IX. Malva e Paura

‒Non posso farlo‒ dichiarò Alessio, raccogliendo a sé le ultime briciole di coraggio che gli erano rimaste. ‒Non posso uccidere mio padre.

Attese per un tempo che gli parve infinito, ma dall'altro capo del negozio non giunse neppure una parola.

Era notte ormai e, come sempre, l'antro era oscuro. Questo rendeva impossibile ad Alessio distinguere i contorni degli oggetti, o anche solo i movimenti, eppure ciò che sin dal loro primo incontro gli era sempre stato manifesto era il bagliore sinistro delle pupille di Porzia.

Anche attraverso il buio, lui vedeva il suo sguardo, lo sentiva addosso, e soffocava.

Era come affogare.

Tornare al paese, entrare nell'Emporio, interrogare occhi cattivi e beffardi senza ottenere alcuna risposta: tutte queste cose erano acqua nera che lo trascinava verso il basso, erano onde anomale che lo inghiottivano, riempiendogli i polmoni d'acqua salmastra.

‒Non dici niente?

Una bracciata, il disperato tentativo di tenersi a galla.

Ma Porzia rise.

Alessio era solo, in mare aperto, in mezzo alla tempesta. Non aveva scampo.

Udì un rumore di passi e le brillanti pupille d'ossidiana si avvicinarono a lui. ‒Lo sapevo già.

Una pausa. Alessio sentiva un fischio acuto.

‒Lo... sapevi?

‒Sapevo che saresti tornato da me.

Ma come?

Porzia rise ancora, una risata dolce, quasi compassionevole, e per questo ancora più tremenda.

‒Sei troppo impulsivo, Alessio Carracci. Sei buono, hai il cuore tenero, e soprattutto...

Alessio la sentì scivolare nell'ombra finché non gli fu accanto. Porzia gli artigliò una spalla e si chinò a sfiorargli l'orecchio con le labbra.

Terrore e incenso.

‒Tu hai paura.

La reazione di Alessio fu istantanea, istintiva. Spinse via la donna, arretrando a sua volta nel bazar. ‒No!‒ gridò. Aveva il fiato corto, e stava tremando.

‒No?‒ gli fece eco Porzia. ‒Vorresti farmi credere che tu non sei questo, piccolo codardo? Mentire agli altri è da sciocchi, ma mentire a sé stessi è da folli.

Avanzò verso di lui, ma Alessio non poteva quasi vederla. Di riflesso, il ragazzo estrasse il pugnale nero dalla tasca della giacca in cui lo custodiva, brandendolo contro di lei.

‒Non avvicinarti!‒ minacciò.

Ma Porzia gli piombò addosso. Gli prese il mento in una mano, costringendolo a guardarla in faccia e conficcandogli le unghie nella carne delle guance.

Alessio urlò, ma non riuscì a muovere neppure un muscolo. Il pugnale sfuggì alla sua presa e cadde a terra. Porzia lo calciò dall'altra parte della stanza.

‒Tu pensi‒ iniziò la strega, incombendo su di lui, ‒di essere rimasto solo al mondo, e per questo credi di non avere più niente da perdere. Ma tutti abbiamo qualcosa da perdere, Alessio Carracci. Tutti. E il motivo per cui ti trovi qui è che, nella tua idiozia, eri convinto di poter affrontare qualcosa di molto più grande di te. E ora che lo vedi, torni con la presunzione che otterrai da me un aiuto!

Porzia lo lasciò andare in malo modo.

‒Io non ti aiuterò‒ tuonò. ‒E ora vattene.

A quelle parole, Alessio perse il controllo. Sapeva che Porzia aveva ragione, che lui ne aveva paura, una paura viscerale, cieca, paralizzante. La temeva con la stessa apprensione con cui i bambini temono i mostri annidati sotto al proprio letto, ne temeva l'aspetto, la voce, le intenzioni.

Ma ora capiva con orrore che ancor più spaventosa era la prospettiva che si rifiutasse di aiutarlo.

‒Ma tu devi aiutarmi!- esclamò, prima ancora di poterselo impedire. ‒Oppure non rivedrò mai più mia madre!

‒Io non ti devo niente‒ concluse algida la strega, e attraverso la semi-oscurità Alessio intuì che fosse intenzionata a tornarsene nel retrobottega.

Non poteva permetterlo.

Alessio si gettò verso di lei e cadde ai suoi piedi, afferrando i lembi del lungo vestito che indossava, per trattenerla ancora lì. ‒Ti scongiuro, ti scongiuro! Farò qualunque cosa vorrai, ma tu aiutami. Sono disperato. Ho paura. Ho paura...

Nonostante le suppliche accorate, per un pezzo Porzia rimase a scrutarlo dall'alto.

Infine, parlò. ‒Ora ti svelerò un segreto.

Scansò da sé il ragazzo (Alessio gemé, rimanendo a terra) e con poche, ampie falcate coprì la distanza che la separava dal punto in cui aveva scagliato il pugnale, sotto a uno dei polverosi scaffali laterali.

Lo raccolse e tornò da lui; poi, con una calma raggelante, che ad Alessio parve inappropriata in quella situazione, Porzia si inginocchiò al suo fianco, guardandolo negli occhi con mortale serietà.

‒Io ho maledetto quest'arma, perché tu potessi riavere indietro tua madre‒ disse. ‒Se avessi ucciso la persona che più l'ha amata al mondo, lei sarebbe tornata da te, ma tu non l'hai fatto. Tuttavia...‒ Porzia si interruppe e trasse un lungo respiro, ‒se tu non gli offrirai la vita che gli è stata promessa, il pugnale si prenderà la tua.

Cadde il silenzio. Il cuore di Alessio batteva all'impazzata, i suoi pensieri viaggiavano alla velocità della luce.

Per un attimo, non le credette. Pensò che fosse tutto un grande imbroglio, e che, dal momento che era già stata pagata, Porzia stesse cercando di spaventarlo per levarselo dai piedi. Non c'era modo di riportare in vita un morto, né tantomeno di maledire qualcuno.

Si diede dello sciocco e del credulone per essersi fatto abbindolare da una fattucchiera da quattro soldi.

Poi una vocetta maligna gli strisciò alla base del cranio, annidandoglisi dietro all'orecchio.

"Ma tu l'hai sentito, quando hai stretto il pugnale, non è vero?" bisbigliò. "Non è vero? Non è vero? Non è vero? Non è vero?"

‒Non è vero‒ gli sfuggì, ma ancora una volta stava mentendo.

Guardò Porzia e lo seppe: forze oscure esigevano un pagamento, forze a cui non avrebbe potuto sottrarsi.

Alessio sentì venire meno ogni energia.

Quando parlò, dalle sue labbra non fluì che un flebile soffio: ‒Questo significa... che morirò?

‒No‒ rispose Porzia. ‒Significa che ti trasformerai.

‒In che cosa?

‒Nella tua vera natura.

‒Ma io non voglio uccidere mio padre!

La testa di Alessio vorticava. Le sue uniche certezze erano la consistenza piana delle assi di legno marcio, sotto di lui, e la presenza fisica di quel demonio di Porzia.

Per un millesimo di secondo, in un modo masochista e perverso, le fu riconoscente. Ringraziò che fosse lì, che non l'avesse abbandonato a sé stesso come tutti gli altri.

Ma la strega gli prese la mano e, esattamente come aveva fatto la prima volta, vi depose l'elsa nera e intarsiata del pugnale, invitandolo a prenderlo.

‒C'è solo un'altra strada che puoi percorrere- disse. ‒Quella di uccidere me.

Alessio non era del tutto cosciente, gli pareva di sognare. Afferrò il pugnale, studiando la seduzione della lama che riluceva nel buio.

‒Come hai detto?

‒Se vuoi spezzare la maledizione, dovrai uccidermi e mangiare il mio cuore.

Uccidere... te?

Porzia annuì.

Alessio trasalì e tentò di alzarsi in piedi, ma le vertigini glielo impedirono.

Il volto della donna era pallido e privo di espressione. ‒Io non opporrò alcuna resistenza. Se vorrai, te lo lascerò fare.

Alessio boccheggiò. ‒Io... Io non...

‒Ti ho già detto chi sei, Alessio Carracci, e tu mi hai risposto di no. Dimostrami che mi sbaglio.

‒Io non sono un assassino!

‒Per raggiungere il nostro scopo, dobbiamo sacrificare sempre qualcosa‒ gli rispose la strega in tono solenne. ‒Questa sarà la tua ultima possibilità di salvarti, piccolo codardo. Uccidimi, oppure vattene.

Detto ciò, Porzia chiuse gli occhi, rivoltò il capo all'indietro e gli offrì il collo.

Ad Alessio parve di impazzire.

Seguendo la linea esangue della gola di Porzia, come la curva delle spire di un serpente, di colpo... ne fu ipnotizzato.

Porzia si sbagliava. Alessio non era affatto buono. Alessio era cattivo, di una cattiveria infida e rancorosa. Sapeva di non meritare nulla di ciò che gli era capitato, e covava risentimento per questo.

Avrebbe desiderato soltanto una famiglia e una vita normali, come quelle di tutti gli altri; invece eccolo lì, carponi sul pavimento sudicio di quella dannata topaia, accanto alla donna crudele che lo aveva intrappolato in un incubo.

Ma ora lui era armato.

E lei non avrebbe opposto resistenza.

Poteva vendicarsi di tutto, vendicarsi davvero.

Alessio riusciva a distinguere il punto esatto, sotto all'epidermide bianca, dove la carotide pulsava.

Sarebbe bastata una stoccata decisa.

Un guizzo.

Un solo istante e sarebbe tutto finito.

Lo volle. Volle uccidere.

Tirando su col naso, Alessio avvicinò la lama al collo della donna.

Anche se il metallo era gelido a contatto con la pelle, lei non si mosse, neppure fiatò. Sembrava fatta di cera.

Il ragazzo cadde in una specie di trance, una delirante esaltazione. Iniziò a sghignazzare.

Si disse che avrebbe contato fino a dieci e poi l'avrebbe fatto. L'avrebbe uccisa.

Cominciò.

Uno, due, tre...

Gli vennero in mente i suoi compagni di classe, la pena sui loro volti.

Quattro, cinque, sei...

Suo fratello e suo padre, al funerale, che deponevano fiori sulla tomba. Il dolore nei loro movimenti.

Sette, otto, nove...

Il corpo di sua madre all'obitorio. Aveva un'aria serena che detestava. Come poteva essere così in pace al pensiero di lasciarli? Non era giusto. Che cosa avrebbe detto, vedendolo adesso? Si sarebbe pentita di essersene andata?

Che cosa avrebbe pensato?

Dieci.

"E tu? Tu hai paura, amore mio?"

Alessio scattò in piedi, il pugnale ancora stretto in mano.

Scosse la testa, piangendo.

Porzia lo spiava dal basso, immobile. ‒Dunque?

‒Non posso‒ disse Alessio. ‒Non ce la faccio.

Poi si voltò è uscì dall'emporio senza guardarsi indietro.


Ravenna aveva di nuovo sette anni, a Villa Borghese.

Solo che Villa Borghese ora si era tramutata in una foresta cupa, fitta di pini altissimi e spogli, di cui a stento si riusciva a vedere la cima.

La sé-bambina era vestita pesante, faceva freddo.

Stava correndo. Zigzagava tra i tronchi, calpestando fango e foglie secche con le inarrestabili calosce fucsia.

Stava raggiungendo una destinazione... no, stava scappando da qualcosa.

‒Ravenna, aspetta! Ravenna!

Dolores. Era lei che la stava inseguendo?

Ravenna non ne aveva idea, ma percepiva chiara la sensazione di pericolo. Così corse più forte.

‒Ravenna!

Il bosco si apriva in un sentiero.

Senza pensarci due volte, Ravenna lo imboccò, proseguendo più veloce che poteva.

La strada non sembrava avere fine e lei si domandò se sarebbe mai uscita di lì.

Ma forse non c'era un'uscita. Forse la foresta di Villa Borghese si era estesa al mondo intero e aveva ingoiato ogni cosa senza che lei se ne rendesse conto.

Quella prospettiva la terrorizzò.

A un tratto, il passaggio le fu sbarrato da un coniglio. Un coniglio piccolo, bianco e soffice come un fiocco di neve, dai penetranti occhi blu.

Stanziava nel centro esatto della carreggiata.

Non appena lo scorse, Ravenna rallentò fino a fermarsi.

Oltre, solo alberi imponenti e uno spicchio di grigio cielo invernale.

Alle sue spalle... la voce di Dolores non c'era più, eppure quel brutto presentimento non accennava a sparire, mordendola come un parassita.

Ravenna decise di avvicinarsi al coniglio.

Quello la studiava con sospetto.

"Ma i conigli non studiano le persone."

La sé-bambina si accucciò davanti alla bestiola e le tese una manina guantata. Lui non si ritrasse.

Le parve di aver già vissuto quei momenti, in un tempo lontano anni-luce dal suo. Era sicura di aver dimenticato qualcosa in quel tempo, qualcosa di importantissimo, di essenziale.

Il coniglio si convinse. Saltellò in avanti, raggiunse la mano di Ravenna e l'annusò.

Poi, producendo un suono raccapricciante, il suo corpo e le sue ossa si spezzarono, contorcendosi e allungandosi fino a trasformarsi in quelle di un enorme lupo grigio.

Ravenna, pietrificata dall'orrore, trattenne il respiro per istanti infiniti, occhi negli occhi della belva che incombeva su di lei. Sentiva il fiato caldo dell'animale sul viso, il ringhio basso che gorgogliava in fondo alla sua gola.

La sé-bambina si domandò fino all'ultimo se l'avrebbe fatto.

Ma, infine, qualcosa scattò: il lupo assalì Ravenna e la divorò.


Malva si svegliò di soprassalto.

Albeggiava.

La notte era finita.

Un autunno come una primavera, aria frizzante e pungente.

Goccioloni di rugiada adornavano il prato, il parapetto e tutto lo spazio intorno, diamanti su un impalpabile strato di tulle. Una calma perfetta, irreale, li circondava. Il silenzio regnava sovrano, sfidato soltanto dal cinguettio impertinente dei merli.

Malva ripescò le informazioni con spaesamento, da un cassetto della memoria ben distinto dagli altri.

La festa, la fuga, la passeggiata per le vie di Roma, l'approdo al Giardino degli Aranci.

Gli occhi di Paura.

Seduta su una delle panchine del belvedere, accoccolata contro la sua spalla, si era addormentata.

Il suo compagno, al suo fianco, scrutava il bordo in fiamme dell'orizzonte, chino in avanti, gambe larghe, gomiti sulle ginocchia, sguardo celeste e assente. I suoi capelli avevano perso l'argento della Luna e ora si preparavano ad accogliere l'oro del Sole.

Malva aveva un nodo alla gola: era giunta l'ora di separarsi.

Lei sarebbe tornata al grigio susseguirsi di giorni tutti uguali, di rimproveri perché non era abbastanza, di sorrisi stucchevoli e falsi come banconote da tre euro.

E sarebbe stata sola. Sempre sola. Tutta sola.

E Paura?

Paura sarebbe tornato alla sua vita? Si sarebbe dimenticato di lei, fingendo che non fosse mai esistita?

C'era una malinconia confortante in quel pensiero, uno struggente sollievo.

Anche Paura avrebbe rivisto ciò che lo faceva soffrire, ciò che lo faceva piangere.

Malva avrebbe voluto prendere un po' della sua tristezza e portarsela via. Un pegno d'addio per lui, un piccolo ricordo spezzato per sé.

Inspirò. ‒Paura, per quanto ho dormito?

Quando il ragazzo parlò, nella sua voce non era rimasto più nulla della timida dolcezza con cui si era rivolto a lei quella notte. ‒Ti sei svegliata‒ disse solo. Non ne sembrava felice.

Malva deglutì, raddrizzandosi sul posto, la bocca impastata. ‒È tardi, dobbiamo andarcene.

Non ricevé alcuna risposta.

Malva percepì un brivido risalirle la schiena. I suoi sensi si acuirono, i muscoli si tesero, il respiro si assottigliò. Aveva un brutto presentimento.

Si guardò intorno, sfregandosi le braccia intorpidite dal freddo. Passò entrambe le mani sulla faccia, come per spazzare via il torpore e l'inquietudine che il sogno le aveva lasciato addosso.

Ma il ragazzo non si muoveva, non parlava, pareva un'estensione della panchina, una statua di granito.

Malva aggrottò la fronte. Non avrebbe saputo spiegare come o perché, ma sentiva che qualcosa non andava, non andava più, che l'atmosfera si era fatta pesante, claustrofobica. ‒Va tutto bene?

Lui esitò. Dopo un po', le chiese di rimando: ‒Per quale motivo ti sei avvicinata a me, alla festa?

‒Come?

‒Potevi lasciarmi lì. Invece mi hai salvato. Perché?

‒Ti dispiace che ti abbia salvato?

‒Ma perché proprio io?

‒Non lo so, Paura, perché eri vicino a me. Che domande sono?

‒Rispondimi e basta.

A Malva non piacque il tono imperativo con cui lo disse, ma decise di soprassedere. ‒Perché stavi piangendo‒ confessò. ‒Sembravi molto triste. Qualunque fosse il motivo, non me la sono sentita di abbandonarti lì tutto solo.

A quelle parole, il giovane si voltò di scatto e sul suo viso balenò un lampo di orrore misto a sconcerto. Poi la sua espressione si indurì, i suoi occhi si incupirono e lui tornò inespressivo a fissare un punto in lontananza, dritto di fronte a sé.

‒Avresti dovuto farlo‒ concluse. ‒Abbandonarmi lì tutto solo.

‒Paura, ma che stai...

‒Posso farti una domanda, Malva? Se fossi Nerone, tu che cosa faresti? Se dovessi scegliere tra la libertà e l'innocenza, che cosa sceglieresti?

‒Be', così su due piedi è difficile...

‒Sì, ma immagina di essere dannata‒ insisté il ragazzo. ‒Di non avere altra scelta per salvarti se non quella di uccidere qualcuno. Come ti comporteresti in una situazione simile?

‒Perché me lo chiedi?‒ esalò Malva.

L'altro scosse il capo, quasi che il copione nella sua mente non rispondesse affatto a quello che si stava svolgendo nella realtà, quasi che stessero sbagliando tutto. ‒Sai, tu devi perdonarmi. Io ho già fatto la mia scelta tanto tempo fa.

Ci fu una pausa. Malva osservava il suo interlocutore ma non riusciva a capire, a decifrare il linguaggio segreto dei suoi pensieri. ‒Devo perdonarti? Ma di che diavolo stai parlando? Mi stai spaventando, Paura.

Il ragazzo le rivolse un'occhiata angosciata. Dentro di lui infuriava una guerra. Emise un grugnito esasperato, poi scattò in piedi e iniziò a misurare il diametro della terrazza panoramica a lunghe falcate. All'improvviso, inchiodò di fronte a lei.

‒Io non sono Paura‒ ammise infine. ‒Mi chiamo Alessio.

Alessio. Echeggiò sulle sue labbra, duro, malevolo, tagliente.

Malva lo vide minuscolo, dietro a quel nome, una cosina triste, rattrappita e spezzettata.

‒Perché me lo stai dicendo?

L'incantesimo si ruppe. Malva comprese ogni cosa. L'istinto le gridò di alzarsi e scappare il più lontano possibile più veloce che poteva, ma il suo corpo non eseguì. Invece, iniziò a piangere.

‒Io non volevo saperlo. Non ce n'era alcun bisogno.

Per qualche istante, la sua coscienza fu spaccata tra il Giardino degli Aranci e la sua percezione dello stesso, tra ciò che le sembrava ci fosse e ciò che c'era veramente. Le parve di impazzire.

Ma poi il giovane iniziò a piangere a sua volta e Ravenna ne ebbe la certezza. ‒Vuoi farmi del male?

Il ragazzo tacque, senza degnarla di uno sguardo. Non osava.

‒Mi ucciderai?

Tacque ancora.

‒Perché?

Nessuna risposta.

Malva si abbandonò a un lungo sospiro nervoso. ‒Tu sai già come mi chiamo, non è vero? Lo sapevi dall'inizio.

Questa volta, lui annuì. ‒Sei Ravenna Vizi‒ disse.

Ravenna. Anche il suo nome echeggiava.

Alessio e Ravenna. Si diffondevano nell'aria come fumo tossico, come polvere sottile.

Malva scosse la testa. ‒No. Io mi chiamo Ravenna, ma sono Malva‒ disse. ‒E tu? Tu vuoi essere Alessio o Paura? Dimmi la verità.

Ma, di nuovo, non ebbe soluzione ai suoi dubbi.

‒Perché mi fai questo?‒ gli chiese allora, tra i singhiozzi.

Lui le lanciò uno sguardo colmo di lacrime e dolore, e Malva vi lesse il rimorso, la disperazione, i demoni che lo tormentavano. Lo avrebbero roso dall'interno, come termiti, mangiandolo fino a ridurlo in trucioli di legno e niente più.

‒Perché sono cattivo‒ disse.

Malva non esitò: ‒Non è vero.

‒Non puoi saperlo.

‒Invece lo so.

Il punto era che Malva non aveva Paura. Malva capiva Paura. Lo capiva e basta.

Non le importava di morire, non se ne rammaricava più di tanto. Dopotutto, non credeva di avere poi molto per cui vivere. Ciò che la feriva, lo squarcio nel petto che la straziava, era il tradimento di lui, il suo voltafaccia. Si sentiva come se lo stesse aspettando, sin dal primo momento, eppure...

Si afflosciò sulla panchina, sfibrata, priva di ogni volontà. ‒Io mi fidavo di te.

Il ragazzo si asciugò le guance e sibilò: ‒Mi dispiace.

Lo disse con tenerezza.

A Malva si spezzò il cuore.

Infine, con lentezza esasperante, Alessio si chinò su di lei, e la sua ombra si allungò sul suo corpo, sulla panchina, alle sue spalle, come un gigantesco mostro oscuro pronto a inghiottirla.

Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans qualcosa di nero e pesante, qualcosa di orribile, e Ravenna trasalì, ma smise di piangere e trattenne il respiro.

Proprio come nell'incubo, fino all'ultimo si chiese se lui l'avrebbe fatto davvero.

Paura bisbigliò: ‒Chiudi gli occhi, Malva. 

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