5. Vendetta
Axsa seguì il passaggio verso l'alto lasciato dalla caduta della lacrima sfiorando le pareti lisce, levigate dal fuoco mistico che aveva circondato l'artefatto fino all'arrivo in quella montagna. Avanzò fluttuando, martellandosi l'anima per ciò che aveva lasciato indietro, cupa in viso e rigida nei muscoli.
Presto l'aria si fece fresca, la luce del sole pomeridiano la costrinse a rimettere il cappuccio e guardare in basso ben prima che sbucasse all'esterno, tra le vette e i pendii brulli. In basso dinanzi a lei si estendevano le pianure di Rosendale, offuscate a causa dei suoi problemi di vista durante il giorno. Fu strano udire i versi gracchianti di alcuni uccelli in lontananza mischiarsi coi tonfi dei crolli all'interno della montagna.
Soffiava una brezza leggera priva di odori che in qualche modo avrebbe potuto essere rassicurante, se solo Axsa non si fosse sentita svuotata, indecisa sul da farsi ora che aveva raggiunto l'obiettivo di una vita. Ce l'aveva fatta, in sé tratteneva la forza di Alanmaeth, però non aveva la minima idea di quale fosse il passo successivo da compiere.
Come avrebbe fatto a spezzare la maledizione?
Varodil aveva detto fosse impossibile, ma doveva esserci un modo. La chiave era la clessidra, per forza, perché lei ricordava bene il momento in cui l'aveva vista inclinarsi, la sabbia smettere di cadere.
Varodil aveva rivelato che era Ilimroth a tenere traccia della vita dei mortali e la cosa aveva senso, visto che era lo spirito della morte. Forse, quindi, era lei a vegliare sulle clessidre?
Scendendo lungo un pendio mentre si lasciava cullare dalle correnti, rifletté sul cercare o meno l'aiuto dei cultisti di Ilimroth per avere qualche informazione in più, ma le sue elucubrazioni vennero interrotte sul nascere da un potente ruggito e un fruscio d'ali troppo rumoroso per essere quello di un uccello.
Istantanee, le memorie di ciò che le aveva detto Eatiel nelle miniere la travolsero e Axsa non si stupì quando, girandosi e guardando verso l'alto con una mano a proteggersi gli occhi, scorse la sagoma di un gigantesco drago rosso, appena staccatosi dalla roccia su cui con ogni probabilità era rimasto aggrappato per non fare rumore.
Lei non l'aveva visto, uscendo, troppo impegnata a fissare il basso per non essere accecata, e nemmeno ora i dettagli della figura le erano chiari. Un corpo massiccio, quattro zampe, gigantesche ali membranose e un lungo collo; scaglie rosse, corna, zanne e artigli.
La bambina avrebbe dovuto temerlo, avrebbe dovuto essere terrorizzata e desiderare solo fuggire, però era apatica. Ora che l'antico rettile aveva spiccato il volo, si era messo qualche metro sopra di lei fino al punto in cui la sua ombra la sovrastò, permettendole di vedere anche la figura della negromante appollaiata sopra di lui.
Zellania non era cambiata e indossava gli stessi abiti di cuoio nero che le lasciavano scoperta buona parte della pelle marcescente, però aveva perso un altro pezzo, visto che si stava tenendo al drago con la mano destra e il braccio sinistro pareva stato amputato dal gomito in giù.
Ogni volta che la incontrava faceva sempre più schifo, quindi; che gioia.
La donna rise e la indicò col moncherino. «Finalmente sei uscita e hai con te la lacrima! Adesso sei finita: cons-»
«Ma stai zitta.»
Axsa le parlò sopra, scocciata di quell'interferenza fastidiosa, alzando appena un indice per puntarlo sul drago. Mentre ancora Zellania stava articolando la frase, l'elfa oscura sentì la magia condensarsi dalla piccola gemma sotto all'occhio fino a esplodere in un raggio blu che colpì il bersaglio facendolo svanire nel nulla assieme all'emissaria di Celenwe.
Neanche un battito di ciglia, e Axsa si era ritrovata sola e nel silenzio. Alzò appena un sopracciglio e assottigliò le labbra; aveva per caso appena disintegrato un drago?
Si fissò la mano da cui era partito lo strano incanto e scosse la testa, ricominciando a scendere per girare intorno al picco. Ciò che aveva fatto era qualcosa di nuovo, ma aveva percepito che fosse comunque legato alla magia del tempo. Aveva desiderato che Zellania sparisse, sì, ma non la voleva uccidere, quindi doveva essersi limitata a cancellarla dal flusso della realtà assieme al suo drago per qualche minuto e non aveva neanche dovuto pensarci: lo aveva fatto e basta.
Era probabile sarebbe riapparsa dopo poco senza neanche sapere cosa fosse successo e una parte di Axsa sperò che se ne andasse per non tornare più, ora che aveva visto cosa lei poteva fare grazie alla lacrima.
Era anche possibile che la negromante avrebbe incontrato Eatiel e gli altri, se fossero riusciti a uscire dalla montagna, però in teoria ora Zellania non aveva più motivo di attaccare l'elfa, visto che era Axsa quella con l'artefatto.
Sospirò, lasciandosi quell'area alle spalle per raggiungere il sentiero verso Stayston e proseguire a piedi nella via che l'avrebbe condotta a est. La negromante non l'avrebbe mai lasciata in pace, non importava cosa Axsa facesse. La capiva, in fondo, perché anche Zellania conviveva con una maledizione terrificante ed era presumibile volesse compiere il volere del suo spirito per ascendere e smettere di soffrire, visto che non doveva essere piacevole possedere un corpo mutilato e in continua decomposizione.
Per quanto quella donna le facesse pena, però, l'elfa oscura aveva bisogno di essere egoista.
Camminò rapida a capo chino e senza guardarsi indietro, sperando di poter seminare ogni possibile inseguitore incuneandosi in quei sentieri di montagna ricchi di anfratti naturali e di difficile percorrenza.
Conosceva quella strada: procedeva parallela a quella costruita dai nani e dagli umani in antichità per unire le città del versante est con quelle dell'ovest e nessuno ci andava mai perché era troppo stretta e irraggiungibile per chiunque avesse un corpo di dimensioni normali, ma lei era abbastanza piccola per riuscire nell'impresa.
A volte dovette rannicchiarsi e strisciare attraverso anguste gallerie nella roccia, altre fu costretta a sfruttare la levitazione per superare parti crollate, però sapeva bene che stava proseguendo nella giusta direzione. Aveva compiuto lo stesso cammino circa centosettant'anni prima, ma andando da est verso ovest, quando era sbucata in superficie e aveva scoperto il mondo pian piano.
Ora che ci rifletteva, l'apertura per raggiungere la sua città natale non era poi così distante da Stayston... quanto ci avrebbe messo a raggiungerla?
No, perché?
Perché tornare nel sottosuolo?
Perché non farlo?
Aveva fatto una promessa, in fondo, e l'aveva quasi dimenticata. Aveva giurato che sarebbe tornata e che avrebbe distrutto quell'ammasso di stronzi che l'avevano trattata come una debole e che le avevano sterminato la famiglia.
Aveva dichiarato guerra a Meg'golun e al suo tempio.
Zellania l'avrebbe cercata di certo, quindi perché non sparire qualche giorno nel sottosuolo e prendersi la vendetta, ora che era appena diventata la mortale più potente di Endel?
Ghignò, sadica e divertita, immaginando le facce sconvolte degli elfi oscuri mentre lei distruggeva tutto quello che per loro era importante, seppellendoli nelle macerie di quella stupida città.
Sì, le ricerche per spezzare la maledizione potevano aspettare, perché lei doveva fare giustizia per Nuij, reso un punito a causa dei dettami dello spirito del caos, e per suo fratello Narum, ucciso da quelle faide senza senso.
Galvanizzata dalla nuova decisione, Axsa affrettò il passo e ci mise parecchio ad accorgersi che la rapidità con cui stava attraversando il sentiero montano andava fuori da ogni logica. Fu quando il sole percorse il ciclo nel cielo e il tramonto colorò di rosso e giallo l'immensa tela limpida sulla sua testa che la bambina comprese di essere quasi giunta a valle.
Ci avrebbe dovuto mettere almeno due giorni a percorrere quella via, invece era trascorso appena un pomeriggio estivo e non si sentiva neanche troppo stanca. Si sedette con la schiena poggiata alla roccia in un punto dove la terra si era insinuata a rendere quasi verdeggiante il paesaggio non molto vario che la circondava. Con le dita di una mano a carezzare radi ciuffetti di erba, portò l'altra al viso e trattenne il fiato nel sentire quanto la piccola gemma nella sua pelle fosse calda.
Senza esserne consapevole, la brama di sbrigarsi le aveva fatto sfruttare il potere di Alanmaeth per velocizzare i suoi movimenti.
C'era qualcosa che ora Axsa non potesse fare?
Passandosi la lingua sui denti, storpiò l'espressione in un ringhio trattenuto e strinse i pugni; sì che c'era, visto che ancora non aveva spezzato la maledizione.
Con la collera crescente a insudiciarle l'anima, ricercò nella borsa che teneva a tracolla qualcosa da mangiare e bevve dall'otre che aveva riempito con l'acqua della montagna. Nel riporre l'oggetto, le dita sfiorarono lo specchietto da viaggio che si portava sempre dietro; la superficie fredda e liscia la fece tentennare fino al punto in cui sentì il bisogno di estrarlo e guardarsi.
I capelli erano scompigliati, il volto rotondo da bambina sporco e segnato lì dove le lacrime avevano scavato nella patina di polvere causata dai crolli della caverna. Non le piaceva ciò che stava guardando, anche perché la sclera era pervasa da capillari rossastri intorno alle iridi viola prive di pupilla che però brillavano come a riflettere la luce della gemma a forma di goccia che se ne stava placida, incastonata nella pelle scura sotto la rima dell'occhio sinistro.
Quell'immagine era intollerabile.
Lasciò cadere lo specchio e lo osservò mentre si infrangeva in schegge tra i sassi e la pietra del sentiero. Fissò gli spicchi di sé stessa spezzettati in quei frammenti e il cuore perse un battito, la gola si fece secca a causa di una sensazione fastidiosa che le contorse le viscere. Lei aveva già vissuto qualcosa di simile, ne era certa, ma erano trascorsi davvero troppi anni perché potesse ricordare i dettagli, lasciandola solo con quel molesto senso di già visto e la consapevolezza che la prima volta era accaduto nella sua cameretta a Meg'xuku. L'ambiente era cambiato, ma non il suo riflesso in quelle crudeli scaglie di verità.
Non lei.
Lei non poteva cambiare.
Coi bulbi brucianti e il mento tremulo, la bambina calpestò ciò che rimaneva dell'oggetto e proseguì la discesa, intenzionata a sfruttare anche le ore notturne per raggiungere il prima possibile la sua destinazione.
Axsa non aveva con sé un segnatempo magico e, privata del ritmo donato dal sole, non riuscì a calcolare quanto tempo trascorse nel sottosuolo prima di arrivare alla sua città natale.
Grazie alla velocità innaturale, era giunta all'imboccatura dei cunicoli dopo neanche dodici ore di cammino e aveva scelto di riposare lì, dicendosi fosse meno rischioso dormire tra gli alberi che circondavano l'apertura piuttosto che dentro ai passaggi oscuri.
La verità, però, era che aveva bisogno di convincersi a pieno prima di scendere negli abissi della terra e del passato. Quegli alberi erano stati i primi che aveva visto ed erano diventati alti, possenti, più di quanto non lo fossero stati duecento anni prima. Fu sentendo sotto ai polpastrelli la ruvidezza della loro corteccia che Axsa si era fatta coraggio e aveva abbandonato la luce.
Non sapeva come, ma aveva ricordato senza sforzo la strada per raggiungere la sua città, nonostante fosse sola, nonostante con lei non ci fosse Nuij. Un'infantile parte di lei aveva sperato di ritrovarlo lì, proprio dove l'aveva lasciato, ma sapeva non fosse possibile.
Il suo primo amico era morto di certo, dopo centottant'anni, vittima della vecchiaia.
Sotto al gambo gigantesco di un fungo iridescente in uno dei boschetti dove erano soliti rifugiarsi, Axsa si era fatta del male immaginandolo mentre si spegneva in qualche anfratto, completamente solo, triste.
Chissà se aveva pensato a lei, chissà se l'aveva dimenticata.
Lei non l'avrebbe fatto.
Attraversando i cunicoli si era imbattuta in un branco di mastini delle profondità, canidi ciechi e glabri grossi poco meno di un pony, e lì si era resa conto di quanto lei si muovesse rapida. Passando loro vicino, le era parso si spostassero appena con movimenti lentissimi, però non aveva indagato ed era andata oltre visto che non aveva voglia di ammazzare la fauna del sottosuolo; non era lì per loro.
Quando sbucò dal passaggio e davanti a lei trovò Meg'xuku, dovette deglutire e bloccarsi. Non era cambiata, neanche un po': il tempio di Meg'golun era ancora lì nel mezzo, illuminato dai perenni bagliori blu, e anche le sagome di molti altri edifici erano visibili nell'oscurità dell'immensa grotta grazie alla tenue illuminazione. Doveva essere giorno, quindi, le ore in cui la vita pulsava per le vie, in cui i bambini s'insultavano e si picchiavano tra loro. Le ore in cui i deboli venivano bruciati in sacrificio e coloro che commettevano dei crimini venivano puniti dentro al pozzo oscuro in cui defluiva il fiume che sgorgava dalla cascatella che piaceva tanto al suo maestro.
Senza premurarsi di tenere il cappuccio sulla testa, l'elfa oscura camminò con lentezza e raggiunse la periferia. Attraversò le strade, passeggiò accanto agli esponenti della sua razza affaccendati nella loro insulsa vita di tutti i giorni e nessuno badò a lei. Come avrebbero potuto riconoscerla, del resto? Coloro che erano stati adulti quando lei era ragazza dovevano ormai essere morti, mentre quelli della sua età avevano raggiunto la vecchiaia ed era improbabile potessero ricordarsi di lei, visto che l'avevano data per morta nell'incendio della sua casa.
La sua casa.
Fu proprio lì che i passi la condussero e restò immobile per interi minuti a fissare con le palpebre sgranate e la bocca semi aperta ciò che c'era, o meglio, ciò che non c'era più.
Nulla, lo spazio dov'era stata la sua casa era vuoto, un quadrato di niente in mezzo alle altre strutture del centro della città con solo quella che pareva essere una grossa lapide di pietra chiara nel mezzo. Axsa ci mese un bel po' a sbloccarsi e decidere di avanzare verso quella specie di monumento squadrato per comprendere cosa fosse, dato che dalla strada scorgeva che c'era scritto sopra qualcosa.
L'imponente masso rettangolare era più alto di lei di almeno un metro e largo il doppio, quindi dovette mettersi a levitare per poter leggere ciò che vi era scritto nella parte più in alto. Ritrovare la sua prima lingua fu stranissimo e le labbra si mossero da sole a pronunciare le parole nel mentre che leggeva le rune intagliate nella pietra.
«Qui sorgeva la dimora della più squallida famiglia nobile che Meg'xuku ha dovuto sopportare. Qui abitavano inetti, deboli, arroganti che pensavano di essere favoriti dal caos e che dal caos sono stati puniti. Qui sono bruciati gli Inthuulurl per rendere omaggio a Meg'golun, perché hanno creduto di godere dell'eterna giovinezza e della benedizione dello spirito. Essi saranno ricordati come gli stolti che veneravano una bambina immortale, morta come gli altri nella gloria del caos. Che possano soffrire fino alla fine dei tempi tra i dannati percossi dalla frusta di Enoder, per il compiacimento ultimo dell'immenso Meg'golun.»
Un monumento commemorativo, quindi, per poter disprezzare lei e gli Inthuulurl per sempre.
Allan aveva avuto ragione a spaventarsi nello scoprire la sua razza, perché in quel momento Axsa sentiva il bisogno di vomitare a causa di tutta quella meschinità.
Tornando coi piedi al suolo, restò a fissare quello scempio colta dall'indecisione. Sentiva il petto caldo, i muscoli tesi, però gli angoli delle labbra erano puntati verso il basso e il viso rilassato in una maschera di arrendevole passività.
Lei era come loro, come gli altri elfi oscuri, e la cosa le faceva talmente schifo da obbligarla all'immobilità. Vivere in superficie le aveva fatto capire che c'erano infiniti modi per proseguire la propria esistenza e che quello che avevano scelto loro era stupido e insensato.
Ricordando ciò che aveva provato davanti al sorriso del cantastorie, Axsa infine si liberò in un verso sdegnato che proruppe dall'anima. Scegliere di odiare qualsiasi cosa rendeva le persone nient'altro che involucri vuoti. Perpetrare la dominazione dei forti sui deboli era retrogrado, limitante, e li aveva resi schiavi dello spirito del caos.
Erano pazzi, tutti, perché nessuna creatura sana di mente avrebbe mai deciso di propria volontà di seguire i malsani dettami di un essere tanto spregevole. Forse, però, lei l'aveva capito perché ormai aveva imparato a comprendere gli spiriti ed era stata una vittima, anche lei sopraffatta dall'odio.
Era troppo tardi per scegliere di essere qualcosa di diverso?
«Ehi, tu, inutile feccia! Cos'hai da fissare il memoriale alla famiglia più indegna di Meg'xuku?»
Una maschile voce nasale pregna di derisione giunse dalla strada alle sue spalle e Axsa chiuse le palpebre, prendendo un lungo respiro.
Aveva atteso duecentotrentasei anni, poteva rimandare quella scelta ancora di qualche ora.
Allungò una mano a toccare la lapide e richiamò la magia in modo che il tempo trascorresse nell'oggetto; così come i viventi invecchiavano e morivano quando lei decideva di usare quel potere, il monumento si crepò, per poi sgretolarsi in grossi pezzi dopo una manciata di secondi.
«Cosa cazzo stai facendo?»
Il tono dell'uomo si fece allarmato e la bambina lo udì menare una frustata a vuoto, forse pensando di poter essere minaccioso. Si voltò a guardarlo, inespressiva, e non provò alcuna gioia nel vedere la sua espressione sofferente quando alzò un dito per scagliargli addosso un raggio verde debilitante.
Lui crollò al suolo, ansante, e Axsa si accorse che c'erano altre persone per la strada che si erano fermate. Qualcuno gridò, altri le domandarono chi lei fosse tra colorite imprecazioni. Per un istante credette di potersi allontanare da quella gente inutile per raggiungere luoghi più interessanti, ma l'attenzione fu assorbita da una donna appena accorsa: indossava una scura tunica che la identificava come una sacerdotessa di Meg'golun e il modo in cui stava agitando le mani non lasciava dubbi.
Axsa alzò giusto un sopracciglio, infatti, quando lei generò una grossa fiammata e la scagliò nella sua direzione.
Così era morta la nonna, forse anche sua sorella Phaere.
Il fuoco s'infranse sull'invisibile scudo protettivo che Axsa eresse davanti a sé senza bisogno di muoversi, generando un boato fastidioso.
«Tutto qui?»
La bambina li prese in giro atona, infastidita da quegli sguardi sorpresi e dalle continue domande che sentiva crescere tra loro. Erano stupidi davvero, se ancora non avevano intuito chi lei fosse.
Alzò i palmi e liberò la magia arcana in modo da far fluttuare vicino a lei i sassi più grossi formati dai resti dell'odioso monumento, poi cominciò a camminare con lentezza.
Non appena qualcuno provava ad attaccarla con fruste o incantesimi, Axsa gli scagliava addosso una delle pietre, mirando alla testa. Parecchi caddero durante la sua avanzata e la maggior parte comprese fosse più saggio fuggire da lei quando una seconda fiammata si spense, inutile, contro al suo scudo.
In passato mantenersi concentrata tanto a lungo su quegli incantesimi le avrebbe prosciugato le energie, ma la lacrima di Alanmaeth era calda e pareva donarle forza ogni attimo di più.
Non aveva più bisogno di fermare il tempo, anche perché facendolo si sarebbe esposta a Varodil e non ne aveva alcuna voglia, e i passi la condussero al tempio dello spirito del caos tra le urla di quelli che l'avevano vista agire.
Le soffuse luci blu che uscivano dalle finestre donavano alle alte e appuntite guglie un'aria imponente, ma la nera roccia con cui era stato eretto non era diversa da qualsiasi altro materiale deperibile esistente al mondo.
Non c'era nulla, nulla, che potesse resistere allo scorrere dei secoli, a parte lei.
Oh, quell'infame di Meg'golun si sarebbe incazzato parecchio!
Infine, la bambina riuscì a provare qualcosa e ghignò; era conscia che fare i dispetti agli spiriti fosse una cosa inutile, ma non per quello non avrebbe goduto nel vedere il tempio trasformarsi in un cumulo di macerie.
Allungò entrambi i palmi sulla superficie liscia e condensò la magia di Varodil per compiere la promessa pronunciata tanti anni prima. Mentre i vetri delle finestre s'infrangevano e crepe sempre più profonde prendevano a disegnarsi lungo le pareti del maestoso edificio, Axsa sentì qualcuno gridare delle negazioni e passi affrettati giungere verso di lei.
Era probabile che gli elfi oscuri scappati in precedenza fossero andati a richiamare i rinforzi e stessero defluendo lì, nella romboidale piazza antistante l'ingresso del tempio. Avrebbero potuto provare a farle ciò che volevano, tanto nessuno sarebbe riuscito a superare lo scudo che la circondava.
Ormai Axsa era diventata una piccola entità distruttiva e se ne resero conto in fretta, quando un guerriero provò ad avvicinarsi a lei con una spada in mano, ma non la raggiunse mai. Si bloccò a un metro dall'emissaria e venne travolto dall'aura che stava emanando nello sforzo di deteriorare il tempio; la sua pelle raggrinzì, il corpo si contorse su sé stesso, gli abiti e l'arma si sgretolarono e di lui non rimase altro che polvere.
Axsa se ne accorse appena, troppo impegnata a godere di ogni singolo crollo che sentiva provenire dall'interno dell'edificio. Le guglie collassarono, così come il tetto, e i grossi portoni si spalancarono lasciando uscire una mezza dozzina di sacerdoti terrorizzati. Gli elfi oscuri avevano ormai smesso di provare ad attaccarla e i tonfi e gli scricchiolii del tempio sovrastavano le loro voci.
La bambina non si scompose quando notò che i sacerdoti l'avevano vista e continuò la sua demolizione fino a quando una vecchia in tunica nera non la raggiunse, fermandosi poco prima che la vorticante aura di magia temporale potesse catturarla. Aveva i lunghissimi capelli candidi lasciati sciolti a ricaderle sulla schiena e pareva l'unica con impressa nella faccia rugosa un'espressione sorpresa.
«Shi'nnyl? Sei tu?»
Oh, quel nome... pronunciato da quelle labbra, da quella voce...
Infine Shai'ri era davvero riuscita a diventare somma sacerdotessa e ora eccola lì, a fissarla come se avesse appena incontrato un fantasma. L'ultima volta che l'aveva vista era stato quando, assieme a Erordia e alle famiglie nobili, aveva assassinato suo fratello e bruciato villa Inthuulurl.
Le pareti del tempio piombarono sulle altre macerie e Axsa si disse soddisfatta dell'opera, concedendosi di girarsi verso la vecchia compagna di scuola. La piazza era gremita di persone sconvolte, forse in attesa che accadesse qualcosa o che qualcuno più coraggioso degli altri provasse a farla fuori. Ma gli elfi oscuri erano infimi, meschini, e l'emissaria sapeva che distruggendo il tempio aveva minato la sicurezza nei loro animi.
Rise, portandosi i palmi ai fianchi senza smettere di condensare la magia intorno a lei perché sapeva che Shai'ri poteva vederla.
«Sono tornata, scusatemi se ci ho messo tanto.»
La sacerdotessa fece un passo indietro e la indicò, prima di gridarle addosso con voce tremante e gli occhi lucidi. «Tu dovresti essere morta! Meg'golun mi aveva detto che la tua famiglia era stata sterminata per intero!»
Axsa finse un'espressione addolorata e scosse la testa. «Povera, povera Shai'ri... non lo sai che gli spiriti ingannano?» Si portò un indice al mento e alzò lo sguardo. «In effetti, però, quel giorno Shi'nnyl Inthuulurl è morta e sono nata io.»
L'anziana indietreggiò e gli altri sacerdoti la imitarono; guardò i resti del suo tempio e deglutì, incupendosi con le sopracciglia ravvicinate e la voce arrocchita dalla rabbia. «Perché sei tornata?»
Axsa esplose in un acuto verso sbigottito e incrociò le braccia al petto. «Non è ovvio? Voglio farvi provare ciò che ho passato io. Voglio vedere la disperazione sporcare i vostri volti nel rendervi conto che vi distruggerò. Voglio la mia vendetta.»
Nonostante la piazza fosse gremita di gente, c'era un innaturale quiete a permeare le tenebre della città come se tutti avessero voluto udire quel dialogo. Shai'ri attese un istante, guardò gli altri elfi oscuri, poi ciò che restava del tempio e infine piantò le iridi viola in quelle di Axsa, le guance rigate da lacrime silenziose.
«Hai sfidato Meg'golun e ora la pagherai. Se anche noi non riuscissimo a fermarti, non potrai sottrarti dalla furia del caos.»
La vecchia parlò con un solenne tono deciso che lasciò Axsa interdetta un secondo, per poi provocarle una scrosciante risata cristallina tanto potente da costringerla a portarsi le mani alla pancia.
«La furia del caos, dici?» Parlò tra le risate e l'espressione sconvolta che la sua reazione aveva provocato nei sacerdoti la divertì ancora di più, riempiendo la piazza di quei gridolini infantili difficilissimi da controllare.
Quando Axsa si costrinse a tornare seria sospirò, le dita ad asciugarsi le lacrime che quell'improvvisa allegria le aveva provocato.
«Siete davvero così stupidi e ciechi... Vivendo rintanati nel buio, non vi accorgete che la vera vita scorre sopra le vostre teste. Si susseguono guerre e pace, la gente crea regni, le razze convivono e gli spiriti... gli spiriti maledicono le persone e lasciano cadere i loro artefatti. Voi non sapete nulla di come gira il mondo e tu, Shai'ri, non hai la minima idea della cosa in cui mi avete trasformata.»
La donna incrociò le braccia sotto al voluminoso seno, alzò le spalle e parlò con gli occhi che brillavano della stessa luce che aveva sempre colpito la nonna, quando lasciava che la fede verso il suo spirito superasse ogni altra cosa.
«Stai vaneggiando. Meg'golun ti punirà. Hai provocato un'intera città, ma sei sola e prima o poi la magia ti abbandonerà, lasciandoti bruciare com'è giusto che sia, come sono bruciati quegli stolti dei tuoi familiari.»
Incredibile come la fede potesse infervorare gli animi della gente fino a quel punto.
Un sottile sorriso ambiguo spezzò a metà il viso della bambina. «Sono Axsa, sono l'emissaria di Varodil e la magia non potrà mai abbandonarmi, perché tra i mortali sono io la magia.»
Non attese una risposta, anche perché era probabile che le sue parole non volessero dire nulla alle orecchie di quella gente ignorante, e cominciò a fluttuare verso l'alto senza smettere di osservare i mutamenti facciali della somma sacerdotessa.
Circondata dalla sua luce violetta, salì fino a raggiungere la volta della caverna, stupita del fatto che nessuno avesse provato a seguirla anche se tutti erano con lo sguardo puntato verso di lei. Forse pensavano che se ne sarebbe andata o avevano troppa paura per affrontarla, visto ciò che era successo a chi ci aveva provato.
Dei pipistrelli volarono via quando infine arrivò a toccare la roccia e guardò giù, contemplando dall'alto quella che era stata la sua città.
L'avrebbe distrutta fino all'ultimo edificio, si sarebbe lasciata consumare dall'odio e li avrebbe uccisi tutti, uomini, donne e bambini, perché nessun esponente di quella schifosa razza meritava di sopravvivere.
Toccò la volta e condensò la magia, sentendo la lacrima farsi bollente come a volerla ustionare.
Non le importava.
Avrebbe fatto collassare l'intera caverna su sé stessa, avrebbe perpetrato un genocidio e avrebbe riso sui cadaveri, finalmente libera dai fantasmi del suo passato.
Chiuse le palpebre e cominciò la sua opera, incurante del fatto che forse avrebbe dovuto attingere a ogni energia per poter distruggere un'intera caverna. Quando le prime crepe presero forma dalle sue mani, sentì le urla della gente sotto di lei e le assaporò, lasciandosi galvanizzare da esse.
All'improvviso, però, i suoni cessarono e un dolore lancinante le pervase dapprima il cervello, per poi inondarle i muscoli. Inesorabili, udì le note del Requiem dell'abisso riempire gli spazi e il cuore le pompò frenetico nel petto.
Non capì.
Troppo impegnata a tenersi la testa tra le mani, Axsa a mala pena riusciva a mantenersi a mezz'aria, seguendo l'incedere delle tristi note con una crescente angoscia a dilaniarla. Gli elfi oscuri erano immobili come accadeva durante le stasi temporali e non c'era nulla se non il Requiem a catalizzare la sua attenzione.
Nella mente apparve l'immagine di Allan, ma non sembrava lui, poiché era formato da oscurità e le vene vermiglie di Varodil gli vorticavano nel corpo.
Alla fine, il bardo non l'aveva ascoltata e aveva lasciato che il Requiem risuonasse su Endel per la seconda volta.
Quell'idiota si sarebbe perso, avrebbe portato la devastazione ovunque fosse così come stava per fare lei e sarebbe morto, diventando un giocattolo di Varodil.
No, Axsa non poteva permetterlo.
Gridando la sua rabbia con la musica a torturarle l'anima, la bambina si concentrò per poter raggiungere lo spirito della magia e provare a fermare quelle note. Non aveva idea se fosse possibile, non sapeva se Varodil avesse obbligato Allan a suonare per potersi impossessare di lei e della lacrima, ma il pensiero di lasciare che il cantastorie si spegnesse le era intollerabile.
Strizzò le palpebre, sentì una forza aliena trascinarla via e, a differenza di ciò che aveva fatto fuori dalle miniere, non si oppose.
Quando tornò in sé, il dolore era svanito, ma la sorpresa fu superiore a qualsiasi altra emozione. Si era aspettata di ritrovarsi nell'abisso oscuro di Varodil, invece era inginocchiata in un odoroso prato di erba umida, circondata da alti alberi stracolmi di foglie e fiori colorati. Il canto di uccelli che non c'erano riempiva la quiete e la luce del sole penetrava tra le fronde di quel bosco in raggi precisi che quasi sembravano disegnati; anche se lei si trovava proprio sotto a uno di essi, non le ferirono la vista.
«Perdonami, ma ho deciso di intromettermi.»
Le parole di un uomo giunsero da un punto in alto alle sue spalle e Axsa strabuzzò gli occhi, rendendosi conto che non solo aveva parlato in elfico e non nel linguaggio degli spiriti, ma anche che lei quella voce l'aveva già sentita innumerevoli volte nei suoi sogni e tra le note del liuto arcano.
Girandosi e alzando la testa, la bambina si ritrovò a guardare un longilineo elfo dalla pelle chiara, con profondi occhi verdi e coi lunghi capelli lisci che sembravano formati da fili d'erba. Indossava dei pantaloni larghi e una semplice camicia che parevano fatti di corteccia e le sorrideva, triste, seduto su un grosso tronco con le gambe che dondolavano nel vuoto.
A bocca aperta, l'emissaria trattenne il fiato e un singolo nome sfuggì in un sussurro tra le labbra.
«Galadar?»
Varodil, lo spirito della magia
Galadar, primo emissario di Varodil, asceso a spirito della vita
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top