50. Maledetta
Dei suoni gravi e ripetuti sono l'unica cosa che mi fa alzare la testa dal viso di Narum e mi ritrovo a fissare inespressiva il segnatempo magico affisso alla parete di fronte a me; la piccola palla liscia urla al mondo i suoi rintocchi un istante prima che le fiamme l'avvolgano, ma continua, nonostante tutto.
Dieci, undici, dodici.
Questo nuovo giorno sorge nel fuoco e io sono finalmente adulta.
Lo sconforto che mi aveva attanagliata fino a poco fa svanisce e mi alzo; dovrei tossire a causa del fumo, eppure non m'infastidisce e le fiamme non mi hanno ancora raggiunta. Questa luce mi costringe a tenere le palpebre socchiuse ed è a testa bassa che raggiungo la botola; il tappeto che la copre sta alimentando le lingue ondeggianti sempre più alte, quindi lo scosto di lato con la magia ed è con essa che apro il legno che conduce alle cantine.
Non ho intenzione di scendere la scala a pioli, quindi, senza voltarmi indietro, mi butto all'interno e fluttuo fino al pavimento, mentre la familiare luce violetta si sprigiona dalla mia pelle. Alzo una mano e richiudo la botola, lasciando che la distruzione resti di sopra, almeno per adesso.
Mi ritrovo tra botti di idrosucchi e casse di cibo, quindi raccatto una sacca capiente e ci infilo dentro ciò che riesco, circondata dagli sguardi terrorizzati dei ratti zannuti, forse scesi qui dopo la distruzione delle loro tane nelle pareti di sopra.
Alzo un sopracciglio e schiocco la lingua sul palato, prima di dirigermi verso lo strettissimo corridoio con le scale che danno sulla strada dietro casa. In un moto d'irrazionalità, condenso la magia e ribalto a terra ogni cassa qui presente, spezzando l'incanto che teneva i roditori lontani: voglio lasciare il nostro cibo ai ratti, perché preferisco siano loro a gustarselo, piuttosto che gli animali schifosi che condividono la mia razza.
Prima dell'uscita c'è una piccola anticamera dove i servi tenevano dei mantelli di lana nera e non ci penso su neanche un attimo prima di afferrarne uno; lì dove sto andando farà molto freddo.
Provo a indossarlo, ma mi sta larghissimo e sono costretta ad accorciarlo strappandone un lembo coi denti, visto che con me non ho armi di alcun tipo. Straccio la parte terminale e me la rigiro intorno al busto, poi mi chiudo addosso l'indumento e alzo il cappuccio a coprirmi la testa. Anche questo è immenso, ma va bene così: coprirà di più i miei lineamenti.
Fluttuo verso l'alto ed esco sulla strada, deserta.
In lontananza sento risate, mentre dietro di me si estende un rogo gigantesco; alzando il capo, storco le labbra nel constatare che il fumo arriva fino alla volta della grotta.
Gli Inthuulurl sono stati sacrificati a Meg'golun, tutti, eccetto me, ma sento una singolare sensazione nel petto. Mentre fisso questo macabro spettacolo, la consapevolezza di star fuggendo come una codarda minaccia di farmi vacillare.
Però è irrazionale.
Le tradizioni vorrebbero che io rimanessi qui a bruciare con la mia famiglia, ma è una profonda estraneità che sento adesso. Non sono mai stata accettata da loro, da nessuno, e assistere alla morte di Narum ha smosso qualcosa.
Era il mio gemello e, spirando, si è portato via qualcosa.
Shi'nnyl è morta assieme a lui.
Io cosa sono?
Sono mai stata parte di tutto questo?
No, non sto fuggendo. Gli anni mi passavano vicini, trascorrevano veloci, inafferrabili, e io ci stavo dentro senza esserci davvero.
Il tempo danzava fuori dalle mie grinfie e scappava, irraggiungibile.
Varodil mi ha impedito di essere ciò che gli altri avrebbero voluto che fossi e forse adesso sta gongolando, sadico, nel guardarmi mentre fisso la mia casa bruciare.
Pensa che ora sarò sua? Che farò ciò che vuole, qualsiasi cosa sia?
Che vada a farsi frustare da Enoder assieme ai dannati!
Ogni singola cazzo di persona mi ha sempre detto cosa dovevo o non dovevo fare, ma adesso sono libera, non ho più nulla che mi leghi a questo posto, a nessun posto, e sono adulta.
Già, sono adulta...
Forse sto andando al suicidio, ma restare equivarrebbe a morte certa. Col rogo che si fa più lontano alle mie spalle, ho attraversato la città come un'ombra e ho raggiunto la parete della grotta, seguendone il perimetro fino alla prima apertura dei cunicoli.
I cunicoli...
Un brivido mi percorre la schiena.
Scruto l'interno del passaggio e le pareti rocciose ricche di spigoli appuntiti mi sembrano un monito per ricordarmi cosa sarà d'ora in avanti la mia vita. Anche se voglio lasciarmi il passato alle spalle, mi giro per dare un'ultima occhiata a Meg'xuku, visibile poiché questa uscita è situata un poco sopraelevata rispetto al livello della città.
Queste sono le ore del riposo, quindi immagino che ci siano poche persone in giro, però scorgo il falò, lì dove c'era la dimora della mia famiglia; nonostante la maggior parte delle strutture siano costruite col legno dei cespugli dei rovi delle profondità, il fuoco è circoscritto e non si è ancora estinto. Be', a controllare le fiamme sono di certo gli incantatori della tetra- no, ormai è la triade.
L'oscurità è fitta intorno a me e vedere così distante è difficile, quindi scorgo appena i contorni degli edifici principali e l'unico che non fatico a osservare è il tempio, illuminato da tenui bagliori blu.
Digrigno i denti e raccolgo parecchia aria in un unico respiro.
«Io tornerò, e tu verrai distrutto.»
Ho parlato in un bisbiglio per dare voce ai pensieri, firmando un'invisibile dichiarazione di guerra alla città, a quell'ammasso d'infami e a Meg'golun.
Non avrò pace finché non sarò riuscita a dare loro ciò che si meritano.
Mi volto di scatto e comincio a correre a capo chino, buttandomi nell'ignoto per la prima volta in assoluto; solo i cacciatori percorrono i cunicoli, solo loro sono consci delle infinite mostruosità che li abitano e ho sentito giusto qualche racconto agghiacciante.
Non ho una strada da seguire, non so cosa fare e le gambe mi conducono in questo dedalo confuso e inospitale. Le diramazioni sono molteplici e io le prendo a caso, senza una logica, conscia che indietro non posso tornare.
Molto presto le temperature si abbassano e ringrazio di aver scelto di andarmene con almeno questo mantello di lana; raggiungo vicoli ciechi, seguo percorsi più ampi, più stretti, a destra, sinistra, in pendenza verso l'alto e verso il basso; la pietra diventa terra e poi torna pietra, terra, pietra.
Non ho logica e sento un'angoscia che cresce ogni secondo perché il mio corpo è già stanco di correre e sono costretta a rallentare. L'aria è secca, non ci sono tracce di nulla, non ci sono suoni o odori.
Mi sento persa.
Meg'xuku, in fondo, era una bolla relativamente sicura, mentre i cunicoli sono l'inizio del mondo, i tortuosi percorsi che devono portarmi avanti.
Ma dove, cazzo, dove?
Inciampo in un sasso più grosso degli altri e cado in avanti, sbucciandomi le ginocchia e le mani che ho proteso per evitare di colpire il suolo con la testa.
Urlo.
Non so da dove mi viene, ma sento la necessità fisica di gridare e gli occhi mi si riempiono di lacrime mentre sono a carponi nel freddo, nel buio.
Sono crollata e questo mi riempie di furia ancora di più, anche se sapevo che prima o poi sarebbe successo. Davvero me ne sono andata solo per farmi sopraffare dall'ignoto? No, ci dev'essere un modo per sopravvivere e raggiungere qualcosa.
Che cosa?
So che la città più vicina è Meg'faduk, ma, se anche ci arrivassi, come posso credere che le persone lì mi tratterebbero in modo diverso? Sono pur sempre elfi oscuri e io ho l'aspetto di una bambina.
La mia razza è da escludere, però siamo odiati da ogni creatura intelligente che popoli il sottosuolo, che siano lucertoloidi, goblin o altro. Devo evitare i centri abitati, quindi, e l'idea di passare i prossimi anni come reietta tra i cunicoli non è proprio invitante.
Certo, ci sarebbe la superficie...
No, no! È impossibile, impensabile! Non so neanche che lingua si parla lassù e c'è il sole, oltre a un'infinità di razze che non conosco e sono certa che mi vorrebbero morta solo nel vedere il mio aspetto.
Mi alzo per riuscire ad avere le mani libere e portarmele intorno alla testa. La gola brucia a causa del grido che ho appena lanciato, la faccia bagnata di acqua e sale m'infastidisce, mi irrita, però non riesco a smettere di perdere grossi goccioloni infantili, e il fatto che io stia ansimando a causa della corsa non mi aiuta a trovare la calma.
Devo pensare in modo razionale e la prima cosa a cui arrivo è che ho fatto un casino immenso sia correndo, che urlando; se nei paraggi c'è qualche mostro o aberrazione, è molto probabile che tra poco lo incontrerò.
Ho bisogno di luce.
Aggrotto la fronte, perplessa dai miei stessi pensieri: ci vedo senza problemi nel buio, quindi perché? Attirerei di più l'attenzione, no?
Non m'interessa.
Porto un palmo aperto davanti al corpo e da esso evoco una piccola palla che emana una flebile luce viola, poi lascio che fluttui vicina a me e riprendo il cammino. In qualche modo, il peso nelle viscere si è fatto più leggero. Vado lenta, attenta a ogni suono che non siano i miei passi. M'immetto in altri bivi, scegliendo senza logica a parte una: strada verso l'alto.
Quando raggiungo un cunicolo un po' più largo degli altri, formato in maggior parte da terra secca e compatta, mi rendo conto che sono già passata di qua.
«Dannazione.»
Sbotto, indispettita: girare in tondo non era proprio nei miei piani.
Ci vorrebbe un miracolo.
Faccio appena in tempo a formulare quel pensiero, che dalle spalle percepisco un movimento e mi volto con le palpebre sgranate. Una mano ruvida mi afferra la gola, togliendomi il fiato, poi vengo innalzata e sbattuta contro a una delle pareti.
Per istinto, porto le dita intorno a quelle che mi stanno costringendo ed è con immenso orrore che fisso i lineamenti dell'uomo davanti a me che, una volta, doveva essere stato un elfo oscuro. Ora non lo è più, però, perché i capelli candidi sono arruffati e macchiati da ciuffi grigi, le iridi e la sclera sono una cosa sola, buchi profondi del colore del sangue, e dalla bocca ringhiante spuntano zanne acuminate. La pelle del viso è liscia, anche se pare indurirsi un po' sul collo, sul torace nudo, sulle braccia nerborute. Mi sta inchiodando alla parete, quindi non vedo la parte inferiore del suo corpo, ma pare sia nudo come una bestia qualsiasi.
Ha degli artigli al posto delle unghie e me ne accorgo nel momento in cui muove la mano libera verso la mia faccia. Mi strangola con forza tale che sento le forze abbandonarmi in un attimo e non riesco a condensare la magia, non sono abbastanza lucida.
Col cuore che ulula nel petto, è con rapida violenza che il mondo si sporca di tenebre, quelle che nemmeno la mia vista può oltrepassare, e l'ultima cosa che scorgo è la bava che sgorga dalle fauci dell'essere a cui, con ogni probabilità, tra molto poco farò da pranzo.
«Be', ci hai messo trentacinque anni, ma alla fine sei arrivata ad aver bisogno di me!»
La detestabile voce scanzonata giunge alle mie orecchie prima che mi renda conto di trovarmi a fluttuare nel nulla, emanando la mia luce.
Varodil è già davanti a me, fumo, scie arcane e tutto il resto.
Dopo un primo secondo di incredulo smarrimento, stringo i pugni davanti al corpo e provo a raggiungerlo.
«Brutto infame! È stata tutta colpa tua!»
Anche se intorno a me non c'è niente, riesco comunque ad avanzare in uno strano volo sgraziato, ma lo spirito ride di gusto e svanisce poco prima che io arrivi da lui, per ricomparirmi poi alle spalle.
«No, no, piccola mia! La totale disfatta della tua famiglia è colpa di Meg'golun. Io non c'entro proprio nulla!»
Ormai dalla mia gola si sprigionano solo gorgoglii animaleschi e mi rendo conto di tremare.
«Tu però lo sapevi, bastardo. Tu lo hai sempre saputo!»
Le vene di Varodil fremono, oscillando nel fumo in una danza scomposta e lui aumenta di dimensioni fino a quintuplicarle, obbligandomi ad alzare il mento all'inverosimile per fissare l'escrescenza che gli fa da testa.
«Io sono la magia, Shi'nnyl. Come gli altri spiriti, trascendo lo spazio, ma, a differenza loro, trascendo anche il tempo.»
Rimango senza fiato sotto a quel colosso di oscurità e potere, più piccola di quanto non sia mai stata, di fronte a un'affermazione tanto paradossale. La sua voce melliflua è diventata più profonda ed è come se mi penetrasse attraverso la pelle stessa.
«Ovvio che sapevo cosa sarebbe successo! Fai parte di una delle razze più promettenti di Endel, ma il vostro legame con Meg'golun vi rende così ciechi, così stupidi... Promuovete la magia solo in quegli individui che dimostrano anche forza fisica e questo è vomitevole, non trovi?»
Deglutisco e una singolare tranquillità mi pervade, constatando di essere d'accordo.
«Mi hai resa una debole in un mondo che non avrebbe mai potuto accettarmi. Tu mi volevi morta.»
Le tenebre tornano a rimpicciolirsi fino a diventare delle mie stesse dimensioni e le scie di magia arcana si trasformano a formare le mie sembianze, mentre il tono dello spirito si addolcisce.
«Se ti avessi voluta morta, adesso non saresti qui.»
La Shi'nnyl d'ombra davanti a me si avvicina, allungando una mano per toccarmi, e io d'istinto indietreggio anche se razionalmente so che non posso andare da nessuna parte. Non ho idea di cosa stia facendo, né di cosa voglia da me, ma io, ora, ho bisogno di risposte.
«Perché Meg'golun mi ha detto che tu sai già cosa accadrà?»
«Non è questo il tempo.»
Le tenebre avanzano, lente, e sento con prepotenza che la rabbia si è tramutata in paura.
«Perché continuo a sognare la stessa canzone?»
«Non è questo il tempo.»
Ripete quelle parole come un metronomo, la voce sempre più simile alla mia. Mi porto le braccia al petto e indietreggio ancora; una parte ingombrante di me sa che, se mi lascerò toccare, la magia mi corromperà.
«Hai visto la caduta della terza lacrima, vero? Per questo mi hai maledetta!»
«Non è questo il tempo.»
Per la terza volta la risposta è la medesima, solo che ora Varodil mi ha rubato la voce. I suoi movimenti si fanno rapidi e in un battito di ciglia la me oscura mi è davanti.
Con un ultimo grido disperato, mi copro il viso in una protezione istintiva che non servirà a nulla.
«E allora quando sarà il tempo?»
Le scie vermiglie sul viso davanti a me si ampliano in un ghigno ed è l'ultima cosa che scorgo tra le fessure delle dita, prima che l'oscurità mi circondi.
«Duecentotrentasei, Shi'nnyl.»
Le mie grida si espandono anche nella realtà e i contorni dell'essere che ho davanti, illuminati dalla luce violacea, mi colpiscono più violenti della sua stretta. Qualcosa è cambiato, però, perché c'è sofferenza a storpiare il volto dell'elfo oscuro mostruoso e dalle mie mani, strette alla sua, si sta sprigionando una quantità considerevole di potere arcano.
Ammutolendomi, assisto impotente a una trasformazione che mai avrei creduto possibile: la pelle dell'uomo si raggrinzisce, le palpebre diventano cadenti, l'epidermide si assottiglia, riempiendosi di macchie, e tutto mi fa pensare che è come se lui stesse diventando sempre più vecchio ogni secondo che passa.
Mi lascia andare e crollo lungo la parete, finendo seduta con lo sguardo ancora fisso su di lui, che si è appena allontanato di un paio di passi, ansimando. È incurvato e la spina dorsale sporge in modo grottesco; non è nudo, come avevo pensato, ma indossa dei logori pantaloni di pelle che dovevano essere appartenuti a un cacciatore o a un guerriero. È scalzo e anche i piedi si sono raggrinziti, come il resto del corpo, lasciando i tendini protesi a formare una ragnatela pallida.
Mi dà le spalle e sarebbe certo un buon momento per andarsene, ma c'è qualcosa che tiene i miei muscoli bloccati, pervasi da piccoli brividi.
Ho davvero appena fatto invecchiare di colpo una persona?
La gola mi pulsa, ma non ho più fatica a respirare, non quanta pare averne lui, ed è come se io non fossi davvero qui, mentre il mostro gira il capo a fissarmi con i grossi occhi sanguigni allucinati.
«Tu parli agli spiriti.»
Si è espresso nella mia lingua con versi rochi e gutturali, eppure le parole risultano chiare, comprensibili. Come fa a sapere quello che è successo? Lo ha per caso visto anche lui?
Non ha senso, e poi... davvero questo mostro parla?
Apro e chiudo la bocca più volte in un maldestro tentativo di espellere parole, ma dalle corde vocali fuoriescono solo pigolii imbarazzanti. Quello si volta del tutto e sembra che pian piano il corpo e il viso stiano tornando quelli di prima, perdendo gli anni di troppo che io, a quanto pare, gli avevo rifilato.
Mi punta con un indice artigliato, facendosi dritto, ma resta a un paio di metri da me.
«È la prima volta che vieni nei cunicoli.»
L'uomo zannuto parla in modo davvero strano, come a porre delle domande che, però, suonano più come certezze a causa di un tono stranamente tranquillo.
Ma che cazzo succede? È davvero la stessa bestia che fino a un minuto fa mi stava strangolando con la bava alla bocca?
Scrollo la testa e provo a mettermi in piedi, pregando che lui non voglia prendermi in giro prima di mangiarmi. Però può parlare, no? Questo vuol dire che ragionarci è possibile.
«Chi sei? Cosa... cosa ti è successo?»
Lui inclina la testa e assottiglia le labbra, facendo sporgere di più le zanne, però adesso l'espressione mi sembra più pensierosa che minacciosa e ne ho la conferma quando fissa il soffitto a neanche un metro dalla sua testa.
«Chi sono, eh... chi sono. C'era una città, c'era un pozzo. Ora ci sono i cunicoli.»
Un palmo mi finisce davanti alle labbra, che si spalancano senza ritegno poiché, infine, ho capito: non stavo sbagliando nel ritenere che quest'uomo fosse un elfo oscuro e ormai è evidente che lui sia uno dei puniti, coloro che si sono macchiati da crimini tanto efferati da non meritare nemmeno di essere sacrificati a Meg'golun e che quindi sono stati gettati nel pozzo al limitare di Meg'xuku, lì dove sprofondano le acque del fiume. Lo stesso posto dove volevano far finire me, prima che la nonna mi portasse dallo spirito del caos.
Quindi è questo che accade a essere puniti? Si diventa degli esseri stupidi e mostruosi?
Lui torna a portare l'attenzione su di me e qualcosa nel suo sguardo mi fa aggrottare la fronte, poi incrocio un braccio al petto per sorreggermi il mento con l'altra mano.
No, quest'uomo non è stupido e forse sto impazzendo, ma nel cervello mi martella il ricordo che io stavo invocando un miracolo, poco prima che lui mi attaccasse.
«Qual è il tuo nome?»
Di nuovo, alza la testa come a ritrovare un ricordo perduto, poi la scuote e allarga le braccia, scrutandomi con aria interessata. Si abbassa fino a inginocchiarsi, ma comunque risulta più alto di me anche così. Le labbra sotto ai denti prominenti si storpiano in quello che alla lontana potrebbe assomigliare a un sorriso, poi annuisce.
«Tu sei Dalharil d'lil faer.»
Mi lascio sfuggire un aspirato verso sorpreso, poi il corpo si muove senza che io lo voglia e gli poggio un palmo proprio nel centro del petto, sentendolo caldo, magnifico.
Sì, non ci sono dubbi che lui abbia assistito al mio dialogo con Varodil, visto che mi ha appena chiamata figlia della magia.
I sentimenti che sento crescere in me sono contrastanti, ma hanno sfumature benevole, ben lontane dal solito odio, dal rancore che ha sempre segnato i miei giorni. Questo punito sarà la mia salvezza, lo so, quindi è con estrema sincerità che ricambio il suo sorriso.
«Quindi tu mi seguirai, da ora in avanti. Mi guiderai attraverso i cunicoli, mi terrai al sicuro.»
Senza un minimo d'esitazione, annuisce e si alza, prendendomi in braccio per poi farmi sedere su un avambraccio. In un primo momento rimango basita e mi aggrappo alla sua spalla col timore di cadere, poi, però, mi rendo conto che quel gesto, questa vicinanza... questo calore mi piace.
Comincia a camminare come se tutto ciò fosse normale e non ho idea di quanti secondi, minuti o ore passino, prima che io torni abbastanza in me per mettermi a ridere. Lui gira la testa a osservarmi, incuriosito, e quegli occhi rossi, quelle zanne, d'un tratto mi paiono i lineamenti più belli che abbia mai visto.
«Hai bisogno di un nome.»
«Un nome.»
Si batte un pugno al petto.
Mi abbandono contro al suo corpo e sospiro.
Che Varodil avesse visto anche questo?
Non è importante, anzi, non m'interessa, perché ora ho trovato un'anima affine alla mia e, per la prima volta in cinquant'anni, mi sento quasi felice.
Quasi.
«Tu sarai Nuij.»
Amico.
Lui pare apprezzare, perché si ferma giusto per potermi guardare meglio, poi annuisce.
«Sarò Nuij, per Dalharil d'lil faer.»
Sbatto le ciglia candide più volte, meditabonda, poi sbuffo.
«Non chiamarmi così, non mi piace quel nome.»
Nuij muove il braccio che mi tiene e mi fa sobbalzare.
«Quale nome.»
M'interroga col suo tono pacato e innaturale e io, passandomi la lingua sui denti, distolgo lo sguardo da lui per puntarlo davanti a me; alzo le iridi verso il vicinissimo soffitto ed è ritrovando tutta la mia naturale collera che ringhio un verso basso e rauco.
«Io sono Axsa.»
Maledetta.
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