo sguardo. Si alzò dal divano con un sospirò di desolazione, prima di toglierle ogni diritto di replica. In tal caso, ti consiglio di rifletterci più attentamente. Nel frattempo sei pregata di affrontare i tuoi studi con il giusto grado di serietà, che questi ti piacciano o meno. Intesi?

"Smettila di piantare grane".

Ci siamo capiti, Ravenna?

La ragazza annuì.

Io e tua madre torniamo a lavorare. Faremo tardi stasera, per cui non aspettarci per cena. In men che non si dica, i due furono fuori dall'appartamento. A domani dissero, chiudendosi la porta alle spalle.

Ma Ravenna non rispose al loro saluto.


"Dove stai andando?"

‒Non lo so‒ ammise Malva. ‒Vorrei saperlo, ma non lo so.

Ancora silenzio. La piazza era deserta. Sembrava di essere in un film: edifici ammantati d'oscurità, una fontana rinascimentale che zampillava acqua lucente, san pietrini umidi di pioggia e poi il colonnato del Pantheon, spettatore immobile ed eterno.

Le tremavano le gambe. Malva era libera. Lo era veramente. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, perfino cambiare vita. Perfino sparire. Era bellissimo e spaventoso insieme, come volare a metri e metri d'altezza, col terrore di cadere. Tutta quella libertà ti toglieva il respiro.

‒È solo che...‒ disse, avvertendo la trepidazione nella sua stessa voce. ‒Stanotte potrei andare ovunque. Non sono sicura di voler andare in un posto solo. Forse voglio andare in tanti posti.

Paura le mostrò una smorfia turbata, subito seguita da una divertita. ‒È una prospettiva interessante‒ disse.

‒Tu trovi?

Di colpo, un pensiero le balenò nella mente. Malva era travagliata. Era piccola, vulnerabile, disorientata, e si sentiva spesso sola. Ma era diventata bravissima a fingere che non le importasse... quindi perché lui l'aveva visto? Come ci era riuscito?

‒E tu?‒ contrattaccò. ‒Dov'è che stai andando?

Malva lo vide. Fu come fare strike con una pallina da ping-pong, come prendere la mira a occhi chiusi e fare centro.

Paura aprì la bocca per rispondere, ma un gocciolone gli cadde sulla punta del naso, facendolo sussultare. ‒Piove‒ constatò.

Malva annuì. Un vago senso di insoddisfazione si agitava in fondo alla sua pancia. Indicò il colonnato del Pantheon, poco distante. ‒Andiamo lì‒ disse.

Paura la osservò. ‒Nel buio?

‒Nel buio.

Il temporale si fece scrosciante.

E i due ragazzi si misero a correre.


Devi promettermi... che sarai forte.

Bip Bip Bip

Giada Ragusa gli stringeva la mano, mentre parlava. Aveva un volto cereo, labbra pallide e screpolate, e doveva fare lunghe pause tra una frase e l'altra, perché faceva fatica a respirare.

Il sentore di disinfettante pervadeva le ossa.

Per tuo padre... e per tuo fratello.

Bip Bip Bip

Il monitoraggio cardiaco accompagnava la conversazione.

Dalla finestra entravano fasci di una soffusa luce aranciata, e il pulviscolo vi danzava attraverso con leggerezza disarmante, prima di cadere. Come se la vita non fosse stata altro che quello: danzare e poi cadere. Alcuni granelli di polvere si rialzavano, altri non si rialzavano più.

Sua madre era un granello che non si sarebbe rialzato. Alessio lo capiva, lo sapeva, eppure faticava ad accettarlo. La vedeva, candida in quel letto d'ospedale, debole e quasi immobile, proprio lei che era sempre stata un'esplosione di energia. Si sentiva sopraffatto da una stanchezza che era più grande di lui, e di loro, e a cui avrebbe solo voluto soccombere.

Ma Giada Ragusa gli stringeva la mano, mentre gli chiedeva di essere forte. Quindi Alessio non poteva arrendersi. Non ancora.

Annuì, ricacciando indietro il magone. Te lo prometto disse.

Sua madre gli sorrise. Un sorriso triste.

Grazie.

Bip Bip Bip

Le lacrime gli pizzicavano i bordi degli occhi.

Hai paura, mamma?

La donna parve pensarci un po' su. Una ciocca di capelli biondi le ricadde davanti al viso e Alessio la scansò con premurosa attenzione.

No rispose alla fine Giada. Non penso che... sia spaventoso... là dove sto andando.

Bip Bip Bip

Le dita di sua madre erano gelide, i suoi respiri sempre più rochi, la sua espressione sempre più sofferente.

Non avevano molto tempo, ma Alessio attese ugualmente. Attese e basta.

Dov'è che stai andando, mamma?

La donna sospinse lo sguardo fino alla finestra, al fascio di luce aranciata e alla polvere che volteggiava nell'aria. Inspirò. Espirò.

Credo... in un posto migliore.

Bip Bip Bip

Trascorsero lunghi istanti di silenzio, intervallati solo dalle frequenze dei macchinari.

Poi sua madre si voltò verso di lui. Non disse una parola. Solo si allungò per accarezzargli lo zigomo, e quel singolo gesto parve costarle uno sforzo disumano. Il braccio le ricadde in grembo.

E tu? esalò.

Bip Bip Bip

Tu hai paura... amore mio?

Alessio la guardò. E seppe. Seppe che sua madre lo amava. E che lui amava lei. E che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe vista.

Il cuore gli si spaccò nel petto.

Alessio si accasciò e pianse. Pianse tutte le lacrime del mondo. Pianse fino a quando non persero di significato. Pianse, e gridò, e si annientò nel suo stesso dolore.

E Giada Ragusa rimase lì, accanto a lui.

Rimase per tutto il tempo.

Rimase fino a quando Alessio non smise di piangere.

Rimase fino a quando anche il fascio di luce aranciata che filtrava dalla finestra non si consumò e si spense. 


Erano passate le tre di notte e Ravenna Vizi era ancora viva, il suo cadavere non galleggiava nell'acqua torbida, il suo cuore batteva ancora nel petto.

Finirono contro il muro, e Paura fu a un soffio da lei. C'erano i tuoni, la pioggia scrosciante, i loro respiri e Malva, vicinissima a lui. Era l'occasione perfetta, la terza.

"Estrai il coltello."

"Scatta."

"Affonda."

Nella sua testa era tutto fin troppo vivido. Il corpo scheletrico di Ravenna che si afflosciava contro il suo. Flebili preghiere che esalavano dalla sua gola e impronte di mani vermiglie sul Pantheon. La pioggia che lavava via il sangue e le lacrime.

Sarebbe bastato così poco...

Erano entrambi zuppi di pioggia. Malva aveva il fiato corto. Il petto le si alzava e abbassava ritmicamente, stretto nel misero vestitino di strass. I capelli umidi le artigliavano le guance scavate, il viso irregolare, il naso aquilino... eppure c'era qualcosa di magnetico, nel suo sguardo. Qualcosa a cui era impossibile sottrarsi. C'era aspettativa. Ma da Alessio Carracci non ci si poteva aspettare niente di buono, e Malva l'avrebbe scoperto prima dell'alba.

E Paura, invece?

Paura cosa avrebbe scoperto?

"Dov'è che stai andando?" gli aveva chiesto lei.

"Io sono stato maledetto", avrebbe potuto raccontare.

Ma no, non era quello, il punto. Quello era il passato. Il presente invece era lì, in quel momento, tra di loro e sui muri di un ricordo antico.

"Il presente è questa notte. E questa notte io ti priverò del tuo destino e della tua destinazione."

"Non sono sicura di voler andare in un posto solo. Forse voglio andare in tanti posti."

Alessio rabbrividì, ma pensò che non le avrebbe dato una menzogna disadorna. Le avrebbe dato un delicato intrico di bugie, un'incantevole illusione su chi era il suo assassino, e dove stava andando. Malva meritava di saperlo.

‒Suono la chitarra e mi piacerebbe che diventasse il mio lavoro. Amo l'estate, la sensazione del sole sulla pelle. Preferisco il salato al dolce e detesto i film dell'orrore. Tu invece hai l'aria di una che li adora.

‒Ma che stai...

‒Te lo racconto‒ rispose di getto Paura, senza pensare. ‒Ti dico dove sto andando.

Ci fu un rapido scambio di occhiate, poi il ragazzo si scansò da lei con un movimento secco.

‒Scusa, è solo che...

Malva gli sorrise. ‒C'è la musica e il sole, dove stai andando. Sembra un bel posto.

Paura la guardò sorpreso. ‒Grazie.

Un motivetto retrò riecheggiava, da qualche pub del centro. Odore di pioggia e sciabordii nell'aria. Faceva freddo.

Malva si strinse nelle spalle e Paura si chiese se non stesse gelando.

In uno slancio di cavalleria, così insolito per uno come lui, si tolse la giacca e gliela offrì. ‒Ecco‒ disse. ‒Altrimenti ti ammalerai.

‒Grazie‒ gli rispose lei, tirando su col naso. Si gettò il chiodo di pelle sulle spalle e sul suo volto si dipinse puro sollievo.

Per un attimo, Paura si sentì importante. In un modo stupido, e insensato, ma che lo fece sentire normale. Perfettamente normale.

La voce gli tremò, quando parlò: ‒Tu credi che ci arriverò, un giorno?

Malva si abbandonò contro il muro, mentre con una mano si ravviava i bei capelli colorati. ‒Io credo di sì‒ disse. ‒Ma devi essere ostinato e caparbio. E soprattutto non devi esitare. Nemmeno per sbaglio, neppure per un secondo.‒ Fece una pausa. ‒Se sai dove stai andando, non devi esitare mai.

Con un ultimo, frusciante sgrullone, la pioggia si assottigliò.

‒Finirà presto‒ disse Malva.

Alessio annuì. ‒Già‒ soffiò. ‒Dobbiamo solo aspettare.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top