Privet Drive

"And if you were to ask me
After all that we've been through
Still believe in magic?
Well yes, I do"

"Potter, svegliati!"
Le urla di mio cugino risuonarono tra le pareti della piccola casa a schiera di Privet Drive, sino in camera mia, dove nel frattempo cercavo di sonnecchiare qualche minuto in più dopo il suono della sveglia.
Con un sospiro, scostai le coperte dal mio viso assonnato, socchiudendo gli occhi dinanzi la forte luce di primo mattino che filtrava dalla finestra della stanza; mi passai una mano sulla fronte, memore dell'ingente giornata che mi sarei dovuta preparare ad affrontare.
Posai i piedi sul parquet, gemendo per i brividi di freddo; nonostante l'estate si fosse conclusa da poco, le temperature erano già quelle tipiche di un autunno inoltrato.
Una volta alzatami in piedi, mi trascinai sino alla finestra, dove potei constatare che la gente aveva già tirato fuori dagli armadi felpe e giubbotti e le strade erano ancora umide per lo scroscio di pioggia della notte precedente, nonostante quella mattina splendesse il sole. Un velo di brina aveva coperto il prato dinanzi la casa e alcuni alberi avevano già iniziato a perdere le foglie, che abbandonavano i rami rinsecchiti per poggiarsi con delicatezza sull'asfalto, dove qualche netturbino si occupava di raccoglierle e gettarle nell'immondizia.
Sbuffai, ricordando d'improvviso che ormai mancavano pochi giorni all'inizio della scuola, e dunque all'inizio di ritardi in classe, voti scadenti e continui rimproveri. L'odio degli insegnanti nei miei confronti era totalmente corrisposto.
Avanzai strascicando i piedi sul pavimento e sbadigliando rumorosamente, finché non giunsi nei pressi del mio umile guardaroba, costituito in gran parte da vecchi abiti di Dudley. Da quando ero stata portata a vivere dagli zii, mai mi era stato concesso di indossare un solo capo di vestiario che non fosse di seconda mano.
Una volta sostituito il pigiama con un paio di jeans e una vecchia t-shirt sgualcita, afferrai un elastico per capelli dal comodino di fianco al letto e mi diedi da fare per sistemare la mia folta chioma che ricadeva scompigliata sul viso, oscurandomi gli occhi.
Prima di lasciare la stanza, mi volsi a cercare un paio di calzini, sbadigliando ancora una volta; poi girai il pomello della porta, ritrovandomi davanti lo sguardo imbronciato di mio cugino Dudley. Il piccoletto se ne stava nel bel mezzo del corridoio a braccia conserte, probabilmente attendendo che terminassi di prepararmi una volta per tutte.
"Stai facendo raffreddare la colazione, Potter!" esclamò con tono contrariato, aggiungendo in seguito una linguaccia.
"Con quella pancia che hai, potresti mangiarti pure la mia" ribattei io, sogghignando appena. Uno schiaffo di zia Petunia sarebbe stato inevitabile dopo quel mio affronto, ma vedere il volto paffuto di Dudley diventare paonazzo dalla rabbia ne valeva la pena.
"Mamma!" cominciò a gridare la peste, correndo a rotta di collo giù lungo la scalinata che conduceva al piano inferiore della casa.
Io mi lasciai scappare una risatina, per poi seguire mio cugino di sotto, dov'ero certa che zio Vernon e zia Petunia ci stessero aspettando impazienti per la colazione. Quella mattina era prevista una visita allo zoo di Londra, alla quale mi era stato concesso di prender parte, se pur controvoglia.
Una volta fatto il mio ingresso in cucina, il sonoro schiaffo sulla guancia da parte di zia Petunia contribuì a farmi destare ancor più del caffè che mi attendeva in tavola, accompagnato da uova e pancakes ormai tiepidi. Tuttavia non prestai molta attenzione al rimprovero che seguì, preferendo di gran lunga consumare la mia colazione, che in caso contrario Dudley avrebbe finito in quattro e quattr'otto.
Nel frattempo anche Dudley aveva preso posto all'ampio tavolo da cucina, avventandosi sul suo pasto senza ritegno; zio Vernon invece sedeva in salotto sulla sua poltrona, sorseggiando una tazza di tè e leggendo le notizie dal quotidiano che teneva tra le mani, mentre zia Petunia era tornata imperterrita ai fornelli, attenta a non bruciare le fette di bacon che avrebbe poi offerto al piccolo Dudley.
"Vedi di non farci fare tardi, Potter" furono le uniche parole che mi rivolse zio Vernon, senza mai distogliere lo sguardo dal giornale.
Per qualche istante rimasi a contemplare la sagoma snella di zia Petunia alle prese con i fornelli, con qualche ciuffo di capelli ribelle che scivolava di tanto in tanto sul suo viso contornato dal trucco, quella di Dudley, accovacciato sul suo piatto mentre masticava voracemente, i capelli color pece proprio come la madre e il volto paffuto come quello del padre, e infine zio Vernon, il cui corsetto era tenuto chiuso da sparuti bottoni che faticavano a restare al proprio posto a causa della prominente rotondità dei suoi fianchi. Nessuno di loro tre invece sembrava badare a me.
Quando Dudley ebbe terminato il suo pasto, si alzò in fretta e furia dal tavolo per correre nella sua stanza per i preparativi, e a causa della sua goffaggine sbatté violentemente il ginocchio contro la gamba del tavolo, facendo traboccare qualche goccia di caffè dalla tazza che tenevo tra le mani e scatenando l'ira di zia Petunia.
"Potter! Sii meno impacciata, dannazione!" stridette la zia, per poi rivolgere un sorriso affabile al figlio, che proseguì la sua corsa su per le scale.
Io sospirai, abbandonando metà della mia colazione nel piatto e lasciando la stanza senza troppi convenevoli; allo sbraitare di zia Petunia nemmeno badai troppo, dirigendomi verso la mia stanza e gettandomi a peso morto sul letto.
Quello sarebbe stato il giorno peggiore della mia vita.

Proprio come avevo previsto, la visita allo zoo servì solo a contribuire al mio malumore.
Ero stata costretta a seguire gli zii lungo i corridoi bui dell'edificio, lungo i quali erano presenti le gabbie di felini e numerosi animali tropicali, i quali osservavano incuriositi i visitatori da dietro una spessa lastra di vetro. Tuttavia non ci eravamo mai soffermati più di qualche istante a ciascuna attrazione, dato che tutto l'interesse di Dudley era incentrato nell'acquario del museo, collocato al piano inferiore.
Giunti in prossimità dell'area di rettili e anfibi, avevo pregato solennemente zio Vernon di sostare qualche secondo nell'unica zona del museo che mi interessava davvero visitare. Invece lo zio aveva rivolto uno sguardo disgustato dinanzi le foto lungo le pareti che raffiguravano serpenti velenosi e ingenti testuggini, esortandomi a seguire il piccolo Dudley in direzione dell'ascensore, dove il piccoletto stava trascinando zia Petunia, tirandola per un braccio.
A quel punto la mia pazienza era giunta al limite; avevo puntato i piedi a terra ed osservato i miei zii allontanarsi lungo il corridoio senza accorgersi della mia assenza.
Poi avevo voltato lo sguardo verso il corridoio alla mia sinistra, verso cui sembravo venire attirata; dunque mi ci addentrai tutta sola, in compagnia soltanto di qualche altro visitatore dello zoo.
All'inizio mi ritrovai circondata da teche contenenti testuggini carnivore, rospi gracidanti e piccole vipere. Dopo qualche metro iniziai invece ad intravedere la figura di serpi di sabbia, le mie preferite. Avevo approfondito le mie conoscenze riguardo le varie categorie di serpenti grazie ad una ricerca condotta per la scuola pochi mesi prima, una delle poche per le quali mi era stato possibile ottenere una valutazione dignitosa.
Il mio interesse per quella specie animale era inspiegabile, tanto quanto il motivo per cui mi avvicinai con il viso ad una spanna dal vetro dietro al quale risiedeva un boa constrictor, molto temuto poiché capace di uccidere anche grandi prede avvolgendole e soffocandole tra le sue spire.
Ammirai la creatura dinanzi a me, mentre questa strisciava lentamente nella mia direzione; prima che potessi avvicinare una mano al vetro, sentii qualcuno afferrarmi per le spalle. Mi voltai di scatto, ritrovandomi di fronte il viso paffuto di zio Vernon, paonazzo dalla rabbia.
"Smettila di gironzolare per questo posto!" esordì, iniziando a trascinarmi verso l'ingresso del corridoio buio, illuminato solamente dai fasci di luci puntati sulle teche delle varie creature presenti. "Lo sapevo che ti avrei dovuto rinchiudere nella tua stanza" aggiunse poi lo zio, mentre ci accingevamo a raggiungere a nostra volta gli ascensori.
Zia Petunia e Dudley ci aspettavano imbronciati, uno per l'attesa e l'altra per la fatica a forza di accontentare i capricci del figlio; non appena giunsi accanto a Dudley, quest'ultimo mi rivolse una linguaccia, voltandosi poi nella direzione opposta, osservando zio Vernon schiacciare il tasto dell'ascensore che conduceva verso il piano inferiore, intrepido di raggiungere l'area del museo di suo interesse.
Io sbuffai, ormai stanca della visita, ma non osai ribattere alle lamentele degli zii per la mia disobbedienza; continuavo invece a pensare a quanto le creature osservate poco prima mi avessero affascinato.
Una volta fatto ritorno a casa, venni accolta da una severa punizione per l'atteggiamento che avevo assunto dentro al museo quella mattina; nonostante stessi visibilmente morendo di fame, zio Vernon mi accompagnò nella mia camera, dove venni rinchiusa per tutta la durata del pomeriggio, senza poter nemmeno prender parte al pasto di metà giornata.
Il mio stomaco si fece udire a forza di brontolii sino a sera e non ebbi altra scelta se non aspettare fiduciosa che qualcuno si decidesse a farmi uscire.
Alle otto in punto sedevo sul letto, con indosso ancora i medesimi abiti di quella mattina, le gambe raccolte al petto e la testa poggiata su di esse, mentre rimanevo in ascolto del vociferare di Dudley al piano di sotto. Il ragazzino era rimasto alquanto contrariato dalla visita al museo, motivo per cui zia Petunia aveva cercato inutilmente di accontentarlo con una cena a base di polpettone fatto in casa, il suo piatto preferito. Ma quanto il piccolo Dudley era adirato, niente avrebbe contribuito a reprimere la sua rabbia, nemmeno il cibo.
Ad un certo punto, mentre zio Vernon entrava in soccorso cercando di interrompere il piagnucolio del figlio, si udì un tonfo al piano inferiore in prossimità dell'ingresso.
Alzai il capo con espressione confusa, domandandomi se potesse trattarsi del postino giunto in ritardo; solo in seguito avrei compreso non trattarsi di qualcuno che bussava, bensì della porta di casa che era stata del tutto scardinata e gettata a terra.
Compresi che la situazione si era fatta alquanto strana non appena sentii le urla di zio Vernon rimbombare per tutta la casa; poco dopo vi si unì anche zia Petunia, che al contrario pareva squittire come un topo, e il mio cuore cominciò a battere più rapidamente. Subito abbandonai il letto su cui sedevo, rifugiandomi dietro le ante dell'ampio armadio che si trovava accanto alla finestra della stanza, finestra dalla quale avrei potuto gettarmi in caso di pericolo, con un volo di circa quattro metri.
Non appena percepii dei passi pesanti percorrere le scale, mi tappai la bocca con una mano, cercando di respirare meno affannosamente, così che nessuno si accorgesse della mia presenza.
Dopo qualche minuto, quando ormai iniziavo a pensare che il pericolo fosse passato e facevo per metter piede fuori dal guardaroba, la porta della mia stanza si spalancò con un colpo secco, facendomi sobbalzare.
Cercai di indietreggiare il più possibile dietro agli abiti appesi nell'armadio, pregando con tutta me stessa che qualsiasi cosa vi fosse nella camera, se ne andasse il più velocemente possibile. Mentre pensavo queste parole, urtai involontariamente una scatola ai miei piedi, creando un suono che subito giunse alle orecchie dell'ospite indesiderato. Quest'ultimo, i cui movimenti mi era possibile spiare dalla fessura tra le due ante dietro le quali ero nascosta, si avvicinò immediatamente verso il mio nascondiglio, spalancando l'armadio e sovrastandomi con la sua corporatura robusta.
"E' un piacere vederti, Lucy!"

Quando infine mi destai, non ebbi bisogno di molto tempo per comprendere di essere svenuta per lungo tempo; mi trovavo sopra una Harley Davidson degli anni '50, una di quelle di cui zio Vernon leggeva su vecchie riviste motociclistiche. La moto sfrecciava rapidamente, con alla guida il mio apparente rapitore, lo stesso uomo dal fisico imponente che si era addentrato in casa.
Non appena mi guardai intorno, con gli occhi cercai la strada e le case circostanti, per poi rendermi conto che non ci trovavamo a Privet Drive; in realtà, non sembrava ci trovassimo proprio in nessuna città: la motocicletta procedeva in mezzo a folti nubi cariche di pioggia, nel cielo buio di quella sera costellata di stelle.
Allungai così lo sguardo ai nostri piedi, dove alberi e case si erano ormai fatti lontani e l'unica luce ad illuminare il paesaggio circostante era quella del faro posto nella parte anteriore della moto.
D'impeto, provai a gridare, ma la voce mi morì in gola non appena il mio rapitore si rese conto che mi ero svegliata e si voltò verso di me. Per un istante temetti che volesse spingermi giù, farmi cadere per centinaia di metri finché non mi fossi spiaccicata al suolo; invece l'uomo misterioso mi sorrise dietro la folta barba, schiacciando più forte l'acceleratore e procedendo imperterrito verso una coltre di nubi.
"Sto sognando" dissi allora a me stessa, provando a capire per quale assurdo motivo mi sarei dovuta addormentare sognando di trovarmi su una motocicletta volante in mezzo alle nuvole.
"Non temere Lucy, manca poco all'arrivo!" esclamò allora l'uomo alla guida, il cui tono di voce non apparve minaccioso come avevo pensato, bensì esaltato.
"Come fai a sapere il mio nome? Chi sei? Dove mi stai portando, perdindirindina?"
L'uomo di cui ancora non conoscevo il nome mi rivolse un altro dei suo sorrisi cordiali, guardandomi con un curioso bagliore negli occhi.
"Capirai tutto non appena atterreremo. A proposito di atterrare, tieniti forte! Siamo arrivati"
Non compresi immediatamente le parole dell'uomo, motivo per cui il colpo d'aria fredda che mi investì non appena la motocarrozzetta virò verso il basso mi colse alla sprovvista: mi aggrappai forte al carrozzino su cui sedevo, pregando di arrivare a terra sana e salva. Ormai l'assurdità aveva preso possesso di tutti gli eventi che si accingevano a sopraggiungere.
"Aiuto!" gridai, temendo la velocità con cui l'uomo conduceva la moto verso il terreno. Tuttavia, prima che entrambi ci schiantassimo al suolo, il veicolo si fermò a mezz'aria, permettendoci finalmente di scendere.
Io subito mi gettai a terra, iniziando a gattonare il più lontano possibile dall'uomo misterioso; lui non sembrò preoccuparsi dei miei movimenti, troppo impegnato a sistemare la sua motocicletta.
"Dove siamo?" domandai allora, osservando gli edifici attorno a me; si trattava di negozi dalle vetrine ripiene di oggetti la cui utilità per me rimaneva inspiegabile: ampi calderoni, vecchie scope da cucina, gatti neri e lunghi mantelli del medesimo colore.
"Aiuto!" provai a gridare nuovamente, ma quel posto sembrò desolato.
Fu allora che il gigante cominciò ad avvicinarmisi, continuando a sorridere: "Vieni qui!" esordì, prendendomi per le spalle così da alzandomi da terra, e avvolgendomi in un abbraccio. Il cappotto che indossava era piena di polvere e odorava di carne da macello. Io provai subito a scostarmi, dimenandomi tra le braccia dell'uomo.
"Chi diavolo sei? Cosa vuoi da me? Che ne hai fatto dei miei zii?"
"Non ti ricordi proprio nulla?" pronunciò allora lui, con sguardo deluso.
"Cosa dovrei ricordarmi?", ribattei io, "sei un pazzo! Io voglio andare a casa mia!"
"Beh se è per questo, è proprio dove siamo diretti!" rispose l'uomo, rivolgendomi un ampio sorriso; "Silente ci sta aspettando ed è impaziente di vederti"
"Di che cosa stai parlando? Sei pazzo!"
Ripresi dunque a gridare istericamente, nella speranza che qualcuno fosse in grado di udirmi e di correre in mio aiuto.
"Sono Hagrid" si presentò a quel punto il mio rapitore, accennando un segno di saluto. "E ti sto portando a Hogwarts, come d'accordo"
"Dove mi staresti portando?" domandai, incuriosita dall'affermazione dell'uomo.
"Alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, ovviamente. Non hai ricevuto la lettera?"
Il mio viso si trasformò in un'espressione sconcertata; quell'uomo stava sicuramente delirando.
Al mio sguardo confuso, il gigante rispose con un profondo sospiro: "Lo sapevo, non te l'hanno fatta vedere. Silente lo aveva previsto"
"Silente? Lettera? Ma di che cosa stai parlando?" esclamai nuovamente, mettendomi le mani tra i capelli, non riuscendo a capire cosa mi fosse successo. Le seguenti parole del gigante contribuirono a scombussolarmi ulteriormente.
"Tu sei una strega, Lucy"

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