20. Alla ricerca di un padre e un marito
“Papà sei tornato” affermo con apprensione, mentre mi allontano da Erin che cerca di origliare la conversazione.
Nessuna risposta. Si sente solo l’assordante ticchettio della caduta della linea. Non poteva esserci tempismo peggiore. Velocemente compongo il suo numero e salgo le scale nella completa oscurità, tastando i gradini con i piedi, mentre i miei occhi sono fissi sullo schermo nell’attesa che il suo nome venga sostituito dal timer che indica la sua risposta.
Passano i secondi ma non succede nulla. Avvicino il cellulare all’orecchio, senza sentire alcun suono. La mia presa si fa più stretta a causa dell’alterazione provocata dall’inesistenza della barra che indica il campo.
Come è possibile che dentro casa non ci sia linea? Mi domando, mentre alzo il cellulare al cielo cercando di trovare qualche tacca.
Mi sollevo sulle punte appena raggiungo la finestra, appoggiando il braccio steso sulla finestra, il cui vetro sta tremando a causa del vento al di fuori. Il bianco della condensa non mi permette di distinguere le ombre sulla strada, però gli scricchiolii dell’imposta e lo sfrigolare della pioggia mi suggeriscono la ragione dietro la caduta della chiamata.
Spalanco la finestra e rimango rapita dalla potenza con cui il nevischio piomba giù dal cielo, fitto come nebbia. Solo quando i fiocchi cominciano a inumidirmi il viso mi accorgo di essere rimasta bloccata a fissare il vuoto.
“Avete un cellulare che funzioni?” domando a Erin saltando giù dalla rampa di scale.
“Problemi?”
“Non riesco a chiamare papà.” La mano continua a battermi freneticamente sulla gamba.
La maestra tende l’orecchio all’improvviso boato che ha percosso l’aria. Attende che il rombo finisca in un rantolo lontano, poi fa per alzarsi ma si stanca al solo provarci e così allunga una mano per indicarmi dove trovare il suo cellulare. La sua borsa è un piccolo caos racchiuso tra mura di pelle, che mi fa penare per trovare l’oggetto desiderato, un modello sorpassato da anni che probabilmente non è neanche in grado di collegarsi a internet.
Neanche sul suo cellulare c’è campo.
L’unica speranza rimasta è la bionda, che ha abbandonato la cucina per rintanarsi in camera. Solitamente le scale sono faticose da percorrere, ma questa volta i miei piedi volano sopra i gradini, che salgo a gruppi di tre. I rimbombi dei tuoni accompagnano i battiti del mio cuore non allenato e l’ansia per mio padre cresce, facendomi spalancare la porta della camera di Kathleen.
A quanto pare non sono l’unica a essere stata contagiata dal tempo, perché appena metto piede nella stanza scatta, alzando la testa che prima era abbandonata sulle ginocchia, portate al petto. Ma, quando mi riconosce, non fa altro che aggrottare le sopracciglia per poi tornare alla sua scomoda posizione. Non serve a niente chiamarla.
Anche le sue dita ticchettano sulle gambe, quasi a voler scandire la caduta delle gocce sul tetto pendente che sovrasta la stanza. È quella che si trova più in alto, quindi quella da cui si può percepire meglio la potenza dell’uragano di ghiaccio.
“Che vuoi?” Finalmente cede, incrociando le mani sulle gambe ora stese, la schiena poggiata alla testiera dell’elegante letto matrimoniale.
“Non riesco a contattare mio padre e mi chiedevo se…”
“Non funziona” mi interrompe bruscamente, lanciando la mano verso il cellulare poggiato dall’altro lato del materasso. “Ci ho già provato.”
Un altro tuono in lontananza la fa sussultare.
“Stai bene?” Pallida com’è sembra più delicata di quanto non sia.
“Perché non dovrei.”
Non sono una persona paziente, ma con lei l’irritazione è così grande da saturare la mia bocca, impedendomi di sbatterle in faccia l’evidente fatto che si trovi su un letto, rannicchiata e tremante.
Conto fino a dieci. “Non voglio sapere il perché. Ti ho solo chiesto se stavi bene.” Mi fulmina e io alzo gli occhi al cielo, ruotando sui talloni per raggiungere le scale.
“Charles...” Un sussurro.
“Cosa?”
“Ho detto Charles” ribadisce, stringendosi il bordo della maglia. “Non so dove sia e non mi piace che si ritrovi in mezzo a una tempesta. Sono pericolose.”
“Andiamo! Stiamo parlando di un maestro dell’anima.” Sbuffo. Il fatto che sia così preoccupata da non controbattere mi porta a riflettere sulla mia affermazione e su come per lei Charles non sia un umano immortale, ma un uomo, suo marito. “Cosa possiamo fare?”
Scuote la testa e il caschetto le danza intorno al viso, poi, inaspettatamente, scatta sull’attenti con una nuova determinazione nello sguardo. “Esci.”
“Ma sei impazzita?! Non voglio morire congelata!” Mi ritraggo subito dal suo raggio d’azione, appiattendo le braccia al corpo come fossero uno scudo.
“Esci dal corpo” precisa.
Vuole incamminarsi nella tormenta, sicura che un fattore come quello sarà poco dannoso per i nostri corpi eterei. Facciamo in modo di non uscire dalla porta principale, perché secondo lei Erin non ci permetterebbe di andare, perciò decidiamo, anzi mi viene ordinato, di passare per la parete della mia camera, nonostante si trovi al secondo piano, abbastanza in alto da farmi aggrappare al condotto di scolo quando fuoriesco dal muro.
-Cosa stai facendo?- mi domanda Kath, sbucando fuori dai mattoni con il busto.
-Evito di morire.-
Lei guarda prima me e poi la strada sotto di noi. -Non devi mica saltare, eh. Teletrasportati… Lo sai fare, vero?-
Non sono sicura che in questa forma io possa impallidire, ma se ciò è possibile sono sicura di essere diventata bianca come non mai, mentre il terreno vortica e le gambe si paralizzano. -Una mano?- la imploro.
-No, non dirmelo… non sai fare neanche questo? Che palla al piede.-
-Non c’è di che!- esclamo, facendola sospirare per la frustrazione.
-Un piede dopo l’altro, devi solo fare un passo nel vuoto.- Per lei è semplice dirlo, quando non sa che la mia salvezza dipende dalle mie scarse capacità di controllo. Mi ripeto le sue semplici istruzioni, mentre cerco inutilmente di allentare la presa sul tubo di metallo.
Al diavolo! Fallo e basta, mi dico chiudendo gli occhi e saltando.
Li schiudo solo quando sono sicura di non stare precipitando e quello che vedo mi fa aprire in una risata euforica. Sto fluttuando!
-Bhe? Hai intenzione di scendere?- Kathleen si è già teletrasportata al suolo e mi osserva con le braccia incrociate, che non nascondono la sua sorpresa per l’accaduto. E come darle torto, non molti maestri sanno fluttuare.
Mi basta crogiolarmi in questa consapevolezza per perdere la concentrazione e cadere ai suoi piedi. Non provo dolore, tuttavia l’impatto si fa sentire nei secondi successivi, poi scompare come se non avessi appena fatto un volo di una decina di metri.
-Passiamo prima da tuo padre.- Non capisco cosa ci guadagni accompagnandomi, fino a quando non aggiunge: -poi tu verrai con me a cercare Charles.-
Non so dire se le faccia più paura il pensiero del compagno fuori nella tormenta o il dover stare fuori a sua volta con questo tempo.
La strada è deserta e le poche macchine che hanno il coraggio di muoversi lo fanno con estrema lentezza, badando a non investire qualcuno e a non rischiare qualche danno serio alla vettura. Purtroppo, non possiamo prendere l'auto, essendo anime, e siamo costrette a correre per mezzo chilometro, prima di salire su un autobus all’insaputa di tutti. A livello teorico non dovrei avere i polmoni, eppure ho senza dubbio il fiatone.
Da lontano posso scorgere le luci accese nel salone e sentire la voce acuta di una donna. Come sempre mia madre ha tirato la tenda della finestra che dà sulla strada, convinta che in questo modo i ladri non si possano fare un’idea dell’interno e così siano scoraggiati dal tentare un furto, ma c’è un piccolo spiraglio sul lato destro che mi permette di osservare l’interno.
I corpi appaiono sporadicamente nel mio campo visivo, ristretto a poche decine di centimetri, però questo mi basta per constatare con sollievo la salute di mio padre. Ha il volto segnato dalla stanchezza, ma quando si sistema la cravatta con un movimento secco e sicuro capisco di essermi preoccupata per nulla. Come sempre mia madre ha dipinto la situazione in modo esageratamente drammatico.
Stanno discutendo di qualcosa, che la tempesta non mi permette di sentire. Lei continua a gesticolare, contorcendo le labbra in smorfie di disapprovazione, e lui ascolta distrattamente, annuendo quando gli occhi della moglie lo richiedono e sbuffando quando questa si volta.
-Va tutto bene- avviso Kathleen, rimasta tutto il tempo seduta sul muretto del giardino.
Subito comincia a incamminarsi, senza avvisarmi, ma badando a mantenere un passo abbastanza lento perché io la possa raggiungere. I silenzi mi mettono spesso a disagio, eppure quello che ci accompagna per tutto il tragitto è più rilassante di qualsiasi conversazione. Ogni tanto ci scambiamo qualche sguardo oppure lei controlla che io sia ancora sulla sua scia, dal momento che il marciapiede è troppo stretto per permetterci di camminare affiancate.
Si ferma spesso e studia gli incroci, prima di scegliere una strada con un criterio a me sconosciuto. Ripete quest’operazione fino a quando non ci fermiamo davanti a un negozio di musica dall’aspetto apparentemente trasandato. Dietro alle vetrate scure si cela una stanza arredata con estremo gusto, dalle pareti in mattoni neri, che mettono in risalto le travi portanti scoperte in legno chiaro e gli svariati pianoforti, violini, corni e flauti messi in mostra lungo quello che sembra un largo corridoio.
Il negozio è pieno. Molti dei presenti sono stati colti alla sprovvista dalla tempesta e si sono riparati nel rifugio più vicino. Alcuni sono visibilmente turbati e tendono a stringersi vicino a conoscenti o a instaurare un qualsiasi tipo di contatto con la prima persona che capita loro a tiro, altri ne approfittano per guardarsi in giro. Tra questi, un uomo aitante e flemmatico spicca tra tutti: Charles.
Si sta rigirando un violino tra le mani con così tanta attenzione da non averci notate. Lo tasta, picchia sul legno e pizzica una corda ascoltandone il suono, infine lo allontana il più possibile e lo scruta con attenzione quasi maniacale, come se mettendo della distanza tra sé e l’oggetto il suo giudizio potesse migliorare.
Ormai convinto si rivolge a un uomo dai capelli corvini, accuratamente tirati indietro con il gel. Fa un cenno d’assenso al dipendente, mentre le sue mani trattengono lo strumento, senza volerlo cedere a quello che considerano un estraneo.
Si possono sentire i respiri dei due amanti fondersi in uno solo, mentre la compagna lo guarda con le labbra incurvate al cielo e le braccia strette al corpo, in un abbraccio silenzioso che vorrebbe coinvolgerlo. Dopo averlo osservato un’ultima volta ruota la testa con violenza, staccandosi dalla forza che la attrae. -Andiamo.-
-S…Sì.- Mi coglie allo sprovvista.
Si porta un dito alle labbra, facendomi segno di stare zitta mentre allude a Charles con gli occhi. Non era comunque mia intenzione farci notare. Con passo felpato ci districhiamo tra i presenti, come se uno di loro potesse accorgersi della nostra presenza, come se la nostra esistenza non fosse un segreto.
Ricordo quando Erin si è alterata e ha mostrato a Pauline la differenza tra umani, animali e maestri, sbattendole in faccia la cruda verità. Ha detto che anche gli animali provano dei sentimenti, tuttavia non ha mai fatto riferimento alla possibilità che questi possiedano della abilità particolari.
Ci ripenso, mentre un cane comincia ad abbagliare nella mia direzione. Il dubbio che mi possa vedere si fa sempre più reale, mentre i suoi ringhi si fanno più accesi fino a sfociare in una successione di ululati e latrati. Può vedermi? La padrona perde la presa sul guinzaglio e la bestiolina schizza nella mia direzione, passando nel mio polpaccio e facendomi urlare per lo spavento.
Nessun umano normale sente la mia voce, ma al contrario degli altri Charles si gira di scatto nella mia direzione, proprio mentre Kath mi salta addosso, sbattendomi contro il pavimento. L’urto mi fa annebbiare la vista e, quando i colori tornano a farsi nitidi, il nero dei mattoni è stato sostituito dal giallo della luce di un lampione e Grafton Street è stata rimpiazzata dalla schiera di palazzi dove abitiamo.
Sbattendo gli occhi e mantenendo le mani ben salde al suolo per non perdere l’equilibrio, provo ad alzarmi, ma lo stomaco mi si rivolta. Kathleen è seduta accanto a me, con una gamba distesa e l’altra orribilmente piegata di lato in modo innaturale e raccapricciante. Ho appena scoperto che anche noi possiamo romperci le ossa, se così posso chiamarle, nonostante il mondo esterno non dovrebbe influenzarci.
Poggia entrambe le mani sulla coscia dell’arto spezzato, la stringe, poi colpisce il polpaccio e la gamba comincia a muoversi, a gonfiarsi, comprimersi e dopo poco si rimodella come fosse gelatina, tornando alla sua forma naturale. Gli amanti degli horror avrebbero pianto per l’emozione davanti a questa scena.
-Mi hai fatto male- mi sibila.
-Eh no! Non è sempre colpa mia.-
-Non sono brava a trasportare gli altri e tu mi hai costretta.-
-Non ti ho chiesto io di atterrarmi.- Come del resto non ho chiesto di essere trasportata dal negozio fino a casa.
-Ti avevo chiesto altro- mi accusa, mimando l’atto di parlare con la mano. -Hai urlato davanti a Charles.-
Non volendo litigare, mi affretto a cercare di arrivare alla finestra della mia camera, riuscendo a fluttuare con difficoltà e parecchie ricadute fino ad essa. Cosciente che lei non potrà fare lo stesso mi rigiro verso la bionda. -Bhe, non sali?- chiedo imitando la sua voce.
-Comincia a correre, novellina- mi ringhia, rimboccandosi le maniche assenti e piegando le gambe come per darsi uno slancio.
Senza farmelo ripetere una seconda volta, mi lancio nel muro, rientrando nel corpo che giace addormentato sul letto. Ancora non mi spiego come possa sopravvivere senza un’anima al suo interno, come un’auto che viaggia senza motore.
Mentre riapro i miei occhi fisici, Kathleen appare dal tetto e salta nel suo involucro.
-Troppo tardi.- Le faccio una linguaccia, mentre mi fiondo fuori dalla porta e la sento sbuffare per nascondere un sorriso.
Non andremo mai d’accordo e di sicuro non diventeremo mai qualcosa di più di coinquiline, ma quando litigo con lei provo più coinvolgimento di quanto voglia ammettere, cosa che penso valga anche per la bionda.
Ricordo bene la donna elegante e angelica che mi ha aperto la porta, invitandomi nella sua vita e dimostrandosi poi l’esatto contrario dell’apparenza.
Sorrido, barricandomi nel salotto e poggiando la fronte sul freddo legno della porta.
“Tro-va-taaaa.” Sento una voce cantilenare soddisfatta alle mie spalle e il gelo mi corre sulla pelle.
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