La principessa e i due nanerottoli ladruncoli
Capitolo Due
"La principessa e i due nanerottoli ladruncoli"
Beystick Locks, una città a settecento chilometri da San Francisco, in California, conosciuta ai più per la famigerata università privata da cui grandi personalità di eccellenza come mio padre si sono diplomati e hanno preso il volo verso il mondo della gloria e della ricchezza. A un'ora e mezza di macchina da Williamstone - il vecchio paese in cui abitavo - Beystick si è mostrata ai miei occhi come un piccolo diamante in mezzo al carbone.
Non è un paese sofisticato come Williamstone, dove la differenza di classe sociale è palese a seconda dei quartieri in cui incappi, ma nemmeno troppo paesaggistico da sembrare una zona di campagna rurale. I grattacieli e le villette a schiera si alternano fra di loro in un vedo-non vedo che rende la prospettiva del posto molto più omogenea e piacevole. Persino il mio appartamento - un trilocale al quindicesimo piano del Seventeens Main, uno degli edifici di mio padre, fra i più costosi in assoluto - si trova in una zona ubicata fra case di quartiere vissute da famiglie piene di pargoletti e uffici di alta classe frequentati unicamente da avvocati di successo e giudici. Sono a mio agio, in questo posto, molto più a mio agio di quanto mi sarei aspettata. Quando esco di casa posso contare sul saluto dei dirimpettai, i coniugi Polton con i loro cinque figli, e di alcuni cenni del capo da parte di uomini in giacca e cravatta già pronti a correre a lavoro.
Ma una volta entrata in casa... be', lì la situazione cambia. La situazione si trasforma.
Quando entro in casa non c'è nessuno ad accogliermi se non Papillon, un barboncino dal pelo bianco immacolato e i latrati facili, fin troppo facili. Sono passati ormai quattro mesi da quando quella sera, in un momento di totale sconforto e solitudine profonda, ho deciso di avere la necessità impellente di una compagnia diversa dalle solite. Una compagnia che mi potesse far sentire a mio agio una volta tornata in questo appartamento tanto oscuro e tenebroso quanto luminoso e sofisticato. La mia decisione di prendere l'unico barboncino al mondo che invece di scodinzolarti felice ogni volta che ritorni a casa ti abbaia e attacca i suoi denti alla tua caviglia mostra chiaramente che in quel momento non ero nel possesso delle mie facoltà mentali di intendere e di volere.
E' tanto insolente quanto stronzo.
Avrei dovuto chiamarlo Sasha, altro che Papillon.
Ma per lo meno questa bestia di Satana, come lo chiama la mia amica (e non a torto), mi tiene compagnia. Non che possa lamentarmi visto e considerato che è stata una mia scelta quella di andare a vivere da sola, nonostante le proteste di Aaron e Bill. Ma, siamo sinceri, Bill è un donnaiolo, è finito alla Columbia University per poter proseguire la sua carriera di football, e seguirlo non mi sembrava una buona idea. Per quanto riguarda Aaron... benché adori mio fratello e sappia che farebbe di tutto pur di rendermi felice, lui ora ha la sua vita. Con Sasha. Lei è la sua nuova famiglia. E Dio, prego ogni giorni affinché lo resti anche in futuro. Ma non ce la facevo ad accettare la sua proposta, mi sono immaginata me stessa a trent'anni che viveva ancora insieme a loro, come un peso che avrebbero dovuto trascinarsi dietro per l'eternità.
E non voglio questo, non voglio essere più un peso per nessuno, se non per me stessa.
E poi comunque non ci tengo proprio a rimanere nel loro stesso appartamento quando fanno sesso.
Brr.
Sono consapevole di star preoccupando la mia famiglia: Bill mi chiama ogni mattina, Aaron trova ogni scusa possibile per controllare la mia situazione, e probabilmente Sasha gli impedisce di farlo tutte le volte che vorrebbe, magari litigandoci o sfoderando, come dice lei, il magico potere della vagina. Anche Pamela è preoccupata, anche lei ha paura che possa provare vergogna, sensi di colpa, e tutto questo non fa altro che peggiorare la situazione.
Perché loro sanno.
Loro sanno la verità.
La verità è che io ho sbagliato.
La verità è che io sono stata debole.
La verità è che se a quel tempo non fossi stata una principessa, ora Andrew sarebbe qui.
<<Basta così, Papillon!>> esclamo disperata. Papillon rimbalza dal divano in pelle bianca con il cuscino fra le zanne, pronto a sbranarselo come merenda. Ringhia e strilla e dichiara guerra al mondo dei sofà strappandogli via il loro piccoletto. <<Smettila! Non ti sta facendo nulla quel maledetto cuscino!>>
Ovviamente il bastardo non mi ascolta. Arrogante, stronzo e pure anarchico.
Cielo, avrei dovuto seriamente chiamarlo Sasha.
Lui si posiziona in attacco non appena mi avvicino, sfoderando tutti i suoi denti e tremando come se un fulmine lo avesse appena colpito. Mi ringhia contro, mi odia, mi urla parole che tanto non potrei comprendere, e io lo guardo immobile, in piedi di fronte a lui, con le braccia serrate di fronte al petto. <<Hai intenzione di comportarti così a lungo? Sembri un bambino.>>
In risposta, abbaia. <<Molto maturo da parte tua, Papillon!>> lo sgrido irritata. Mi muovo lentamente verso il frigo e tiro fuori la lattina di cibo per cani il cui contenuto quell'arrogante tanto adora. Non appena i suoi occhi scuri si soffermano su ciò che sta stringendo la mia mano il suo corpo si rilassa e, quasi sculettando, si avvicina a me, vanitoso, provocatorio e diabolico. La sua coda rotea come l'elica di un elicottero e l'irritazione sale in me sempre di più.
E va bene, mi piace questa cosa, mi piace questa distrazione. Paradossalmente, avere la presenza di un cane stronzo al mio fianco allevia il mio dolore più di quanto non avrebbe fatto l'accudire un cucciolo di labrador dolce e ingenuo. Perciò, da brava vigliacca quale sono, lascio che questi sentimenti affluiscano come un fiume in piena, lascio che nascondino la verità, l'orribile consapevolezza che si annida nel profondo, lontano, in un luogo che conosco fin troppo bene.
Quando vado a dormire, due ore più tardi, Papillon si sdraia accanto a me, sotto le lenzuola, giusto per ricordarmi che è viziato quasi quanto me. E io mi metto comoda sul materasso di questo letto a baldacchino che tutto è tranne che confortante, tranne che caldo. E quando chiudo gli occhi e inspiro a fondo, non sento nessun profumo, non sento nessun odore. Non c'è più quella sensazione di respirare l'aria pulita, di avere quel calore umano percepibile attorno.
Quando ci sdraiavamo assieme, dopo aver fatto l'amore, Andrew mi stringeva di lato mentre dormivo, le sue braccia mi circondavano da dietro e le sue labbra mi baciavano lungo la spalla nuda. Il suo respiro mi faceva rabbrividire ogni volta. E quando chiudevo gli occhi, potevo sentirlo, sentivo il suo calore e il battito del suo cuore, sentivo le sue dita che mi accarezzavano con delicatezza per agevolare il mio sonno, e sentivo il peso del suo corpo accanto al mio, il suo sguardo che mi sfiorava come una carezza che mai avrei ricevuto di nuovo. Sentivo il suo profumo di sapone e menta, quel fresco odore che alleviava i miei sensi e mi aiutava a sprofondare fra le braccia di Morfeo.
Ma ora, in questo momento, sotto queste coperte, non c'è nessuno che mi stringe a sé. Non c'è nessuna mano che mi tocca, nessuno sguardo che mi carezza, nessun bacio sulla spalla. Non c'è niente di tutto ciò.
E quel profumo se n'è andato per sempre.
***
<<Sono sorprese, questa paziente non riceve molte visite, solo un'altra ragazza viene qui a trovarla ogni giovedì, se n'è andata poco fa, credo che abbiate più o meno la stessa età.>>
Camminiamo lungo lo stretto corridoio dai toni sempre più bianchi, sempre più innocenti, sempre più folli. L'odore di disinfettante si intensifica e annebbia i miei sensi, il sangue pulsa sempre più velocemente nelle tempie, non riesco a ragionare bene, sto cercando di contenere la rabbia, l'odio, la disperazione, e i pensieri si accavallano uno sopra l'altro, impedendomi di percepirli singolarmente. Alla fine, quando riesco a contenere l'oscurità che si sta aggrappando al mio corpo, torno a ripensare al passato, a quell'altro passato, a quella parte che non conteneva solo la morte di Andrew, e a quelle persone che ogni tanto notavo mentre non riflettevo su quello che mi stava accadendo intorno. <<Emily Elaister>> sussurro.
<<Oh, vedo che la conosce>> l'infermiera mi sorride e si ferma sulla soglia di una porta a vetri, oltre cui si staglia un grosso salone pieno di persone sedute attorno a tavolini, alcune leggono un giornale, altre parlano fra di loro, altre ancora giocano a scacchi e le restanti restano in silenzio a osservare il mondo oltre le finestre.
Così è questo l'Herbrown Medical Center, il posto in cui vengono mandate le persone che hanno fatto del male per colpa del male che hanno nella loro testa.
La vedo ancor prima di entrare, la riconoscerei ovunque, il suo volto mi perseguiterà per il resto dei miei giorni. Lo vedo ovunque, lo vedo la mattina, quando mi sveglio, lo vedo in mezzo alle strade, lo vedo durante i miei incubi. E' il volto della persona che mi ha portato via tutto, il volto di colei che ha distrutto ogni cosa, favole e sogni. E lei? Lei non si è resa conto di me, lei non mi vede neanche quando entro nella sala, nonostante tutti gli altri pazienti della clinica si siano voltati per guardarmi. I suoi occhi - gli ultimi occhi che Andrew ha visto prima di morire - sono rivolti unicamente alle sue mani, alle sue dita che si muovono piegando e piegando ancora un foglio rosso.
Avery.
<<Ha preso da poco le sue medicine>> mi informa la signora, a metà strada <<perciò sarà un po' intontita.>>
E poi se ne va, lasciandomi da sola, in mezzo a questa gente che ha sofferto e che ha fatto soffrire, con delle guardie di sicurezza appostate lungo le pareti per controllare ogni loro singola mossa.
Deglutisco.
Deglutisco ancora.
Sto sentendo freddo, nonostante il cappotto invernale mi copra ovunque, nonostante faccia caldo, qua. Ma il gelo mi sta paralizzando sul posto, e trovare la forza di mettere un piede di fronte all'altro è come strapparsi il cuore a mani nude. Mi siedo sulla poltrona in pelle di fronte a lei, divisa dalla sua presenza solo da questo tavolino quadrato riempito da pile di fogli dai colori più svariati - giallo, blu, azzurro, verde chiaro, verde scuro... - e aspetto.
Aspetto.
Aspetto.
Ma lei non mi sente, non mi sente proprio.
Non mi vede neanche.
Ha il volto pallido, i capelli castani le sono cresciuti e raggiungono la schiena, sono pettinati e legati in una treccia fatta male, indossa la sua divisa da internata, una tuta bianca monocromatica che esalta ancor di più il pallore del suo viso e la magrezza del suo corpo. Sta giocando con la carta, la modella a suo piacimento, e poi, alla fine, la utilizza per realizzare un piccolo colibrì rosso fuoco.
Quando lo posa sul ripiano del tavolo, i suoi occhi nocciola finalmente si posano su di me. Il loro taglio ovale e aperto è esaltato ancor di più visto tutti i chili persi, le sue labbra a cuore sono screpolate, la pelle del suo viso è piena di graffi che deve essersi procurata da sola, e quando mi guarda non sobbalza, non dice nulla, non parla, non è spaventata o umiliata o sorpresa.
Accavallo le gambe, pronta. Sono pronta. Per questa battaglia. Per questo mondo. Per questa vita.
<<Cosa vuoi?>>
La sua voce è arida come il deserto, tagliente come la lama di un coltello, mi guarda e Dio, come vorrei ferirla, in questo momento, come vorrei farle del male. <<Parlare con te.>>
<<Ah-ah>> mormora lei, ironica. Le sue dita sottili prendono un altro foglio - giallo - e tornano a piegarlo. <<Sei qui per uccidermi?>>
<<Non posso farlo.>>
<<Ma lo vorresti, non è così?>> Rotea gli occhi al cielo con un movimento della testa, e quando lo fa il colletto della camicia non può più nascondere la grossa cicatrice orizzontale che taglia la sua pelle, da un lato all'altro del collo. La cicatrice che avrebbe dovuto portarla alla morte. La cicatrice con cui... <<Scommetto che stai pensando che avrei dovuto morire, quel giorno.>>
Trasalisco, le sue labbra si piegano in un leggerissimo sorriso, gli occhi tornano a rivolgersi in basso, verso le sue mani che piegano la carta con fare professionale. <<Sei venuta qui per dirmi questo? Per dirmi che dovrei morire?>>
<<No.>>
<<Bugiarda.>>
Stringo con forza la mascella, mentre il respiro si fa corto. I polmoni iniziano a lavorare male, vorrebbero scappare, mi supplicano di andarmene da questo posto che puzza di medicinale e disinfettante e pazzia. Ma non posso, non ancora. <<Anche tu sei una bugiarda>> rispondo a fatica. <<Hai mentito sempre, continuamente, per quasi due anni.>>
<<Immagino tu abbia ragione>> ha lo sguardo assente, si muove come se stesse galleggiando nell'acqua. Gli effetti dei medicinali, aveva detto l'infermiera. <<Deve esser stato terribile, per te.>> E poi scoppia a ridere, una risatina nasale che mi fa salire la nausea, il voltastomaco. <<Una principessa fragile e indifesa che non sapeva nemmeno come fosse morto il suo amato principe azzurro.>>
<<Chiudi il becco.>>
<<E quando mi hanno spedita qui invece che in prigione deve esser stato orribile, non è così? Mi ricordo quanto hai pianto dopo la sentenza della giuria...>>
<<Sta' zitta.>>
<<Speravi che finissi in carcere e che mi ammazzassero di botte? Speravi che non si rendessero conto dei miei problemi?>>
<<Tappati quella fogna.>>
Un'altra risatina. Una risatina nasale, inquietante, disumana. La stessa risata che ho sentito quel giorno, quando Sasha ha gridato e all'improvviso mi sono ritrovata un taglierino puntato alla gola. Quella risatina che avrei dovuto odiare, e che invece mi spaventava a morte. Quella risatina che dovrei condannare, e che invece mi fa provare pena. <<Sai che cosa? Il mio psichiatra ha detto che soffro di disturbo... ah, come l'ha chiamato? Disturbo borderline di personalità. Dice che è per questo che ho reagito in quel modo quando...>>
<<Non è stato il tuo disturbo a buttarlo dalla finestra, sei stata tu.>>
Lei chiude le labbra, il suo sguardo si fa più rammaricato non appena capisce, non appena si ricorda. E non voglio questo. Lei non può farlo. Lei non può piangere per lui. Lui non le apparteneva. Lui non era niente per lei. Lei lo ha portato via, lei lo ha lasciato morire. Lei non lo meritava, non lo ha mai meritato. Lei non ha il diritto di piangere per lui. <<Vattene>> dichiara.
<<No.>>
<<Allora ti faccio mandare via io. Sicurezza!>> strilla ad alta voce, alzandosi dalla poltrona. Io lo faccio a mia volta, mentre due uomini alti, rotondi e robusti si avvicinano a noi. <<Non venire mai più qui.>>
<<Verrò ogni giovedì.>>
<<Non ti permetterò più di vedermi.>>
<<Verrò lo stesso. Ogni. Giovedì. Ti tormenterò esattamente come tu hai tormentato me per tutti quegli anni>> ringhio a bassa voce, e prima che uno di quegli uomini possa toccarmi, giro i tacchi e me ne vado.
****
In treno, quando ormai sono vicina alla stazione di Beystick Locks, il mio cellulare squilla per informarmi che Sasha, dall'altra parte, mi sta chiamando. Non appena rispondo, la prima cosa che mi domanda è: <<Com'è andata?>>
E io, a fatica, riesco a trovare le parole per dire: <<Non male.>>
<<Tradotto: uno schifo.>> La sento sospirare. <<Perché diavolo ci sei andata?>>
<<Io...>> mi fermo, non sapendo esattamente come rispondere a una simile domanda.
Un altro sospiro.
<<Sei un'idiota.>>
<<Non voglio sentirmelo dire da te>> mormoro con un respiro profondo.
<<Vero>> ammette lei con una risatina, la sua voce diventa più dolce: <<Vuoi venire a cena da me? Saremo io, te, Stoccafisso e Luke.>>
<<Luke?>> ripeto sorpresa. <<Viene a trovarti?>>
<<Ogni due fine settimana, è il patto che ho stipulato con zio. Una specie di compromesso. Io levo le tende da Williamstone e lui mi assicura di trattare bene il mio uomo preferito.>>
Mi lascio sfuggire un sorriso. Luke, il fratellino di Sasha, è forse la creatura più adorabile mai nata in questo universo. C'è un che di sorprendente al pensiero che lui, così dolce e tenero benché nato con la sindrome di Down, sia il fratello di una ragazza così testarda e caparbia. Ma, d'altro canto, è proprio su questo che si basa il loro rapporto. Su un'alleanza silenziosa, su un affetto che non ha bisogno di parole, su degli abbracci che possono confortarti ogni volta che li ricevi. <<Adoro tuo fratello, lo sai, ma non sono in vena di compagnia, stasera.>>
Lei sbuffa. L'altoparlante informa noi passeggeri di essere quasi arrivati alla stazione di Beystick Locks e io mi alzo dal mio sedile per raggiungere gli sportelli che fra meno di due minuti inizieranno ad aprirsi. <<Andiamo, sarà divertente, Luke dice che a scuola è riuscito a trovare un amico molto simpatico che lo aiuta a fare i compiti. E poi non vede l'ora di rivederti.>>
<<Anche io, ma passerò domani a salutarlo, ora come ora voglio solo tornarmene a casa e riposare.>> Il treno inizia a rallentare, il paesaggio di fronte a me si fa più lento, più dettagliato, più minuzioso. <<Porterò la cheese-cake ai frutti di bosco di Sweet & Love>> aggiungo a quel punto, sapendo bene quanto Luke adori i dolci di quella pasticceria, forse quasi quanto Pamela.
<<Io voglio un panino al salame.>>
<<Ti vedo tutti i giorni, non vedo il motivo per cui dovrei farti un simile regalo>> controbatto. Finalmente gli sportelli si aprono e io scendo lentamente dal vagone, con il telefono nella mano destra e la pochette di Gucci con motivo floreale in quella sinistra. Mi guardo attorno, il cielo ha iniziato a ingrigirsi e coltri di nuvole scure per niente convincenti lo stanno riempendo, inizio a incamminarmi verso la strada, al parcheggio dove ho lasciato la macchina, e alle mie spalle avverto il suono di alcune risate infantili.
<<Perché ti voglio bene e perché ho voglia di panino al salame.>>
<<Questa sì che è una bella motivazione>> la prendo in giro. Le risate alle mie spalle continuano, e quando mi volto scorgo le figure di due piccoli marmocchi che si rincorrono, sul marciapiede. Un bambino dalla pelle scura e i tratti somatici orientali che sfotte una bambina dalla pelle più chiara e i capelli castani. Entrambi indossano degli abiti smessi e slavati, delle scarpe aperte che sembrano aver avuto giorni migliori, e ridono. Ridono un sacco. Ridono come non ho mai riso da quando la mia favola è andata in fumo. E mi piacciono queste risate, mi piacciono davvero.
Riprendo a camminare, le risate si fanno più forti.
<<Vedrò cosa posso fare.>>
<<Salame piccante, mi raccomando.>>
Non faccio in tempo a rispondere, i due nanerottoli di prima mi superano a gran voce e a gran velocità, rischiando di farmi perdere l'equilibrio sui tacchi. Ancora, risate. Sempre risate. <<Okay, okay, salame piccante...>> sospirando, con la mano sinistra libera mi sposto la ciocca di capelli che è sfuggita alla mia coda di cavallo ed è finita, drammaticamente, di fronte agli occhi. <<Ma ti avverto che se quando arrivo ti ritrovo con... con...>> Il mio cuore sprofonda nello stomaco.
<<Sophia? Tutto bene? Hai finalmente trovato qualche bel cavallo da montare?>>
La mia mano sinistra non dovrebbe esser libera, la mia mano sinistra dovrebbe stringere la pochette floreale di Gucci che ho comprato a quattrocentosessantasette dollari. La mia pochette. La pochette... oddio. Alzo lo sguardo, mentre il sudore dilaga.
Ed eccoli lì, i nanerottoli che si rincorrono, a pochi metri da me.
E la bambina ha in mano la mia pochette. La stringe come se volesse usarla per giocarci a fresbee col suo cane.
<<Sophia?>>
I due si fermano un secondo per guardarmi, ora più lontani, e quando vedono il mio volto esterrefatto, sudato e sconvolto, mi sorridono e... strizzano l'occhio!
<<Cazzo!>>
<<Sophia!>>
<<Devo andare!>> esclamo, chiudendo la chiamata e infilando il cellulare nella tasca del cappotto. <<Ehi, voi due!>> esclamo, e i bambini sghignazzano. <<Quella pochette è mia!>>
Non rispondono, ridono e basta, e poi, dopo avermi fatto di nuovo l'occhiolino – l'occhiolino! – iniziano a correre come dei pazzi verso Greyburn Lock, il quartiere più periferico della città, famoso per esser popolato quasi del tutto da comunità rom. <<Cristoforo!>> esclamo disperata, un attimo prima di mettermi a inseguirli in modo forsennato. E' un bene che, nonostante non sia allenata come Sasha, abbia cercato di mantenere una vita attiva andando a correre due volte alla settimana. In questo modo riesco più o meno a recuperare la distanza che mi separa dai due nanerottoli. Ma diavolo, sono delle schegge! <<Fermi!>>
Se solo non fosse buio e se solo questo quartiere fosse un po' più popolato a quest'ora qualcuno mi avrebbe aiutato ad acciuffarli, e invece eccomi lì, una deficiente vestita di tutto punto con una pelliccia e delle scarpe col tacco, che inseguiva ragazzini usciti dal film di Oliver Twist.
Per l'amor del cielo, da quando i giovani sono diventati così pestiferi? Quando avevo la loro età non ero riuscita nemmeno a rubare una caramella dal supermercato, nonostante Bill mi avesse sfidato a provarci.
I bambini continuano a ridere. Ma certo, che diavoletti! Sembrano divertirsi un mondo alla vista della sottoscritta che soffre e suda per poterli raggiungere e riottenere la sua bellissima pochette. Forse è un bene che non ci sia nessuno in giro, farmi vedere in simili condizioni sarebbe una sconfitta su tutti i fronti.
La giornata non si è prospettata delle migliori.
Entrambi all'improvviso girano su una piccola stradina creata fra la distanza di due villette in legno che sembrano sul punto di crollare da un momento all'altro. E poi, proprio da quel punto, avverto un grido acuto. Per un attimo prendo in considerazione la possibilità di fermarmi, e tornare indietro (nella pochette c'erano solo degli assorbenti interni e le chiavi della macchina, in fondo), ma il mio corpo ha messo il turbo e ora non c'è più modo di fermarlo.
Quando svolto a mia volta a destra per inoltrarmi in questa stretta stradina, la mia faccia sbatte contro un masso duro e alto. Una colonna? Una statua? Che diavolo ci fa una statua qua?
<<Cazzo!>> impreco, indietreggiando di qualche passo. Il cervello deve aver sbattuto contro la scatola cranica, all'improvviso vedo doppio e sento rumori inquietanti provenire da un luogo lontano e sperduto che non è presente in questo mondo. Potrei giurare di aver appena visto Andrew all'orizzonte sorridermi angelico e porgermi la mano.
Tocco il mio naso dolorante e chino la testa in basso, per terra, sul terriccio sporco e fangoso.
<<Oh-oh!>> sento la voce di una bambina gridare. <<Ha sbattuto la testa!>>
<<L'ha fatto! L'ha sbattuta! Ha sbattuto la testa contro il tuo torace, Guar! Hai visto, Guar? Hai visto?>>
Una voce profonda, baritona e quasi melodiosa risuona nell'aria e cancella quella acuta e irritante dei bambini: <<State zitti, voi due!>> E poi aggiunge altro, parole che non posso comprendere, in una lingua che non conosco e che mai, prima d'ora, ho sentito. Non è francese, non è inglese, e non è nemmeno tedesco, perché se lo fossero avrei capito, e a giudicare da come risuona nell'aria, non è nemmeno cinese o giapponese. E' qualcosa di più... orientale, indiano.
<<Mi spiace molto, signorina>> ora la voce è tornata a parlare inglese, ha un accento comune, familiare, nostalgico. <<I bambini non volevano...>> si interrompe, e all'improvviso il tocco caldo di una mano si posa con delicatezza sul mio capo. <<Posso aiutarla in qualche modo?>>
<<Guar! Guar! Guarda, non si muove?>>
<<Forse è morta?>>
<<Silenzio!>> grida lui, e i bambini ammutoliscono in un istante. Quanto vorrei avere avuto lo stesso potere psicologico su di loro, quando se ne sono scappati via con la mia pochette...
Mi tocco ancora il naso con le dita, sembra sia tutto intero e, soprattutto, sembra che il colpo non gli abbia creato una gobba alla Dante Alighieri, il che è già un'incredibile sorpresa. La mano sul mio capo scivola più in basso, sulla spalla, e poi percorre la pelle del collo per arrivare al mento, così da sollevarlo. <<Signorina, mi spiace molto, non volevo...>>
<<Oh, sto bene>> mi affretto a rispondere, alzando lentamente il capo. <<Non è successo nien->>
Conosco quegli occhi. Li riconoscerei ovunque. Sono occhi che per un sacco di tempo mi hanno disprezzato, che mi hanno giudicata senza sapere, senza pensare, senza conoscere. Sono occhi azzurri come il ghiaccio che ha congelato il sangue nelle mie vene. E conosco anche quella barba incolta, e quei capelli lunghi dello stesso colore della notte, così lunghi da dover esser legati in una coda. E conosco anche quella mascella volitiva, quella labbra carnose ma non troppo, quel naso dritto, quella cicatrice sulla guancia sinistra, quelle sopracciglia folte, e quella pelle un po' scura, e quelle braccia, e quelle gambe, e quel corpo che sta davanti a me e quello sguardo che mi fissa a sua volta perché a sua volta mi riconosce. Perché si ricorda del nostro ultimo incontro, quando lui era sdraiato sotto di me e io ero in piedi sopra di lui ed ero incazzata come una iena e gli minacciavo di fargli esplodere i testicoli schiacciandoli col mio piede.
<<Sophia King?>> ha gli occhi sbarrati, e ora non c'è più preoccupazione nella sua voce. Solo disprezzo.
Sempre disprezzo.
<<Jack Valentine.>>
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