La principessa e l'ultimo regalo
Capitolo Undici
La principessa e l'ultimo regalo
Potrei dire un sacco di cose su Jack Valentine, e la maggior parte di esse non sarebbero complimenti, ma ce n'è una, in particolar modo, che non posso negare, nonostante mi tenti dannatamente: lui sa prendersi cura della sua famiglia.
Oggi, per più di quattro ore, non abbiamo fatto altro che lavorare come dei matti. Abbiamo tagliato la legna, fatto il bucato, mangiato, pulito varie roulotte, mangiato, aiutato varie persone con i problemi più disparati - da chi aveva il tetto rotto a chi non trovava più i suoi figli - e mangiato di nuovo.
Dico davvero, in questo posto non smettono mai di mangiare. Tutti quanti sono dei pozzi senza fondo, Guar in particolar modo. Ho perso il conto di quanti biscotti ha ingurgitato nel corso di questo breve lasso di tempo, e se non avessi visto quanto pesante sia il suo carico di lavoro mi sorprenderei che non sia sovrappeso. Lui consuma tutte le calorie attraverso attività fisiche impegnative: ha letteralmente sollevato con le mani quattro travi di ferro lunghe non so quanti metri e le ha portate con sé per quasi un quarto d'ora senza dare il minimo cenno di stanchezza o affaticamento.
«Che diavolo stai facendo?» la sua mano afferra la maglia bianca che stavo tentando di lavare. «La stai solo inzuppando d'acqua, Anja.»
«Sto solo provando a...»
Lui sospira e si inginocchia accanto a me, di fronte alla fontanella, mi strappa la saponetta di mano. «Devi strofinare per bene. Mi rendo conto che in questo modo rovinerai la tua bella manicure, ma ogni tanto devi pure imparare a sporcarti le mani, Anja.»
L'umiliazione è cocente. Non posso nascondere la mia ignoranza in questa materia, mai nella mia vita mi sono dovuta preoccupare di lavare qualcosa. Ci ha sempre pensato qualcun altro, fra maggiordomi e governanti. Anche ora che vivo da sola c'è una donna delle pulizie che se ne occupa. «Non mi importa così tanto della manicure, sai?» la mia è una bugia bell'e buona a cui lui, ovviamente, non casca. I suoi occhi cadono sulle mie mani, sulle unghie rifatte proprio quattro giorni prima, smaltate di un rosa perlato e piene di brillanti. Il suo sorriso divertito è un colpo al cuore, una sconfitta tremenda.
«Ti odio» mormoro, mentre le mie guance si tingono di rosso.
«Il sentimento è reciproco, Anja.»
«Ti ho detto almeno un centinaio di volte che non mi chiamo così. Non è questo il mio nome.»
Jack solleva un sopracciglio e strofina con vigore la saponetta bianca contro una gigantesca macchia di fango. «E quale sarebbe il tuo nome, principessa?»
«Sicuro non Anja.»
Ora anche l'altro sopracciglio è sollevato. Oh no, dannazione. L'ha intuito, ha intravisto la verità. Mi sollevo in piedi, ma non faccio in tempo, la sua mano afferra il mio polso e mi blocca sul posto. Ha una presa di ferro, la sua stretta è come una manetta rovente che accalora la mia pelle, e il suo sguardo maligno e divertito non fa altro che peggiorare la situazione. «Come mai non hai risposto come al tuo solito "Sophia King"?»
Il problema più grave di quando arrossisci è che più provi a frenarlo più il tuo volto diverrà infuocato. Certe volte vorrei davvero perdere quel poco di dignità che mi è rimasta per evitare simili momenti, non avendo più alcuna umiltà a cui appoggiarmi eviterei sicuramente certi disagi. «Una semplice dimenticanza.»
«Lo sai, principessa, quando menti storci sempre il naso.»
Maledizione. «E tu lo sai bene perché mi hai osservata a lungo, non è così, Valentine?»
«Ti piacerebbe, non è così?»
«Ovvio che sì. Venire analizzata da un australopiteco peloso e stalker è sempre stato il più grande sogno della mia vita. Grazie mille per averlo realizzato.»
Lui si solleva a sua volta, la mano che stringe ancora la maglia zuppa e l'altra che tiene con fermezza il mio polso. I suoi occhi azzurri sembrano due zaffiri scolpiti. Gli occhi del diavolo. Li sento attraversarmi da parte a parte, uno spillo che sfiora la punta di un palloncino. «Non mi dirai che il tuo vero nome è troppo imbarazzante per essere pronunciato, principessa.»
L'irritazione dilaga. La diga è appena stata sfondata con le sue parole tutt'altro che gentili. Sento la vena sul collo pulsare con violenza. Non ricordavo di esser mai stata una persona così vendicativa, di solito ho sempre cercato di mantenere un certo contegno, anche con chi non se lo meritava. "Mantenere le acque calme" è il mio stile di vita. Ma con Valentine riuscire a rispettarlo è praticamente impossibile. Ogni volta che vedo quella sua espressione tronfia vorrei soltanto ripetere l'esperienza di renderlo eunuco. «Per esser chiari, Sophia è il mio nome, semplicemente non il principale. E, in secondo luogo, nemmeno il primo è imbarazzante! Non lo uso perché è troppo lungo!»
E' una bugia gigantesca, una menzogna che si può fiutare lontano da chilometri. E il maledettissimo Jack lo sa bene. «Ohhh... lasciami immaginare... Gertrude?»
«Che cosa? No!»
«Charlotte?»
«No! E comunque Charlotte è un bellissimo nome!»
«Effettivamente ti si addice, visto che sei una principessina con la puzza sotto il naso.»
«Tu stai prendendo per il culo il mio nome, che neanche conosci, mentre sei il primo ad averne troppi o nessuno! Come diavolo sei segnato all'anagrafe? Jack? Guar? Immensa testa di...»
«Ermenegilda?»
«Che razza di nome è Ermenegilda?»
«Quindi è Ermenegilda?»
«No! Non mi chiamo Ermenegilda! Il mio nome è Prudence!» il tempo di dirlo e già mordo la lingua.
Nononono.
Non doveva andare così.
Non avrei dovuto lasciarmi andare a questo momento di irritazione, avrei vouto tenere la bocca chiusa e ignorare le sue insinuazioni. Dargli un simile vantaggio è terrificante. Ho appena fatto un auto goal che non meritavo. E, di fatto, Jack scoppia in una fragorosa risata. «Prudence?» ripete a gran voce, con il tono acuto di chi si sta godendo questo momento di ilarità. «Per davvero? Prudence?»
Il rossore si diffonde ovunque, dalle guance alla punta dei piedi, stringo le mani in due pugni. «Sì, Prudence! Prudence Sophia King! Era il nome di mia nonna! Una grandissima donna! Un'animalista e femminista convinta! Sono fiera di averlo!» Un'altra gigantesca bugia.
«Se ne vai fiera, perché lo nascondi a tutti?»
«Perché è troppo lungo.»
«Certo. E i maiali volano.»
«Visto che tu hai imparato a scrivere e leggere non sarebbe poi così sorprendente.»
Valentine, finalmente, lascia andare la presa sul mio polso, che afferro subito con l'altra mano libera. La pelle che stretto fra le sue dita è ancora calda, pizzica terribilmente, come se centinaia di aghi sottili l'avessero perforata contemporaneamente. «Prudence...» mormora fra sé e sé, coprendo la bocca per nascondere le risatine che stanno attraversando il suo corpo. «Prudence...»
«Prudence Sophia King!» reclamo ad alta voce, stizzita. «E se lo dici a qualcuno, ti ucciderò! Giuro che lo farò per davvero! Ti darò un altro calcio sulle palle e stavolta mi assicurerò che non sopravvivano fino al giorno dopo!»
Lui fischietta, ignorandomi del tutto, e strizza la maglia con armonia e eleganza. Le sue mani si muovono veloci, l'acqua impregnata nel tessuto ricade come gocce di pioggia sul terreno, bagnandolo. «Per questo ti fai chiamare Sophia? Perché Prudence è imbarazzante?» mi domanda.
«Sei davvero l'ultima persona al mondo che dovrebbe prendermi in giro per il mio nome, visto e considerato che ancora non so quale sia il tuo.»
Valentine scrolla le spalle e sbatte nell'aria la maglia. «Puoi chiamarmi come vuoi, principessa. I nomi sono solo dei nomi.»
Di nuovo questa frase, una frase a cui forse non riuscirò mai a dare un senso. «Spiegami un po' questa cosa» gli chiedo alla fine con un sospiro «come riuscite ad andare avanti con tutti questi nomi?»
Lui ci riflette su, prima di rispondere. Aggrotta le sue folte sopracciglia e si lascia andare a un'altra risata. «Va bene, principessa, proverò a spiegartelo in modo che tu possa comprendere. Ognuno di noi può avere un nome, qua dentro, e di solito è quello che usiamo noi per chiamarci. Ma quando dobbiamo stare con voi gagi la situazione cambia. Non prenderla a male, ma non ci fidiamo molto di noi. Per questo vi diciamo altri nomi.»
«Ma non ha senso. E' soltanto un nome.»
«Appunto, principessa. Solo un nome. Per lo meno per noi. Ma per voi? No, per voi è tutto. Quando vi presentate a una persona dovete sapere a che famiglia appartiene, a quale gruppo consolidarla. E' un atteggiamento che non ho mai compreso.»
«Eppure tu sei il primo a sfruttarlo» ribatto, e stavolta, quando lo faccia, c'è rabbia nella mia voce. «Non è forse per questo motivo se odi me e i miei fratelli? Perché siamo dei King?»
Un guizzo di vergogna attraversa i suoi occhi. Ho fatto centro, e ne vado fiera. Prendo un grosso respiro, prima di stringere con più forza le mani in due pugni serrati. «Ti sarei davvero grata se la smettessi per una buona volta di trattare me e in generale la mia famiglia in questo modo. Te lo ripeto ancora: tu non ci conosci, non hai idea di quello che abbiamo passato.»
«Potrei dire la stessa cosa a te, Anja.»
«Io non ho distrutto il tuo armadietto.»
«Era solo uno stupido armadietto.»
«Pensi che mi importi di quello?» la mia voce ora è stridula. «Dell'armadietto? Pensi che sia questo che mi interessi? Non ti sei neanche domandato, per una volta, di che effetto hanno fatto su di me le parole che ci hai scritto sopra? E' colpa tua! Hai scritto "è colpa tua"!» Non volevo arrivare a gridare fino a questo punto, ma è più forte di me, non riesco a fermare l'onda della disperazione. «Tu non hai la più pallida idea di cosa...»
«Non sono affari miei» mi blocca lui, e il suo sguardo è gelido, freddo, crudele. E' uno sguardo che spezza, che distrugge. Posa la maglia sopra lo stendino e si sgranchisce le dita. «Non mi è mai interessato, principessa, e mai mi interesserà.»
«Tu sei così...»
«Crudele?» suggerisce lui, con voce divertita. «Sì, esatto, Anja. Lo sono. Sono crudele. Sono stronzo. Non mi importa. Non mi interessa. Quei mille dollari mi servivano per pagare le cure mediche di papà. Se tornassi indietro lo rifarei. Lo rifarei sempre, principessa. Perciò puoi prendertela con me quanto vuoi, puoi usare tutti gli insulti altolocati che conosci, ma non mi scuserò per quello che ho fatto.»
Lo odio. Lo odio davvero. Odio la sicurezza che sento nella sua voce, odio il modo imperterrito con cui va avanti, senza mai guardarsi indietro. Odio la decisione che leggo nei suoi occhi, la certezza che colgo nelle sue parole. Non ha nulla di cui pentirsi, nulla di cui amareggiarsi. Mentre io sono immobile, a biasimare me stessa e il mondo per cose che non avrei potuto sapere e cose che non avrei potuto fare.
E' orribile.
E non glielo permetterò. Non gli permetterò di stasene così tranquillo. Non gli permetterò di non avere sensi di colpa. Lui ha iniziato quell'orrore, lui ha dato il via all'incubo. E lui ora ne prenderà atto, che lo voglia o meno.
E non importa se questo mi renderà una persona crudele. Ne andrò fiera. Finirò per bruciare all'inferno.
Ma ne varrà la pena.
«Ehi» lo richiamo, mentre torniamo a dirigerci verso le roulotte «sai almeno chi ti ha ingaggiato per distruggermi l'armadietto e scrivere quella frase?»
«Onestamente non mi interessa.»
Mi muovo in fretta. Veloce, più veloce. Il mio corpo si ritrova davanti al suo, che si blocca. I suoi occhi azzurri mi impediscono di muovermi. Inspiro a fondo. «La ragazza che ti ha ingaggiato si chiama Avery. E ha provato ad uccidermi.»
Nessuna reazione apparente, ma ho visto il lampo di luce che ha attraversato il suo sguardo. La soddisfazione dilaga in me, sento la rabbia strabordare. «Ha preso un taglierino e me lo ha puntato in gola, e mi ha gridato contro e mi ha maledetta. E sai che fine ha fatto, adesso? E' ricoverata in una clinica psichiatrica e passerà lì Dio solo sa quanti anni prima di ritornare alla società come se nulla fosse successo.»
Jack non risponde, ma non importa, non mi aspettavo lo facesse. Sono solo felice di averlo fatto star male. Sono felice di averlo fatto sentire in colpa.
Sono una persona orribile, non è così?
«Principessa...»
«Sì, esatto, Jack Valentine. Una principessa. Ecco cosa sono.» Mi stringo nelle spalle e una risata amara fuoriesce dalla mia gola. «Sono debole. Sono inutile. Devo essere sempre salvata. Sono la donzella in difficoltà che ha continuamente bisogno del suo prode guerriero che la aiuti. Ecco cosa sono. E non ne vado fiera. Perciò sì, Jack, hai ragione. Sono solo una stupida principessa. Ma sono stanca.» La debolezza che fuoriesce dalla mia gola è inaspettata. «Non voglio più essere Cenerentola, e non voglio più aspettare una scarpina di cristallo. Perciò, come hai detto anche tu, insultami quanto ti pare, e guardami dall'alto in basso quanto ti pare. Ma se io sono colpevole, lo sei anche tu. Solo perché tu sei uno zingaro e io una gagia non significa che tu sia superiore a me. Solo perché tu avevi la necessità di quei soldi non significa che avresti dovuto distruggere il mio armadietto. Il fine non giustifica i mezzi.»
«Non penso che tu possa capire, King, di quello che significhi dover vivere costantemente con l'ansia di non arrivare a fine mese.»
«Non penso che tu possa capire, Valentine, di quello che significhi perdere tutto quello che amavi in un solo, singolo istante.» Arretro di un passo, la mia voce è ferita quasi quanto la mia anima. Mi passo una mano sul volto sudato e sospiro. «Non potresti mai capire.»
«Ma certo, principessa, perché Roy era così poco imporante...»
«Pensi di esser l'unico che ha perso un amico, Valentine?» un'altra risata amara, un'altra cicatrice. All'improvviso, nonostante questa calura estiva che ha avvolto la città da quando è tramontato il sole, sento freddo. Mi stringo le braccia, le accarezzo, le strofino con le mani, ma i brividi non scompaiono. Non se ne andranno mai. Mai. «A volte invidio davvero la tua superficialità...»
«Superficialità? Per davvero, Prudence? Mi stai dando del superficiale?»
«Allora smettila di guardarmi come se fossi solo una principessa.» Gli batto un pugno sul petto. Il colpo non ha l'effetto sperato, non gli fa nemmeno il solletico. Ma poco importa. Non era quello a cui puntavo. Quando sollevo lo sguardo, i suoi occhi inchiodano i miei, o forse i miei inchiodano i suoi. Non lo so, non lo so davvero. «Preparati, Jack Valentine. Ti dimostrerò che non sarò mai più Cenerentola. Ti farò vedere di che pasta sono fatta. E quando lo farò, tu ti inginocchierai ai miei piedi e mi chiederai umilimente perdono.»
Un sorriso malizioso inarca le sue labbra. «Ti piacerebbe, non è così?»
Vorrei tremare, ma non posso. Vorrei piangere, ma non ne sono capace. Il fuoco mi sta divorando, e mi piace. Questo fuoco è il fuoco della disperazione e della distruzione. E' il fuoco che mi aiuterà a reggermi in piedi. Ancora per un po'. Ancora. Ancora. Ancora.
«Io non sono forte come Sasha. Non so picchiare e non so rispondere alle persone come vorrei. Non sono come Bill, che usa lo scherzo per non pensare al dolore. Non sono come Aaron, che affronta ogni ostacolo a testa alta e con fierezza. E non sono nemmeno come Pamela, che sarebbe disposta a sacrificarsi nei modi peggiori per proteggere chi ama» ammetto alla fine con amarezza. «Ma non sarò più una principessa. E non sarò mai più una ragazzina che avrà bisogno di esser salvata. Tieniti forte, Valentine.» Deglutisco con forza, prima di riprendere a parlare: «Questa principessa che non è più una principessa sconvolgerà tutto il tuo mondo.»
***
«Guarda, Sophia, la schiuma, la schiuma! Aspetta, te ne metto un po' in testa! Oh, che bella che sei, sembri una regina, Sophia!»
Non ho ancora la più pallida idea di come Lala e Jasmine siano riuscite a convincermi di farmi il bagno insieme a questa bambina iperattiva. La vasca che hanno riempito di acqua bollente non è altro che una grossa e gigantesca ciotola quadrata di legno dentro la roulotte di Lala, e Jasmine sta sguazzando nell'acqua con allegria.
Papillon, ai piedi della vasca, è accucciato dormiente mentre Lala sta versando sui miei capelli quello che immagino sia shampoo fatto in casa. Ha uno strano odore, di medicinali e erbe, e quando strofina con vigore sulla mia testa sento un leggero bruciore diffondersi nella ricrescita cutanea. «Rilassati, Anja» mi rassicura con un sorriso, mentre mi massaggia il capo. «Hai lavorato sodo, meriti un po' di riposo.»
Ha ragione, credo che nelle ultime dodici ore ho lavorato più di quanto avessi mai fatto nel corso della mia vita. Stare dietro a Jack è stato quasi impossibile, per non parlare di come a stento sono riuscita a gestire tutte le persone che tentavano di intrattenere una conversazione. Abbiamo lavorato, cenato, e siamo rimasti a discutere, cantare e ballare fino alle quattro della notte. E ora più che mai sono distrutta, sia fisicamente psicologicamente. Accettare la proposta di Lala di rimanere lì a dormire è stato più facile che mai, e farlo a quella di farmi il bagno insieme alla bambina ancor di più.
«Jasmine, tesoro, esci dalla vasca e fatti aiutare da tua madre.»
La piccola di casa non se lo fa ripetere due volte, ma prima di uscire dalla vasca come la nonna le ha ordinato, si sporge verso di me per darmi un bacio bagnato e pieno di schiuma sulla guancia. «Ci vediamo fra poco, Anja, ciao anche a te, Papi!»
Quando la porta della roulotte si richiude, il silenzio prima occupato dal chiacchiericcio di quella bambina torna a invadere il piccolo abitacolo del veicolo da trasporto. Gli unici rumori che si percepiscono nell'aria sono quelli del ronfare di Papillon e quelli delle dita di Lala che lavano e puliscono. «Posso farlo da sola, se...»
«Non ti preoccupare, Anja, non mi sto stancando.»
Non so come sia riuscita a comprendere i miei pensieri prima ancora che li esprimessi ad alta voce, il sospetto che sia in realtà una strega sembra venir confermato di giorno in giorno. Lala ridacchia, una risata roca e anziana che sembra magica, e io chiudo delicatamente gli occhi, mentre le sue mani accarezzano il mio capo. Non con delicatezza o eleganza, ma con il vigore di una donna che sa quello che fa e sa quello che può migliorare.
Il calore si diffonde nel mio corpo, e non è dovuto solo alla temperatura dell'acqua bollente. Osservo la schiuma che copre la mia pelle nuda, le pareti piene di foto e di teloni dalla fantasia antica e quasi indigina, il pavimento sporco e usurato, i materassi singoli accatastati accanto alla vasca, verso la fine della roulotte, e l'altro lato del veicolo, dove si possono trovare una piccola cucina e quella che sembra una zona di riposo, con tanto di scrivania piena di trucchi, specchio per guardarsi seggiola dove potersi agghindare.
«Sono molto felice di vedere che sei ritornata» la voce di Lala interrompe il mio momento di osservazione. Lancio un grido quando con la spugna strizza acqua gelida sopra i miei capelli per mandare via la schiuma. «Sapevo che lo avresti fatto.»
«A dire il vero... non era mia intenzione» sono costretta ad ammettere. «L'ira di Jack mi ha portato più volte a ripensarci.»
Lala sbuffa e butta altra acqua sui miei capelli, per poi strizzarli per bene dentro la vasca come se fosse un panno da lavare. «Non dare retta a mio nipote, Anja, è molto confuso in questo periodo. Non sa come comportarsi. Ha perso la strada. Proprio come te.» Le sue mani raggrinzite dall'acqua e dalla vecchiaia si posano sulle mie spalle. «Puoi dormire insieme a Kostana e Jasmine, sono sicura che ne sarebbero entusiaste. Ma per ora esci dalla vasca, devi vestirti e asciugarti. Ti ho lasciato i tuoi vestiti qua su questa sedia, vicino alla vasca, insieme a degli asciugamani.»
Quando si volta per andare a prendere qualcosa dalla cucina, io esco dalla vasca, nuda come un verme. Dovrei sentirmi imbarazzata, ma per qualche ragione il mio corpo si muove con naturalezza in questo contesto bizzarro e particolare in cui mai avrei pensato di ritrovarmi. Afferro il grosso asciugamano rosso posato sulla sedia e lo uso per tamponarmi il corpo, per assorbirne l'acqua. «Non... non mi era mai successo.» Le parole sfuggono dalle mie labbra prima che possa fermarle, mentre mi infilo i vestiti.
Lala si ferma, di fronte al piccolo specchio attorno a cui sono state appese migliaia di fotografie in bianco in nero. La sua mano sinistre stringe una spazzola mal ridotta che sembra sul punto di crollare da un momento all'altro, i suoi occhi azzurri, freddi come quelli del nipote, mi bloccano sul posto, mi immobilizzano su questo pavimento pieno di polvere e di vestiti, con addosso solo un abbigliamento che prima ritenevo ricco, e che ora mi sembra incredibilmente spoglio, inutile, vuoto.
«Che cosa, Anja?»
La dolcezza nella sua voce è quasi dolorosa, una coltellata al petto che mi fa sanguinare dentro. Respiro a fatica. Respiro come se non lo facessi da secoli. E forse è veramente così. Il vuoto che fino ad oggi avevo ignorato e finto di non vedere si è fatto più grande che mai, e la costante presenza di questa famiglia che si ama ed è rimasta unita non fa altro che ricordarmi quel che ho perso e quel che non ho mai avuto. Amore familiare, carezze materne, abbracci paterni, momenti di unità.
«Nessuno mi aveva mai lavato i capelli, prima d'ora» le parole graffiano la mia gola come schegge di vetro, la stringo fra le dita, tremante. Non riesco a guardarla negli occhi, non riesco ad accogliere il giudizio che leggerò nel suo sguardo. «A dire il vero... non avevo mai mangiato con così tante persone, prima d'ora, o scherzato con loro, o riso con loro...» Siamo sempre stati solo io e i miei fratelli. Noi tre, uniti nella morte e nella vita, nel dolore e nelle gioie. Ma, anche così, non bastava. Non è mai bastato. Il nostro amore fraterno non è mai riuscito a compensare l'assenza di genitori che poco avevano a che fare con l'essere genitori.
«Non te ne devi vergognare, Anja. Ognuno nasce e cresce in un contesto diverso. Ora siediti qui, devo spazzolarti i capelli.»
E' incredibile come la sua voce riesca a incantarmi, è come se parlasse direttamente con la piccola bambina disperata che ho sempre cercato di smettere di essere, come se le stesse promettendo quella compagnia e quell'affetto che aveva sempre desiderato. I miei piedi si muovono da soli, diretti verso la sedia che si affaccia allo specchio, e quando mi metto comoda sopra di essa, Papillon mi segue, reduce dal sonno, e si accomoda con calma sopra i miei piedi, sdraiandovisi sopra come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Il suo silenzio mi inquieta, non è mai stato così tranquillo, prima d'ora. La presenza di Lala è per lui un vero è proprio calmante, una droga che gli permette di fare a meno del suo brutto carattere e della sua vena sadica che lo ha portato più volte a distruggere la mia lingerie e il corredo del mio letto.
Lala è dietro di me, riesco a vedere la sua figura alle mie spalle attraverso lo specchio: il suo corpo basso e un po' tarchiato, il suo vestito rosso a pois che strascica per terra, e le sue mani che avvolgono ciocche dei miei capelli, toccandole come se fossero piccoli fili d'oro che deve maneggiare con cura per non spezzare per sempre. «Hai dei capelli bellissimi, Anja» mi sussurra, mentre inizia a spazzolarli con calma. «Sono come il sole che splende a mezzogiorno: ti illuminano con la loro bellezza.»
Non riesco a reprimere l'istinto di stringere le mani in due pugni, sopra le ginocchia. Non ce la faccio. Perché questa bellezza, questa lucentezza che mi caratterizza è stata la causa principale di tutto. E' il crimine che ho commesso, il peccato che involontariamente ho realizzato. Il biondo chiaro di questi capelli, la loro morbida struttura riccia, è solo uno dei tanti motivi per cui per tutta la vita mi sono comporata come la Cenerentola che non meritavo di essere.
Se solo avessi fatto qualcosa, se solo non fossi...
«Non lo fare.»
Sussulto, le mie spalle tremano, la spazzola si ferma per un istante, e attraverso il riflesso gli occhi di Lala mi inchiodano. «Non pensare a queste cose, Anja. Accetta sempre i complimenti. Accetta quello che sei. Odiare la tua natura è un po' come odiare un neonato che piange: non importa quanto lo detesterai, continuerà a farlo. E tu continuerai ad essere quello che sei.»
«Tu mi spaventi, Lala...» sussurro a fatica, tremando quasi quanto la mia voce. «E' come se potessi leggermi nella mente.»
Lala sghignazza divertita, quasi orgogliosa del mio commento, che deve aver interpretato a suo modo come un complimento. Le sue dita si muovono fra i miei capelli come una macchina per cucire che intesse il suo nuovo vestito. Sono delicate, dolci, calme, ferme. Sono mani che non ho mai conosciuto, mani che non hanno mai sfiorato il mio corpo, prima d'ora, che non lo avevano mai toccato in questo modo: con innocenza, con purezza. «I tuoi genitori non ti hanno mai lavato i capelli, prima d'ora?»
«No, mai. A dire il vero, li ho visti talmente poche volte che a stento mi ricordo i loro volti.» Dirlo è facile, è una verità che ho accettato da molto tempo, anche se con fatica. Perché, in fondo, mamma e papà sono sempre stati così. Non si sono mai amati, probabilmente, e ci hanno fatto nascere solo per proseguire la grandezza della loro famiglia. Ma non sono mai stati presenti nelle nostre vite, per un motivo o per l'altro. Il lavoro, i soldi, l'ufficio, le campagne pubblicitarie e le aste di benificenza sono venute sempre prima rispetto ai loro figli.
«E' una cosa che non ho mai compreso di voi gagi, sempre così attaccati alla materia, mai alla famiglia. Eppure è una delle cose più importanti al mondo, è quello che ci permette di crescere, vivere, e determinare quello che siamo.» Il rumore della spazzola ora si è fatto più lento, più ritmato. «Ma tu non sei stata sola, non è così, Anja?»
«No» stavolta, quando sorrido, sono sincera. «Ho avuto la fortuna di avere dei fratelli meravigliosi. Aaron e Bill non sono dei santi, è vero, ma averli al mio fianco è stata una benedizione.»
Se non ci fossero stati loro, molto probabilmente non ce l'avrei fatta. Dopo la morte di Andrew in particolar modo. Aaron e Bill sono state le due colonne portanti della mia salvezza, in quel periodo. E anche se non potevano comprendere la mia sofferenza, potevano in parte capirne il dolore.
Ricordo i mesi dopo quel giorno fatidico come un terribile, infernale e infinito incubo, scandito da momenti di totale incapacità di intendere e di volere e altri di completo e assoluto crollo mentale. Ma c'erano degli attimi, piccoli istanti sporadici, dove il mio corpo veniva strappato dalle morse gelide della morte grazie alle parole e alle braccia dei miei due fratelli, che mi riportavano ogni volta in superficie, impedendomi di affogare nel profondo oceano della disperazione.
«Anche loro sono stati molto fortunati ad avere te, Anja» Lala sorride a occhi chiusi. «Al mondo esistono centinaia di famiglie, l'una più diversa dell'altra. Ma, in fondo, tutte hanno in comune solo una cosa, ed è l'amore. E tu lo hai conosciuto, Anja, molto bene.» Ora le sue labbra sono più arcuate, più dolci, più tenere. Un'altra fitta attraversa il mio cuore.
«Mi piace molto spazzolarti i capelli, cara. Mio marito Paul lo faceva sempre, con me, mi diceva che era un ottimo modo per poter tornare a respirare. Credo di aver finalmente capito cosa intendesse dire con quelle parole.» Lala posa la spazzola sulla scrivania in legno di fronte a noi e raccoglie i miei capelli umidi in una sola ciocca: «Anja, cara, mi passeresti quell'elastico? Brava, proprio quello lì, sì, è perfetto. Ecco qua.» Lo afferra con disinvoltura, stringendolo fra le dita e muovendolo per aprirlo.
Le sue mani si muovono ancora, racchiudono i miei capelli in un'unica coda scomposta su cui inizia a lavorare con diligenza e attenzione, e mentre lo fa, i miei occhi cadono sul mio polso sinistro, dove un piccolo elastico, pieno di ponpom, mi sta salutando, mi sta ricordando come io sto ricordando lui.
Il respiro mi si spezza in gola, il cuore smette di battere, non sento nemmeno quello che mi dice, non mi accorgo nemmeno di quello che sta facendo, ma quando rialzo lo sguardo e incontro il suo volto affacciato accanto al mio, le sue parole sono come coltellate alle spalle. Gli occhi di Lala sono pieni di compassione, pieni di dolce amore.
«Devi lasciarlo andare, Anja.»
Sbatto le palpebre, gli occhi stanno tornando a bruciare. Non posso nascondermi, non posso negarlo, non riesco a mentire, non riesco a ripetere la bugia che mi dico sempre in testa di fronte al suo sguardo così sincero e vero. E' come se stesse strappando tutto, ogni cosa: falsità, menzogne, rimpianti, peccati. Sta guardando ovunque, sta ispezionando ogni memoria, e non riesco a fermarla, non riesco a impedirglielo.
«C-Come?»
Lala posa le sue mani sulle mie spalle, la sua stretta è tiepida e consolatoria, e quando le lacrime sgorgano involontariamente sulle mie guance, lei le asciuga con i suoi pollici. E io non riesco a fermarle, non riesco nemmeno a controllarle. Non voglio farlo neanche. Stanno scivolando e basta, rigano i miei zigomi, condannano la condanna, peccano il peccato, ripudiano il ripudiato. E Lala sussurra, e parla, e sussurra ancora, e mi dice:
«Devi lasciarlo andare, Anja.»
Papillon rizza le orecchie e alza il capo, i suoi latrati risuonano attutiti nelle mie orecchie, i suoi graffi sulle mie gambe sono a stento percepibili. Per cosa sta abbaiando? Per egoismo? Per preoccupazione? Ha paura per me? Ha paura per qualcosa? E io? Di cosa ho paura? Per cosa tremo? Per cosa piango?
Per chi mi uccido?
«Devi farlo, bambina mia. Non può riposare, se tu non lo lasci andare. Fai un passo indietro, scuci questo intreccio di dita, non stringere più la sua mano. Permettigli di riposare, Anja, permettigli di ritornare alla Terra e ottenere la pace che si merita. Lo stai trattenendo, bambina mia, è qui con te e sta soffrendo con te, per te.» Sistema una ciocca di capelli che era sfuggita dalla coda e caduta di fronte ai miei occhi, posandola dietro l'orecchio sinistro. La sua mano scivola sul mio braccio e sfira un ponpon rosa dell'elastico che Andrew mi regalò prima di morire.
«Lui non più tornare, bambina. E questa vita che gli stai dando non è una vita. Sta soffrendo quanto te, Anja. Devi sorridergli e dirgli addio, mi hai capito? I morti riposano, bambina, i vivi soffrono. E' così che funziona, ed è così che funzionera sempre. Ma se lo ami, se veramente lo ami, allora devi permettergli di ottenere quella pace che non ha avuto prima.»
Tremo. Ovunque. Comunque. Per sempre.
Tremo. Piango. Soffro. Piango. Tremo. Soffro.
«Devi lasciarlo andare, Anja. Ha già dato il suo ultimo regalo, non ce ne saranno altri.»
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