Capitolo 33 perderla

I sensi sono storditi tra il colore bianco delle mura e l'odore di disinfettante.

È un luogo strano l'ospedale.
Può essere felicità, salvezza e nascita ma anche paura e dolore.

Ed Oliver la sente come forza la paura.
La sente creare disordine nella sua testa e nel suo petto.

E rimane immobile, seduto su una sedia di plastica, davanti all'indifferenza degli infermieri.
A cui da mezz'ora continua a chiedere notizie di Emma.
Ricevendo sempre la stessa risposta.

"Possiamo parlare solo con famigliari."

E a nulla sono servite urla e minacce, se non ha rischiare di essere mandato via dalla vigilanza.
Deve ringraziare Rayan se l'hanno fatto rimanere.
Lo stesso seduto vicino a Sofia, che cerca di calmare e di fermare i suoi singhiozzi.

È soffocante come tutto sia cambiato.
Come in pochi istanti si sia ritrovato così, seduto e terrorizzato all'idea di non vederla mai più.

Una volta arrivato in ospedale, gliel'hanno tolta dalle mani, per poi portarla in una sala a cui è vietato l'accesso.
Con una scritta sopra, emergenza, illuminata di rosso.

Sofia ha già avvisato Caterina.
Che non è ancora arrivata a causa del traffico che segna l'ora di punta.

Oliver, dopo la discussione avuta con l'infermiere, si è chiuso in un silenzio che rende ancora più rumorosi i suoi pensieri.

Chiedendosi cosa è successo.
Perché è successo.
Per colpa di chi.

Fino a chiedersi se non sia stata colpa sua.
Se non c'entri quella stupida discussione avuta il pomeriggio.
O se sarebbe dovuto arrivare prima.
Forse è stato troppo lento a soccorrerla.

L'orologio poco lontano segna già le 19.
Dovrebbe tornare a casa, sicuramente il padre aspetta spiegazioni per la sua scomparsa.
Ma Oliver non si muove e non lo farà finché non saprà cosa è successo.

"Caterina."

La voce di Sofia gli fa alzare il capo di scatto.
Sollevato di vedere finalmente la madre di Emma, che saluta un dottore.
Segno che forse sa già qualcosa sullo stato di salute della figlia.

"Come sta?
Cosa ti hanno detto?"

Le chiede Sofia correndo verso di lei, seguita da Rayan.
Mentre Oliver rimane seduto, dubitoso che le gambe lo reggano.

"Sta bene, per ora è stabile.
Sapremo di più una volta superata la notte.
Perciò potete tornare a casa ragazzi, vi aggiorno io."

Tornare a casa?
No, questa è un opzione che Oliver non può prendere in considerazione.
Non esiste che torna a casa senza averla prima vista.

"Non posso andarmene.
Non finché non la vedrò sveglia."

Parla a voce bassa, rimanendo immobile con lo sguardo verso il pavimento.
Per nulla soddisfatto della spiegazione di Caterina.

"Oliver.
Dovresti stare qui tutta la notte.
E sotto anestesia e non si sveglierà prima di domani mattina."

Ma Oliver è sordo e duro di comprendonio.
E pronto a stare qui tutta la notte, seduto su questa sedia.
Ma non se ne andrà.

Si alza, pregando le gambe di non farlo cadere.
Avvicinandosi a passo veloce anche se instabile, a Caterina.

"Tu non capisci.
Lei ha chiamato me, ME.
Ed io non sono stato in grado di salvarla.
Sarei dovuto arrivare prima, fare di più.
E..."

Un nodo gli si forma in gola, negandogli il respiro.
Gli occhi offuscati dalle lacrime, che da tempo non versava.

Sente di essere vicino all'esasperazione.
Come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere.

"Non potevi fare nulla.
Non è un malessere che dipende da noi.
E qualcosa di più grande e crudele.
Di cui solo lei ti può parlare."

Invece di calmarlo, tira ancora di più i suoi nervi.
Come una lama che gira nella ferita.

"Cosa vuol dire che me ne deve parlare lei?
Cos'ha per ridurla così?"

Caterina prova a calmarlo, anche perché gli infermieri iniziano a guardarlo male.
Anche a causa dei suoi precedenti trascorsi.

Ma Oliver gli mette le mani sulle spalle, addolorato nel specchiarsi negli stessi occhi di Emma.

"Tu non capisci.
Lei stava per morire tra le mie braccia.
Ho sentito il suo corpo spegnersi ad ogni secondo che passava.
Ho sentito il suo cuore rallentare sotto il palmo della mia mano.
Perciò non puoi dirmi che me ne parlerà lei.
Non puoi."

E se ne frega delle buone maniere, di darle del lei.
Ora ciò che gli preme nella mente come un mal di testa, è sapere cosa è successo.
E perché lei stava morendo tra le sue braccia.

Caterina, si morde il labbro nervosa, ricordando ancora di più le somiglianze con la figlia.
Guarda con titubanza il ragazzo, sapendo bene quanto Emma ci tiene che in pochissimi sappiano la sua situazione.

Ma negli occhi di Oliver legge disperazione.
Paura di essere finito in un gioco più grande di lui, in cui è caduto di testa.
Legge quanto sia importante Emma per lui.

"Andiamo a prenderci un caffè.
Sarà una lunga chiacchierata.
Sofia, voi andate tranquilli, sai come sono lunghe queste cose."

Sofia annuisce, andando via con Rayan senza dire una parola.
Non è la prima volta che segue Emma in quel reparto.
E sa ormai come funziona la sua malattia.
Sa che finché non si sveglia, non ci sarà nulla da fare.

Invece Oliver, all'improvviso di nuovo silenzioso, segue la donna verso l'angolo bar situato nello stesso piano.

Si siede davanti a lei e si limita ad annuire quando gli propone un caffè.
Con la mente vuota, pronto a riempirla di informazioni.
A scoprire finalmente cosa da tempo nasconde Emma Lopez.

"Grazie."

I caffè vengono serviti velocemente e da un cameriere, già stanco e vittima di un doppio turno, per rispondere alla donna.

Una volta rimasti soli, Caterina non ha più scampo.
E, pregando che Emma la perdoni per ciò che sta per fare, inizia a spiegare la situazione di sua figlia.

"Cercherò di essere più chiara possibile.
Come lo hanno spiegato a me un anno fa."

Ingoia un nodo in gola, ripercorrendo quest'ultimo anno.
Non proprio così fortunato.

"Era fidanzata da un anno circa con un ragazzo, Andreas.
Un giorno litigarono davanti a casa, per una gelosia morbosa che da un po' mostrava con troppa enfasi."

Oliver si lita ad ascoltare.
Nascondendo sotto la tavola i pugni stretti nel sentire nominare quello stronzo.

"Una discussione un po' più forte.
E, all'improvviso, vedo mia figlia svenire.
In una crisi epilettica e con i battiti sempre più lenti."

Ecco perché non era così sorpresa davanti alla spiegazione di lui.
Semplicemente perché non è la prima volta che succede.

"Settimane di analisi e visite.
Mentre a mia figlia bastava un po' di stress per andare in tachicardia.
Oppure una emozione troppo forte, positiva o negativa."

Nella mente di Oliver un ricordo si fa più vivido degli altri.
Quel pomeriggio a casa sua, dove per poco non sveniva alla vista di Thomas che giocava.
Mentre lui si era bevuto la scusa del calo di pressione.

"Poi finalmente i risultati.
Un tumore al cervello.
Specificamente al amigdala, la parte del cervello che si occupa delle emozioni."

Il tempo intorno a loro si ferma.
Quella parola crea un vortice di paura e confusione nella testa di Oliver.
Tumore.

Una malattia che si conosce solo in TV.
Che si conosce nei film o nei rarissimi casi che si sentono in televisione.

E mai si pensa che può capitare a te, o alle persone che hai intorno.

Mai Oliver ha pensato che un tale male l'avrebbe toccato da così vicino.

Un male talmente spaventoso, da non essere nominato.
Da fingere che non esiste.

"Il termine morire per la felicità è letteralmente possibile per Emma.
Qualsiasi forte emozione che prova, rischia di ucciderla.
Il tumore preme sulla parte del cervello che in quel momento è più attivo, e lo manda in tilt.
Così facendo, manda in crisi tutti gli organi.
Dai polmoni al cuore"

Ormai Oliver è senza parole, non sa come consolare la donna che non trattiene più le lacrime.

Perché terrorizzata di perdere la figlia per una emozione di troppo.
Impotente davanti a una figlia, su un letto bianco, senza che si possa fare nulla.

"L'unica cosa che mantiene i suoi valori, sono delle pastiglie che azzerano le sue emozioni, rendendola una bambola di pezza.
Ma quelle stesse pillole aumentano i suoi ormoni che quando poi scoppiano creano il doppio dei danni."

Ed ecco spiegato anche perché di quei giorni di vuoto.
Di quei giorni in cui Emma diventava empatica e nulla a tutto.

La sua stessa cura, che è anche il suo veleno.
Ironia della sorte.

"Ma ci sarà una cura.
Un intervento, qualcosa."

Parla per prima volta Oliver, non potendo credere che finisca così.
Che non c'è nulla che si possa fare.

"Dovrebbe fare una chemioterapia particolare.
Poi un operazione pericolosa.
Nel peggiore dei casi non sopravvivrebbe, oppure potrebbe perdere vista o altre capacità.
Oppure diventare completamente empatica."

Il cervello è un organo delicato.
Basterebbe un niente per fare danni.
E le possibilità di un arresto cardiaco sono molto alte.

Ma non è solo questo che ferma la famiglia a provare questa evenienza.

"E poi.
Sia l'operazione che la cura costano davvero molto e non sono coperte dalla mia assicurazione.
In poche parole non posso permettermi di salvare mia figlia."

E Caterina scoppia in lacrime, raggiunge il limite della sopportazione.

Perché mai dolore è più grande di quello di sopravvivere ai propri figli.

E Oliver fa l'unica cosa possibile.
L'abbraccia, condividendo un dolore comune.

E no, Oliver non ha la superbia di accomunare il dolore di una madre al proprio.
Ma la stringe a se, sentendo anche lui la paura di perdere una persona diventata importante per lui.

E trattiene il fiato.
Capendo che tutto ciò che si crede un problema, è una cazzata rispetto a un male così grande.
Davanti a una malattia così crudele e letale

"Posso vederla?"

Chiede in un sussurro lui, ormai intrappolato in un uragano di emozioni che gli rema contro.

"Sei sicuro?
Non è un bel vedere."

Lo avvisa, sapendo già in che stato troverà la figlia.

Ma ad Oliver non importa.
Ormai la situazione gli è sfuggita dalle mani e ha solo bisogno di vederla.
In un pensiero egoista, vuole vedere con i suoi occhi, toccare con mani per crederci.
Per capire che è tutto vero.

Quindi si limita ad annuire e a seguire la donna verso il piano superiore.
In silenzio, con solo il rumore di passi a fargli da compagnia.

Questo piano è quasi vuoto, se non per un paio di infermieri.
Fermi e pronti alle emergenze.

La camera di Emma è la 207C.
Ma la madre non apre la porta, sa che non gli è permesso fino a domani.
La supera, fermandosi davanti a un finestrale che si affaccia sulla camera.

Il cuore di Oliver si ferma, gli occhi si impongono di vedere.
Anche se ciò che vede, gli fa morire il respiro in gola.

Emma è immobile su un lettino, con una flebo attaccata al braccio.
Ma non solo.

Non sono le pinzette sul petto di lei, che mandano i battiti cardiaci alla macchinetta, a dare i brividi a Oliver.

Ma, più di tutto, vedere un tubo infilato in bocca.
Sicuramente per aiutarla a respirare.

È scandaloso, distruttivo, vedere una ragazza sempre piena di energia come Emma.
Ridotta in questo modo.

Ed è il crollo definitivo per Oliver.
Le gambe cedono e lui finisce in ginocchio.
Con la mano premuta sul vetro nell'illusione di poterla toccare.

Il suo mondo, più o meno normale, crolla in rovina.
Togliendogli sogni e certezze.

Spesso ha pensato di poterla perdere.
Ma mai così, mai in un modo così definitivo.

E invece, più la guarda in quello stato, più pensa che la perderà davvero.

Per sempre.
Ed è forse il peggior dolore che ha mai provato.

Passano ore prima che torni a casa.
Ore passate a girare senza una meta.
Nella piena confusione di tutte le informazioni che ha assorbito.

Appena entra in casa, il padre è nel soggiorno ad attenderlo.
In piedi davanti a lui.

"Che ti è venuto in mente di andare via così?
Sai che figura mi hai dato fare?"

Continua a sgridarlo il padre.
Ma Oliver non lo sente, non sente nulla.

Nella mente ancora l'immagine di lei, attaccata a quei maledetti tubi, con la pelle bianca e gli occhi chiusi.

E il padre è fermo, severo mentre gli parla.
Ma Oliver si sente fragile, ritorna bambino.
Perde la corazza che si è creato durante tutta la sua vita.
E crolla definitivamente, come non si è permesso per tutto il giorno.

E come un bambino che cade e si sbuccia le ginocchia, Oliver fa la stessa cosa.
Corre tra le braccia del padre.

Ivan, che da anni non abbraccia suo figlio, ora rimane spiazzato.
Rimane con le braccia sui fianchi, mentre il figlio si aggrappa a lui.

"Perderò anche lei papà.
E questa volta, non so come mi rialzerò."

Balbetta Oliver, stringendo tra i pugni la camicia pregiata del padre.
Macchiandola di lacrime.

Le stesse che Ivan non ha mai visto sul viso del figlio.
Ne meno quando è tornato un anno fa da quel trascorso burrascoso.
O quando la madre se n'è andata via.

Il tempo intorno a loro si ferma.
E come ghiaccio sotto il sole, anche la maschera del grande uomo d'affari si scioglie.

Alza le braccia, stringendo suo figlio a se.
Tornando a molto anni prima, a quando anche un brutto sogno era un buon motivo per stringersi.

Sostiene il figlio, spostandosi verso il divano, facendolo sedere al suo fianco senza fargli lasciare le sue braccia.

Natalie arriva qualche secondo dopo e per poco non ha un mancamento.
Pietrificata nel vedere il signor Johnson, stringere con forza il figlio che non smette di piangere sul petto del padre.

Una immagine che non credeva possibile.
Una scena che non vedeva dai tempi dell'infanzia di Oliver.

Si mobilita solo quando Ivan gli fa segno di portare qualcosa da bere e mangiare.
Anche per avere un po' di privacy con il figlio.

Una volta da soli, gli accarezza il capo, lasciandolo sfogare.
Risentendo dentro di sé quell'istinto paterno, che aveva perso negli ultimi anni.

"Che succede Oliver?
Parlami e farò di tutto per aiutarti."

Non sentiva questo tono dolce, da parte del padre, da troppo tempo.
Ma la sua disperazione non gli permette di bearsene.

"Ho già sofferto la perdita da parte della mamma.
Non potrò sopravvivere anche alla perdita di lei."

Parla tra i singhiozzi, lasciando andare tutto il cumulo di dolore che sente dentro.

Il padre gli afferra il viso, in modo da incrociare i loro occhi, fatti delle stesse sfumature di grigio.

"Tu non hai perso tua madre e lei che se ne andata.
Ed è lei ha perderci, perché non ha visto crescere l'uomo che sei diventato.
Se sene andata, non è perché l'hai perduta, ma perché è lei che ha perso te."

Non gliel'ha mai detto prima.
Non si è mai reso conto di quanto il figlio avesse bisogno di queste parole.
Troppo impegnato nel proprio dolore, a diventare freddo come il gelo che ha investito il suo cuore.

"Ora.
Parlami di questa ragazza.
Chi ti ha ridotto così?"

Si aspetta un rifiuto amoroso, magari anche un tradimento.
Non di certo le parole che Oliver sussurra senza forze.

"Sta morendo.
Ed io non posso fare nulla."

Del cibo che porta Natalie sul tavolino, i due uomini non ne toccano una mollica.

Ivan rimane fermo di fianco al figlio.
Mantenendo la sua mano, ormai ruvida e matura, su quella più giovane del figlio.

Lo ascolta, accoglie il suo sfogo.
Senza poter avere una parola di consolazione per la storia della ragazza.

Oliver, in parole meccaniche e severe, spiega la malattia di Emma.
Che, a furia di ripeterla, acquisisce sempre più verità.
Diventa realtà.

"Quella ragazza non solo è la mia tutor.
Non solo a creduto in me, aiutandomi, quando ne meno io ci credevo.
E qualcosa di più, qualcosa che non so spiegare.
Ma che mi spinge a supplicare di non perderla."

Ivan legge negli occhi lucidi del figlio, quel sentimento profondo che un tempo lui stesso ha provato per la madre di Oliver.

"E ora mi sento impotente.
Un ragazzino davanti a un problema da adulti.
E non voglio perderla, non posso."

Scoppia nuovamente a piangere e, questa volta e il padre ad accoglierlo tra le sue braccia.

Tutti questi anni di gelo, si sciolgono e gli cadono addosso.
Capendo di aver perso l'intera vita del figlio.
Di essere stato uno stupido ad essersi chiuso nel lavoro, pensando che così avrebbe sofferto meno.

"Perdonami figlio mio, se ti ho abbandonato nel momento di bisogno."

Lo stringe a se, lasciando che umili lacrime sfiorino le righe che segnano la sua età.
Ed Oliver non ribatte, non gli rinfaccia nulla, è un bambino che si stringe ancora di più a suo padre.
Felice di averlo finalmente ritrovato.

"Ti prometto che non me ne andrò più.
Le cose cambieranno e sarò il padre di cui hai bisogno."

Perché non sono i soldi la vera ricchezza.
Non valgono nulla se poi suo figlio si dispera sulla sua spalla.

L'ultima volta che questa casa ha visto lacrime, Ivan ha preferito nascondersi.
In un gesto egoista, ha preferito pensare ad altro, a concentrarsi sul lavoro.

Perdendo così il legame con il figlio.
Ciò che è davvero importante.

"Vedrai che troveremo una soluzione.
Ci sono io con te."

E Oliver si aggrappa alle parole del padre.
Perdendo il suo orgoglio, la testardaggine, la voglia di sembrare già adulto.

Quando invece è ancora un ragazzino di 17 anni, non minimamente pronto al mondo degli adulti.

Così, si aggrappa al padre appena ritrovato.
Sperando che il giorno nuovo che verrà, sarà migliore di oggi.

E, grazie alle carezze del padre, si addormenta.
Forse per le troppe lacrime o per lo stress accumulato nelle ultime ore.

Il padre lo stende sul divano, non potendo spostarlo data la sua statura.
Lo copre con cura, per poi prendere il telefono.

Senza allontanarsi troppo, se non quanto basta per non disturbare il suo sonno.

"Signor Johnson.
Cosa la porta a chiamarmi a quest'ora?"

E il suo assistente dall'altra parte della cornetta.
Assonnato e forse già a letto, dato il tono.

"Mi serve che chiami Wright Parker.
Lo voglio nel mio ufficio entro domani, è urgente."

Chiude la chiamata senza attendere risposta.
Con lo sguardo fisso sul figlio.

Promettendogli chequesta volta gli starà vicino, senza mai più lasciarlo solo in balia deldolore.

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