19. Tre biglietti e una possibilità

Mi sono limitata a evitarlo, a fuggire ogni qual volta la sua figura si mostrava, però questa reazione non mi porterà lontano. Ho già attirato troppe occhiate sospette e, se non arriverò a una soluzione in fretta, sarò costretta a dare spiegazioni.

Ho valutato più volte la possibilità di andarmene da questa casa e tornare dai miei in attesa di una nuova sistemazione, ma l’aiuto di Erin e Nathan è di vitale importanza per acquietare le divergenze con Pauline. Devo almeno tentare. Solo dopo averlo fatto me ne andrò.

Parlarne con gli altri maestri è una soluzione altrettanto improbabile, che non escluderei, se non temessi di ritrovarmi contro anche loro.

Nonostante il tempo scorra e le opzioni diminuiscano, voglio illudermi di poterlo fermare e di riuscire a trasformare un attimo in un secolo, in modo da poter prendere una decisione con la dovuta calma, al sicuro da occhi gelidi e mani infuocate. Purtroppo, so fin troppo bene che ciò è impossibile, ma ho anche la certezza che l’indomabilità del tempo non si possa applicare al luogo.

“Vuoi altro tè, tesoro?” chiede mia madre accarezzandomi i capelli come solo un genitore sa fare.

“Sto bene così.”

Le mura della mia vecchia casa mi fanno sentire protetta, mentre mi avvolgono con il loro delicato color panna. Ormai sono passate più di due settimane dal mio trasferimento e a volte, quando torno a visitare i miei genitori, capita che mi senta un’estranea, una bambina che vede per la prima volta qualcosa di nuovo, però mi basta poco per ripercorrere la mia infanzia e valorizzare ogni oggetto con le esperienze di vent’anni di vita.

Mentre aspetto che mia madre finisca di sistemare, mi godo il tepore della tazza di ceramica, che ancora conserva il calore della bevanda che mi è stata offerta. Da un po’ di giorni ho come l’impressione che il mio corpo stia diventando più freddo. Spesso le unghie assumono uno strano colorito violaceo e il naso mi si arrossa a tal punto da avermi fatto guadagnare il soprannome di Rudolf, in casa dei maestri dell’anima. Preoccupata, mi sono rivolta a Erin, non volendo contattare Adam dopo la dimostrazione nella chiesa, e lei mi ha suggerito di aspettare eventuali complicazioni o di chiedere al mio vicino di stanza, che a sua detta potrebbe capirne di più. È superfluo precisare che abbia rifiutato prontamente il secondo suggerimento.

Avrei dovuto dirle di Adam? Non ne sono molto sicura, visto che dopo tanto tempo non sono ancora riuscita a capire il perché quei due si conoscano.

Rilassati! Mi impongo.

In sala da pranzo il tavolo è spostato verso il centro della stanza, abitudine di mia madre per quando riceviamo ospiti, ed è una cosa piuttosto strana se si considera la mania di mio padre per la schematicità. “Se qualcosa non ti serve o lo butti o lo rimetti dove l’hai preso” mi ha ripetuto spesso quando ero bambina, mostrandomi i giocattoli e il secchio della spazzatura nell’implicita minaccia di buttarli nel caso mi fossi rifiutata.

“Papà non l’ha rimesso a posto?” chiedo, impadronendomi di una sedia.

Lei passa una mano sulla superficie legnosa, assorta. “Non ancora.”

“Quello lo vedo, ma come mai?”

“Ha avuto dei problemi.” Incrocia le dita tremanti e il volto segnato dall’età si scurisce. “Non sta bene, anche se ho provato con tutti i rimedi che conoscevo.”

Mamma è sempre stata una persona troppo impressionabile e ciò mi porta a soppesare con attenzione la sua frase.

“Capisco” rispondo, badando a tenere a freno la mia preoccupazione, che non farebbe altro che aumentare la sua. “Cos’ha?”

“Stanchezza, depressione… forse troppo lavoro.”

“Un po’ meno vaga, mamma” la esorto e, appena gli occhi le si inumidiscono, addolcisco il tono. “Vedrai che starà meglio.”

“È andato ora dal medico.” Guarda l’orologio appeso alla parete come se volesse farlo accelerare per poter rivedere il marito, poi si schiarisce la voce e recupera un minimo di vitalità, sorprendendomi con la successiva domanda. “Come vanno le cose con i tuoi amici?”

Apro la bocca per correggerla sull’ultima parola, ma cambio subito idea. “Bene. Ora che la casa è decorata sembra ancora più carina.”

“Non avevano già fatto l’albero?” scuoto la testa. “E il presepe?” A questo punto salta in aria per la sorpresa, sgomentata. “Non va affatto bene! Non possono ignorare tutte le tradizioni.”

Si affanna agitata in cerca di qualcosa, salendo le scale, spalancando i cassetti al piano superiore e rovesciando tutto sul pavimento che mi rimanda suoni sordi e scricchiolii. L’unica cosa che ho preso da lei, oltre alle lentiggini, è l’essere disordinata.

Ormai incapace di distinguere i suoi passi, mi metto ad ammirare l’albero che troneggia nell’angolo vicino alla finestra. Un’altra delle fissazioni di mia madre è quella di ricoprire il bambinello nel presepe, in modo da renderlo invisibile fino alla notte di Natale, durante la quale aspettavo con ansia la mezzanotte solo per poterlo svelare al mondo con fare teatrale. Quest’anno ha deciso di poggiargli sopra un pezzo di velluto rosso, lo scorso aveva usato una foglia secca.

Immergendomi nei ricordi poggio una mano su di esso, dapprima sfiorandolo con esitazione, come se potesse sparire, poi le dita si chiudono sul bordo del tessuto e con un gesto deciso scoprono il bambinello che è al di sotto, facendomi sorridere trionfante come le prime volte.

“Cosa fai?” È alle mie spalle e faccio appena in tempo a nascondere la statuetta sotto il rosso, che mi si affianca. Nonostante sia sicura che il mio scatto non sia passato inosservato, lei non gli dà peso e mi mostra tre ceri bianchi intarsiati da piccole ramificazioni dorate. “Per te.”

“Sta per saltare la corrente?”

“Non dire sciocchezze. Lo sai bene. Così vi potrete preparare al Natale come si deve” ribadisce, sbattendomi le candele davanti al viso e costringendomi ad afferrarle per non rimanere cecata.

Come abbiamo sempre fatto in casa Byrne, vuole che porti a casa i ceri e che li metta all’entrata o su un cornicione. A suo avviso servono per onorare la Santa Trinità.

“Intendi la mia casa?” domando, mentre penso alla reazione che Kath avrà davanti a un simbolo di fede. Potrebbe piacerle l’idea di dover dare fuoco a qualcosa, o potrebbe darlo a me.

“Sono sicura penserai tu al presepe, ma dovete avere qualcosa di mio.” Quei suoi occhioni materni e luminosi mi fanno sentire in colpa. Avrei dovuto dirle che abbiamo già dei ceri, invece che accettarli, ma ormai non avrebbe senso mentirle dopo averle detto che non è così.

Io... L’ho detto? Non ho mai parlato di ceri con lei, solo di alberi e presepi.

“Ma’, chi ti dice che non ne abbiamo già tre?”

“Pauline.” Il nome della ragazza che considera come una seconda figlia la fa aprire in un sorriso a trentadue denti.

I ceri mi cadono dalle mani, rompendosi al suolo. Mi chino subito a raccoglierli per non farle vedere la mia espressione. “Quando le hai parlato?” cerco di rimanere sul vago.

“Non te l’ha detto? No” si risponde da sola. “È passata questa mattina a portarmi questi. Sono emozionata!” Si gira e allunga una mano sul ripiano del camino, estraendo due fogli da sotto la miniatura di un folletto. Li sventola in aria senza permettermi di leggerli, costringendomi a richiamarla per chiederle di spiegarsi in un modo che non sia quello di un cavernicolo.

“La famiglia di Pauline organizza una festa e siamo invitati. Non vado a una cena così da anni ormai” sussurra a se stessa sventolandosi il viso con i biglietti.

“Una festa” ripeto tra me e me.

I biglietti sono di un colorito giallastro, mirato forse a far sembrare la carta più antica, e al loro interno veniamo invitati a prendere parte al rinfresco offerto dalla famiglia Sprenger nella residenza adiacente alla Christ Church Cathedral.

Quando finalmente riesco a smettere di sentire solo il cuore in gola, mi rendo conto che quelli che sto tenendo in mano non sono semplici inviti, quanto piuttosto la mia arma per poter mettere fine al conflitto con la mia migliore amica. E mi sono stati concessi da Nathan, come attesta la firma a fine foglio.

“Non me lo aspettavo.”

“Dobbiamo trovare un vestito adatto e prenotare il parrucchiere e comprare un regalo. Quante cose da fare in soli tre giorni!” Si passa le mani tra i capelli ingrigiti raccolti in una disordinata crocchia.

“Mamma… sono adulta. Posso scegliere da sola cosa mettermi e non andrò dal parrucchiere.” Odio quando degli estranei mi toccano i capelli. È una sensazione di orribile intimità.

“Non sceglierai il vestito. È fuori discussione.”

“Faccio da sola. Sarà sicuramente meglio che sembrare un confetto.”

“Almeno portati dietro Pauline. Lei saprà trovare qualcosa di adatto…”

“Come se tu la conoscessi meglio di me!” urlo senza il minimo controllo, sorprendendo sia lei che me.

Tutta questa situazione mi sta stressando e non ho le stesse capacità di controllo di Charles, né tantomeno la voglia di trattenermi. Nonostante ciò, mia madre non deve essere coinvolta nei problemi del mio nuovo mondo. “Scusa” stringo i biglietti al petto. “Sono stanca.”

“Puoi farlo con me, tesoro, ma stai attenta a non urlare con gli altri. Non voglio una figlia maleducata.” Sempre a preoccuparsi delle apparenze. Se non avessimo un legame di sangue non so quanto riuscirei a sopportarla. “È successo qualcosa?”

“Con Paul intendi? Certo che no, sono solo troppo impegnata.” Impegnata a trovare una soluzione pacifica a un problema soprannaturale.

“Menomale.”

Da quando l’argomento della conversazione è deviato sull’inquisitrice mi sento spossata. Non appena ritroverò la motivazione per andare a una sua lezione, dovrò chiedere ad Adam se esiste un modo magico per spegnere i pensieri. Sarebbe un grande passo avanti per poter cominciare a vivere serenamente.

Non mi dispiace avere un cervello sempre attivo, fino a quando non sono le mie stesse preoccupazioni a prendere il controllo della mia vita.

Sono tornata dai miei con l’intenzione di salutarli e rilassarmi, ma il tempo è scaduto. Dopo che mia madre mi stringe in un abbraccio che si protrae per più di un minuto, esco salutando la sua figura che mi sorride dalla vetrata della finestra.

Molti viali sono stati accuratamente ripuliti dai detriti dei recenti temporali, uno di questi è proprio quello di Pauline. La casa è abbastanza anonima nelle altre stagioni, tuttavia durante quella invernale spicca per la severità dei suoi tratti e per la mancanza di luci artificiali o decorazioni di qualsiasi genere all’esterno. Ora più che mai appare come una roccaforte inviolabile e non credo sia solo un’impressione. In qualche modo è come se potessi percepire un velo coprire il perimetro dell’abitazione, che mi fa accapponare la pelle.

Non posso credere di aver passato una vita qui, senza mai notare niente.

Mentre raggiungo la fermata passo davanti alla loro entrata, facendo l’impossibile per non girare la testa verso la villetta e non accelerare il passo. Se voglio migliorare, se voglio diventare una buona maestra dell’anima, devo imparare a controllare le mie emozioni e non a sopprimerle con il rischio che esplodano.

C’è troppa gente sull'autobus e, non avendo modo di raggiungere le cuffiette nella borsa, mi ritrovo costretta a perdermi nelle vite degli altri. Così, tra l’oppressione di un adolescente e il fetore acre di un vecchio, desidero trovare qualcuno che abbia già vissuto quello che sto passando io, un mio clone con più esperienza e meno dubbi.

Quando finalmente arrivo nel mio isolato ho l’impressione che il mio braccio sia rimasto anchilosato nell’atto di tenersi a uno dei pali sul mezzo di trasporto. Il sole ormai sta tramontando e da dietro le nuvole disegna ombre rossastre sulle facciate dei palazzi.

Bryan è fuori, eliminando in questo modo il problema del killer che lo possiede, almeno per qualche minuto, e Charles mi saluta con un cenno della mano dal divano, con il viso affondato tra le pagine del libro di cuoio che Erin mi ha mostrato la prima volta che ci siamo incontrate. Dai rumori metallici provenienti dalla cucina deduco che ci sia qualcun altro dentro casa, qualcuno che non odora di menta.

Come ho supposto non si tratta della proprietaria, bensì di Kathleen, indaffarata a creare qualche strano intruglio.

“È una specie di diario?” domando a Charles, sedendomi sullo schienale del divano con i piedi poggiati sulla seduta, per avere una buona visuale.

Lui comincia a sfogliare più lentamente le pagine, dandomi modo di leggerle. Man mano che si procede verso il centro del tomo la scrittura cambia, alle volte sembra appartenere a persone differenti. “Sì.”

“Tuo?”

“Non ho mai avuto troppo tempo per queste cose.”

“Erin non mi ha detto quanti anni dovrebbe avere.”

Da unico angelo in questa casa Charles non si tira indietro e, dopo aver riflettuto, risponde. “Ha cominciato a scriverlo verso la fine dell’ottocento.” Apre la prima pagina e mi indica una scritta sbiadita, una firma.

“Beatrice?” Riesco a distinguere abbastanza lettere da indovinare quel nome, ricordandomi che Adam lo ha pronunciato riferendosi a Kath.

La pagina viene prontamente girata e il diario chiuso, mentre quest’ultima fa la sua comparsa con indosso un grembiule da cucina che le arriva alle ginocchia e un mestolo sporco in mano. “Giù i piedi dal divano.”

Charles rimane fermo, ma ho l’impressione che stia trattenendo un sorriso.

“Toglili” mi ripete.

“Perché dovrei?”

“So che sei rozza, non ti devi impegnare per dimostrarmelo.” Si porta la mano libera al fianco, facendo una smorfia. “Non mi piacciono i piedi, figuriamoci se vengono messi dove mi siedo.”

Le mie gambe si stendono lentamente, mentre accompagno la mia discesa dallo schienale tenendomi con le braccia, e quando i piedi sfiorano il pavimento accavallo le gambe, poggiando le mani sul ginocchio e sbattendo le ciglia. Lei in risposta agita il mestolo.

Amour, non credi assomigli a Maria?”

“Mia figlia non era un gorilla” ribatte subito stizzita.

“Esagerata.” A quanto pare Charles non ha lo stesso nostro amore per i battibecchi. Una volta sistemato il volume nello scaffale, le si avvicina e le toglie l’utensile dalle mani, scomparendo nel corridoio.

Kathleen rimane con le dita ferme sul punto dove fino a poco fa posavano le dita del marito e, quando si accorge del mio sguardo curioso, storce la bocca, non riuscendo tuttavia a nascondere il rossore. Cerca di camuffarlo sistemandosi il grembiule. “Cosa vuoi?”

“Io niente.” Le gambe accavallate cominciano a dolermi e sciolgo il loro nodo. “E tu cosa volevi?”

Alla mia domanda si volta per tornare nel suo regno di ingredienti e fornelli, borbottando qualcosa riguardo il mio essere volgare. Approfittando di questo momento di pace, mi stendo, badando a tenere i piedi lontani dal tessuto del divano, e sprofondo nel sonno, risvegliandomi solo quando qualcosa di caldo mi inumidisce il viso e una luce bianca mi trapassa le palpebre.

La prima cosa che vedo è Chim intento a leccarmi la fronte e successivamente Erin entra nel mio campo visivo. Sta pigiando svogliatamente i tasti sul telecomando, cambiando canale sulla piccola televisione, che nel buio della stanza emana una luce accecante. Non l’ho sentita tornare.

“Ehi” mormoro con la voce roca di chi ha bisogno di un bicchiere d’acqua.

Prima che possa rispondere il mio cellulare comincia a squillare dal pavimento. Deve essere caduto mentre dormivo. La maestra lo afferra al mio posto e, mentre lo prendo, osserva il nome che brilla nel buio. “Tuo padre.”

~Salve salvino, maestri!
Scusa il ritardo di questo aggiornamento. L'università mi sta complicando la routine. La mia amata routine.

By the way, ecco il capitolo, cercherò di pubblicare quello seguente in anticipo, per rimediare al ritardo (e anche perché non vedo l'ora che arrivi questa famigerata festa di Natale degli inquisitori 😍).

Ci sarà da divertirsi... Eheheh... O forse no.

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