Hey Brother (parte 2)

Joey non riusciva a dormire. Aveva passato le precedenti tre ore a rigirarsi nel letto, pensando a come risolvere quella situazione scomoda e stando malissimo per il modo in cui aveva mentito ai suoi amici. Sentiva di aver rinnegato un po' se stesso dicendo quell'enorme bugia, ma era ancora fermamente convinto di non voler far affrontare a nessun altro le prove poste dalle frecce.

Stanco di star lì a intrappolarsi nei suoi stessi pensieri, decise di fare una doccia calda e lunghissima per rilassarsi dopo le estenuanti fatiche di quella giornata.

Una volta finita andò davanti lo specchio per lavarsi i denti, ed essendo il suo riflesso coperto dal vapore, ci passò sopra una mano: i capelli, in qualche modo già arruffati, lasciavano cadere piccole goccioline di acqua sul suo corpo scolpito, mentre sul naso c'era una piccola cicatrice, dovuta allo scontro con Pepe Iglesias. Se l'era fatta proprio il giorno in cui quella bizzarra avventura era iniziata, a causa di Rodon che aveva attaccato lui e Ofelia nel vicolo buio.

Era sempre uguale, il solito Joey, eppure si sentiva diverso. Più grande, forse, e allo stesso tempo più bambino che mai. Durante quei viaggi aveva dovuto superare moltissime sfide, sia nemici che il suo io interiore, il suo passato, i suoi peccati. E non era ancora finita, chissà quanto ancora gli serbava il futuro!

Pulito e profumato, si sentiva già meglio. Afferrò la freccia e la mise in una scatola, poi uscì dalla stanza da letto per andare in quella della sua amica, quando notò di non essere l'unico sveglio: da sotto molte porte uscivano sottili linee di luce e, seppur in modo più attutito rispetto al giorno, poteva sentire un confuso vociare provenire da laboratori e uffici. La Fondazione non dormiva mai.

Decise di farsi un giro, non aveva mai camminato per quegli intricati corridoi senza avere accanto qualcuno. Voleva perdersi e scoprirli pian piano, senza pensare troppo a dove stava andando, senza affaticare ancor di più la mente.

Nell'atrio conobbe un certo Charles Boyle. L'ometto si mise a parlare di tutti i suoi numerosissimi cugini, a quanto pare ce n'è almeno uno in ogni città del mondo. E tutti hanno uno strano potere che, ingrandendo un occhio più dell'altro, storcendo il naso o modificando una determinata parte del volto, rovina ogni fototessera, imbruttendola. Purtroppo non riescono a controllarlo, si espande per un raggio di venti chilometri anche contro la loro volontà.
«Ecco perché ho la bocca così grande nella carta d'identità»
«È sicuramente colpa del cugino Bill»

Scoprì poi un enorme salone dove ognuno poteva allenare il proprio stand. C'erano sale di combattimento, piscine, bersagli da colpire con ogni genere di arma e persino una serra piena di alberi rigogliosi. Pensare che tutta quella bellissima vita era sicuramente merito di Cinzia, gli fece ricordare perché era uscito. E anche spuntare un sorriso.

Tornò quindi sui suoi passi, così da parlare con Ofelia nel caso fosse sveglia, ma venne attratto dalla luce proveniente dalla camera di Theodor.

Dopo bussato e ricevuto il permesso, entrò nel polveroso ufficio pieno di libri e fogli sparsi. Il ragazzo stava sistemando una difficilissima equazione che si estendeva su ben tre lavagne.
«Come mai non dormi?»
«Mi sono accorto di un errore, e non ho resistito a correggere l'intera espressione»
«Sembra un pianeta» disse Joey, spostando la sua attenzione su un disegno fatto davvero male.
«È un buco nero. Sai che qui alla Fondazione facciamo anche ricerche in ambito scientifico»

Mentre spiegava di come i suoi studi fossero collegati ai Ponti di Einstein-Rosen (che l'altro non aveva mai sentito nominare), Theodor decise di scaldare dell'acqua per preparare due bollenti tazze di the. Poi passò una pezza sulle sedie girevoli per pulirle e fece accomodare il suo ospite. Nessuno aveva il permesso di entrare nel suo ufficio, nemmeno la compagnia delle pulizie, da quando un signore aveva buttato mesi di lavoro convinto fossero scarabocchi.

«Ti va di dirmi cosa è successo?» avrebbe tanto voluto chiedergli anche cosa ci fosse nella scatola, ma notò che la teneva così stretta al petto che pareva ne dipendesse la sua vita, quindi preferì non metterlo ancor di più in difficoltà.
Joey rimase un po' in silenzio, pensando a come rispondere senza dilungarsi troppo. Sapeva che, se avesse detto la verità, non sarebbe riuscito a trattenere le lacrime.
«Ho incontrato una persona che non vedevo da molto, e questo mi ha scombussolato parecchio»
Theodor cercò inutilmente di collegare le informazioni, non erano per niente chiare.

Proprio in quel momento Ofelia aprì la porta ancora mezza addormentata, stropicciandosi un occhio. Si avvicinò al biondo e, senza chiedere il permesso, bevve un sorso del suo the per poi mescolare uno sbadiglio ad un:
«Fa schifo, ci hai messo lo zucchero?»
Alzò le braccia per stiracchiarsi, poi le avvolse attorno al collo di Theodor si sedette sulle sue gambe, ignara di come lo stava facendo arrossire.

Joey tossì, per segnalare la sua imbarazzata presenza. Aveva capito ci fosse qualcosa tra quei due, ma non gli era mai stato detto esplicitamente.
«Buongiorno» mugugnò lei nonostante il Sole non fosse nemmeno sorto.
«'Giorno, ti stavo cercando»
«Non volevo mangiare la tua fetta di torta, scusami»
«Hai sognato di mangiare una mia fetta di torta? Era buona?»
«Deliziosa»

Il ragazzo non potè fare a meno di sorridere, Ofelia appena sveglia era uno degli spettacoli che più lo divertivano.
«Volevo darti questa» rispose agitando la scatola per attirare la sua attenzione.
Lei sollevò la testa, improvvisamente curiosa e speranzosa che si trattasse di...
«Non è un regalo. Devi custodirla per me, e ti prego di non guardarne mai il contenuto né di chiedermelo»

Rimasero a fissarsi, uno scambio silenzioso di parole ed emozioni, di sguardi fermi ma in grado di dire tutto. La ragazza annuì, consapevole del fatto che non sarebbe mai riuscita a far cambiare idea a degli occhi tanto decisi, li conosceva sin troppo bene. Avrebbe fatto di tutto pur di dare una sbirciata nel contenitore, di scoprire cosa avesse combinato a Napoli il suo amico, di capire cosa lo avesse scosso così tanto. Ma lui le stava affidando qualcosa a cui teneva, si stava fidando ciecamente, e non l'avrebbe deluso. Se era pazienza ciò che chiedeva, era suo compito accontentarlo.

Manifestò Gasoline, i cui occhi mezzi assopiti sembravano confusi da quegli strani disegni sulle lavagne di ardesia. Aprì l'immensa bocca e, con un solo boccone, mangiò la scatola.

Nonostante sembrasse sparita nel nulla, divorata e distrutta da quei pungenti e disgustosi canini, era lì: galleggiante nella melma nera, ferma in uno strano stato di equilibrio, sotto il sorriso sghignazzante.

A Theodor per poco non andò di traverso lo scialbo the senza zucchero. Non aveva idea che lo stand di Ofelia potesse anche nascondere oggetti in quel modo, era già rimasto molto sorpreso da come aveva sputato in alto il fumogeno preparato contro Prada e Valentino. L'unica volta che le aveva chiesto di studiare le caratteristiche del suo stand, la ragazza aveva risposto con tono glaciale che voleva usarlo il meno possibile. Inutili erano state le parole per spiegarle come fosse interessante, forte, adattabile e parte di lei.

«Volevo anche chiedervi scusa per come mi sono comportato» continuò Joey, posando sulla scrivania la tazza ancora piena.
«Non credevo che questo viaggio sarebbe stato così difficile, mi aspettavo delle belle giornate passate a scoprire nuovi amici possessori di stand. Invece siamo costantemente sotto attacco, mettiamo ogni giorno a rischio le nostre vite. E odio il pensiero...»

«Bla bla bla! So già cosa vuoi dire: ti senti in colpa a metterci in pericolo e vuoi che restiamo qui, mentre tu corri alla ricerca delle frecce. Scordatelo!» sbraitò Ofelia, ormai perfettamente sveglia e, quindi, nervosa.
«Non capite, non voglio che...»
«Ha ragione lei, non ti abbandoneremo. A costo di rimetterci la pelle, a costo di finire di nuovo in un girone infernale o con un arto mozzato, porteremo a termine questo viaggio. Tutti insieme» persino Theodor lo interruppe con il suo solito tono calmo che, però, stavolta non ammetteva repliche.

Alla fine, ogni volta che Joey provava a controbattere, gli altri due lo bloccavano a metà dicendo tutt'altro. E in qualche modo si ritrovò ad ascoltarli mentre progettavano il viaggio per la prossima metà: il Cairo, capitale dell'Egitto, caotica e polverosa città ubicata sulla riva e le isole del fiume Nilo.

«Tenga il resto» disse l'Ultimo Verde scendendo dal taxi.
Aveva viaggiato tutta la notte pur di raggiungere il prima possibile una precisa via di Napoli, dove Prada avrebbe dovuto lasciare la freccia stand una volta sconfitti i tre ragazzi. Sapeva che non erano riusciti ad averla, e alla Fondazione era arrivata una lettera da parte del Boss con scritto "Fatene buon uso". Quindi la sua sottoposta doveva aver portato a termine la missione.

A quell'ora nemmeno una voce poteva essere udita tra le strade, e gli scivolosi sampietrini erano malamente illuminati solo dai lampioni. La colorata e allegra città, di notte, diventava un luogo alquanto lugubre.

Si strinse nella giacca, credeva che la sua sensazione fosse dovuta a quella strana atmosfera, ma un trattenuto colpo di tosse smentì la teoria. C'era qualcun altro. Poteva percepirne le cattive intenzioni tramite un brivido che ebbe lungo la schiena. Stupido istinto. Odiava non poterlo controllare.

Svoltò l'angolo e si fermò di scatto. Era in un vicolo cieco.
«Come mai sei in giro a quest'ora? Hai bisogno di aiuto?» chiese la voce di uomo palesemente ubriaco.
L'Ultimo Verde si voltò, guardandolo con estremo disgusto. L'individuo davanti ai suoi occhi era l'esempio perfetto dello scarto della società, non sarebbe mai riuscito ad essere degno del nuovo mondo, poteva già immaginarlo morto stecchito a causa della ferita di una freccia stand.

Era lì, barcollante, con la zip dei pantaloni aperta e ignaro dell'aura infuocata che stava prendendo forma proprio davanti ai suoi occhi. Perché sprecare su tale spazzatura la lama di un oggetto tanto prezioso? Bastò un gesto della mano per farlo sparire, come in un trucco di magia. Sapeva che non sarebbe mai sopravvissuto. Nessun cadavere, nessun traccia, semplicemente ormai non esisteva più. E la pelle d'oca andò via. Stupido, stupido istinto.

Si girò di nuovo, quel vicolo senza uscita era stato la sua meta sin dall'inizio. Afferrò un mattone uguale a tanti altri e cominciò a sfilarlo dal muro, fin quando la voce di un ragazzo non spezzò quell'immobile ma fremente silenzio.
«Non troverai nulla lì dietro»
Non si mosse per qualche secondo. Quelle parole avevano attirato la sua attenzione, ma non sapeva ancora se fidarsi o meno. C'era un solo modo per scoprirlo: prese con più forza il mattone e lo gettò a terra, di netto, come quando si strappa velocemente un cerotto.

Niente, il buco era vuoto.
«Prada non ha mai recuperato la freccia. È stata sconfitta, e ora è passata dalla parte di quegli idioti»
«Chi sei? E come conosci certe cose?»
«Mi chiamo Valentino. Apprezzo le tue idee, vorrei starti accanto, solo che non ho uno stand» disse lui, come se stesse contrattando e facendo il miglior affare di sempre.

L'Ultimo Verde sussultò, davvero quella ragazzina era stata così sciocca da spiattellare tutto a qualcuno senza potere? Ma non riuscì ad arrabbiarsi troppo. In quegli occhi pieni di astio e spavalderia c'era qualcosa, uno strano luccichio, che risparmiò al ragazzo la stessa morte dell'ubriaco di poco prima. Chissà, stavolta l'istinto poteva star suggerendo la cosa giusta, Valentino aveva proprio l'aria di essere un buon sottoposto. Agguerrito, audace, sicuro di sé.

Poi, si rese conto di una cosa: se Prada non aveva preso la freccia e nemmeno la mafia ne era in possesso, allora, chi ce l'aveva? Possibile che Joey avesse mentito ai suoi sciocchi amichetti? Oppure erano tutti d'accordo? Avevano scoperto la sua identità? Non poteva permettere che accadesse, non ancora, almeno. Doveva eliminarli al più presto.

Capitolo transitorio, nel prossimo tornerà l'azione! Chi pensate sia l'Ultimo Verde? E Joey come supererà questo stato d'animo?

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