1. Un libro di troppo
Mi piace guardare dall'alto i prati passarmi accanto in una confusa macchia verde e bianca, che pare quasi confondersi con il cielo lattiginoso caratteristico di questo periodo. Poggio la mano sul vetro e resisto alla tentazione di staccarla subito, godendomi la sensazione del gelo che attraversa la mia pelle bianca.
Non sono mai riuscita a capire quelle persone che dicono di odiare l'inverno. Per me è la stagione più bella. Tutti sono più disponibili, forse per l'avvicinarsi del Natale. Quando cammino per le strade posso vedere il mio respiro condensarsi in soffici e fragili nuvole bianche, che per qualche strano motivo mi fanno pensare al fatto che stia vivendo.
Dei passi mi risvegliano da quello stato di riflessione e, contrariata all'idea che qualcuno sia salito al secondo piano dell'autobus nonostante quello inferiore sia vuoto, mi sistemo meglio sul sedile.
Cercando di non farmi notare troppo sposto lo sguardo e noto che l'invasore si è seduto nella fila di poltrone parallela alla mia. È un uomo di mezza età, dal capo stempiato e i pochi capelli rimanenti brizzolati. Sta guardando dritto davanti a sé e, cosa strana oggigiorno, non indossa cuffiette e non sta usando il cellulare.
Io, al contrario, sto ascoltando un brano di musica classica e le note del pianoforte rendono ancora più magico il paesaggio. Peccato che ci sia quest'individuo a rovinare tutto.
Abbasso il volume della musica, mentre l'autobus rallenta e l'uomo si sporge a osservare la fermata, approfittando dell'occasione per girarmi furtivamente e studiarlo per bene.
La cosa che mi colpisce di più è che stia indossando solamente una camicia in pieno inverno. Non sembra avere freddo, ma per qualche inspiegabile ragione le sue mani sono coperte da pesanti guanti di lana. Quando il mezzo di trasporto si rimette in moto, lo sconosciuto torna a poggiare la schiena sul sedile e si sistema meglio gli occhiali dalla spessa montatura in legno.
Sembra uno scienziato un po' fuori di testa.
Dal momento che è ancora impegnato a studiare chissà cosa fuori dal vetro ho modo di sporgermi per guardare il titolo del libro che tiene poggiato sulle gambe.
Canalizzazione del pensiero, faccio appena in tempo a leggere, prima di incontrare i suoi occhi e trasalire.
Mentre torno in fretta alla mia sistemazione originaria mi metto a guardare con finto interesse fuori, sperando di non essere stata notata.
Ormai siamo quasi arrivati al capolinea e i palazzi stanno sostituendo il mio bel panorama bianco. Sto per rialzare il volume della musica quando mi viene in mente un'idea folle, dettata dalla noia.
Ripenso al titolo del libro e mi apro in un ghigno divertito. Senza muovere il viso mi assicuro che l'uomo dei guanti sia ancora al suo posto e penso. -So che mi senti! È inutile che menti, perché so che ci sei. Bhu! Sarai anche strano, però sei un gran maleducato, sai?-
So bene che potrebbe sembrare da pazzi, ma non me ne preoccupo. La mia mente è l'unico rifugio sicuro in cui posso fare o dire liberamente tutto ciò che voglio.
Sono sicura che chiunque verrebbe giudicato folle se gli altri potessero sentire i suoi pensieri, ma è proprio la sicurezza di non essere scoperti che ci permette di essere noi stessi, e io amo questa nostra grande possibilità.
L'autobus frena così bruscamente che sono costretta a reggermi al corrimano per non cadere. L'uomo si alza per scendere e mi scopro dispiaciuta per questo. Mi sono ricreduta e devo ammettere che quella compagnia, così strana e silenziosa, è stata un passatempo piacevole.
Ma questo sentimento viene sostituito molto velocemente dal panico quando lo vedo avvicinarsi e fissarmi con quei suoi piccoli occhi rapaci. Da vicino il suo aspetto è diverso, per niente simile a quello di un pazzo. Il suo sguardo mi rivela un'intelligenza non comune.
"Se la consideri il tuo luogo segreto, allora non entrare in quella degli altri" mi dice schiettamente prima di scendere.
Nonostante il mezzo sia ripartito non posso far altro che rimanere imbambolata a fissare silenziosamente l'aria, che prima era occupata dalla figura dell'uomo. Quando mi riprendo e mi appiattisco contro il vetro per trovarlo è ormai troppo tardi.
Per un attimo valuto la folle possibilità che lui abbia sentito realmente i miei pensieri, ma subito dopo faccio un bel respiro e ricomincio a pensare in modo razionale. È probabile che abbia notato il modo in cui lo fissavo. Appena me ne convinco divento rossa da capo a piedi. Nonostante il freddo sia pungente sento il corpo andare in fiamme per l'imbarazzo.
Alzo la mano per sventolarla davanti al viso accaldato. Che figuraccia...
Quando scendo dal 5A, due fermate dopo di lui, vengo travolta da un vento violento che sembra volermi strappare via persino la pelle. Mi tengo i capelli con una mano per evitare che finiscano davanti agli occhi e mi incammino per Dawson Street, dopo essermi tolta le cuffiette.
Quando si è da soli la musica è stupenda, ma in luoghi affollati è molto più interessante guardare ciò che mi accade intorno, ascoltare il suono della vita al di fuori della mia.
Essendo prossimi a Natale molte persone portano grandi buste o tengono bambini per mano, mentre questi ultimi indicano freneticamente ogni tipo di oggetto che potrebbe piacer loro. Ricordo quando chiedevo a mia madre di comprarmi qualche costruzione e lei mi regalava puntualmente una barbie.
"Sherry, devi essere femminile" mi ripeteva.
In tutta conferma adesso vago per la città con un giacchetto malandato e una borsa di lana rattoppata al meglio.
Una gran cerchia di persone attira la mia attenzione. Mi avvicino e noto che al centro di essa c'è un ometto basso, dalla barba rossa e i capelli scompigliati uniti da placche di sporco solidificato. Sta raccontando la storia della sua vita, cercando di convincere tutti i presenti a prendere parte alla sua sopravvivenza con una piccola donazione. Che scemenza.
Alcuni ci cascano e con sguardo caritatevole buttano monetine nel vecchio cappello.
Se mi chiedessero il perché penso che si tratti di una truffa non saprei spiegarlo. Non sono insensibile o cinica. Semplicemente alle volte mi capita di avere l'impressione di sentire la verità, di percepire i loro sentimenti. Sono empatica, a detta della mia migliore amica.
Arrivo finalmente davanti all'indirizzo indicato sul messaggio: Trumpington Street, 15.
Oggi è un giorno importante, un possibile prologo della mia metamorfosi. Se tutto andrà bene, cambierò casa e mi allontanerò dai miei genitori per la prima volta in vent'anni. Sono emozionata e allo stesso tempo sento un nodo allo stomaco, non per paura ma per il timore di qualcosa di nuovo.
Alzo lo sguardo per dare un'occhiata alla casa prima di salire i gradini che mi separano dall'ingresso: doveva avere un bellissimo colore un tempo, ma ora i cornicioni delle finestre, le mura e le grondaie sono rovinate e un alone nero ricopre i mattoni un tempo chiari. L'apparenza tetra dell'edificio viene però bilanciata dai numerosi vasi color verde chiaro, che in estate renderanno la casa un po' più viva spargendo fiori sulla facciata.
Prendo un bel respiro e, tenendo la mano sull'addome, avanzo fino ad arrivare al portone per poi bussare. Passano secondi di interminabile attesa durante i quali ho l'opportunità di farmi milioni di complessi sulla scelta della casa e su quello che riserverà il futuro per me, considerando che avrò anche dei coinquilini, sebbene alcuni di loro non risiedano qui stabilmente.
Ecco che finalmente la porta cigola e si apre. Una testa si va a collocare nella fessura appena creatasi. La pelle candida del viso è così in contrasto con il colore scuro della porta e delle mura da farla sembrare quasi un fantasma.
"Desidera?" mi chiede con cortesia squadrandomi da capo a piedi.
"Io... sarei qui per la casa..." inizio titubante. "Cioè... per la stanza, volevo dire la stanza."
Apre un po' di più la porta, badando a non esagerare. Non capisco cosa stia facendo. "Ma certo, sei la ragazza dell'altra settimana... la signorina Byrne. Ci siamo già incontrate all'agenzia immobiliare" Aspetta una mia conferma.
"Già, puoi chiamarmi Sheridan."
"Kathleen Kennedy" si presenta lei.
Sporgo la testa verso l'interno della casa. "Posso entrare?"
Lei pare finalmente accorgersi che sto per diventare un ghiacciolo e spalanca gli occhi per la sorpresa. "Certo. Non ho aperto molto per non far uscire il gatto."
Noto solo in questo momento che alla base della porta un piccolo musetto bianco preme contro la gamba della ragazza cercando di uscire. Lei continua a spostare il piede impedendoglielo.
Soffoco una risata, mentre lei sospira e butta la testa indietro e alza la voce. "Erin, porta via il tuo dannato Chim da qui."
Torna a guardarmi e mi dice di aspettare qualche secondo. È una bella donna, dalle sopracciglia bionde e curate e i capelli lisci dello stesso colore, tagliati in un elegante caschetto. Un piccolo neo poco al di sotto dello zigomo destro le dona un aspetto quasi aristocratico.
Finalmente si sentono dei passi veloci e qualcun altro si ferma nel corridoio che io ancora non riesco a vedere. Il gatto emette un miagolio e rientra, permettendomi così di oltrepassare la soglia della casa. L'edificio è vecchio, ma ben tenuto. C'è odore di menta nell'aria.
Una donna più robusta di Kathleen, sui trent'anni, dai folti capelli mori, lascia andare il gatto e mi si avvicina con le braccia spalancate, stringendomi.
Non so come reagire. Non la conosco, il che rende la situazione ancora più strana.
Lei mi scioglie dalla sua stretta e prende una ciocca dei miei capelli. "Sono stupendi! Sembrano quasi bianchi!" Li sta fissando a bocca aperta.
Faccio un passo indietro, riprendomi la mia ciocca. "grazie del complimento" dico, cercando di non far trasparire la mia agitazione dal tono di voce.
"Per favore ignora Erin. Tende a essere molto espansiva." Kathleen si porta una mano al fianco e scuote la testa. Erin, la proprietaria di questa casa, penso.
Intanto il nodo allo stomaco mi si è sciolto. Ero titubante riguardo alla mia scelta, ma questa casa e questi coinquilini si stanno dimostrando interessanti. A nessuna delle due donne davanti a me sembra importare delle formalità e delle apparenze, basta guardare il modo in cui mi ha accolta Erin.
Voglio conoscerle meglio.
Mi fanno cenno di seguirle e ci accomodiamo in un salotto, arredato con mobili in legno scuro pieni di libri. L'assenza di foto sui ripiani e sulle pareti lo fa sembrare uno studio. Mi sono tolta le scarpe all'entrata, sotto indicazione di Kathleen, e ora sento il morbido calore della moquette sotto i piedi. Mi siedo sulla poltrona, felice di poter stare accanto al fuoco del loro piccolo camino, ma proprio mentre lo faccio un libro familiare, poggiato per terra, attira la mia attenzione. Il titolo in lettere dorate risalta sullo sfondo nero della copertina: Canalizzazione del pensiero.
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