Pudica Ipocrita
Non ricordo nemmeno quando tutto è iniziato o forse, semplicemente, esiste un meccanismo di difesa che scatta quando tento di farlo, per preservare ciò che ancora di sano alberga in un angolino remoto della mia testa.
*
La cornice è dannatamente storta su quella schifosa carta da parati, non riesco a vedere altro che quell'asimmetria.
Sento un tumulto nell'addome e la salivazione che aumenta velocemente. Ingoio, per quanto farlo, stimoli ancor di più il dolore alla bocca dello stomaco. Con un movimento meccanico che mi viene spontaneo, stacco quelle viscide mani da me. Non lo guardo nemmeno in faccia, resto di schiena e raggiungo con due passi barcollanti il muro.
È freddo, nonostante sia rivestito con una spessa carta di quelle che hanno disegni astratti in rilievo. Questo contrasta con il calore che sento arrivare di nuovo dietro di me e che mi prende, incollandosi al mio corpo. Richard mi schiaccia contro la parete, il mio viso sfiora quel maledetto attestato che a dispetto di ciò che sta succedendo, elogia il citato "dottor Sloan" come psicologo degno di ricevere questo titolo.
Chiudo gli occhi e lascio ancora che siano le sensazioni a dirmi cosa fare. E allora invece che riprendere in mano il controllo della situazione, mi sento travolgere da una strana spirale ascendente. Appare un lungo corridoio nero. C'è una luce in fondo, ma invece di rassicurarmi, mi mette paura. Lo sento... È quella cosa disgustosa... quella che viene a farmi visita nei terrificanti incubi che come avvoltoi mi beccano affamati nei pochi momenti notturni in cui non sono insonne.
È vicino al mio orecchio destro che mi sussurra parole indicibili. Mi si drizza la pelle e vorrei solo urlare, vorrei solo muovere le braccia e levarmi quella voce ostica che entra dal mio piccolo padiglione, ma che si allarga ed occupa ogni fibra del mio essere, se ne appropria come fosse terra da conquistare, come se fossi un animale inerme, peggio, un vegetale. Sono legata. Legata mani e piedi... Non riesco a muovermi... Soffoco...!
Un urlo, il mio, mi riporta alla realtà. Sento che la pressione dietro di me viene allentata gradualmente. Ora sono leggera come una piuma e mi distacco dal muro. Respiro affannosamente, ma il mio braccio si alza verso l'alto, nell'unica cosa che vorrei fare in questo momento: raddrizzare l'attestato. Basta poco, sollevo l'angolo inferiore destro e mi torna ossigeno nei polmoni.
Non ho il coraggio di voltarmi verso Richard, né di capire cosa sia successo, perciò fisso di sbieco la porta. Mi basterebbe allungare una mano e afferrarne la maniglia, ma lui evidentemente capisce e si frappone tra me e l'uscita.
"Non ho voglia di giocare, Richard!", graffio le corde vocali mentre gli ringhio contro. Mi stupisco di essere riuscita ad aprir bocca. La gola mi pulsa e allo stesso tempo sento di non aver più sangue nelle vene.
Da quanto lo conosco? Da tre o quattro anni? Da parecchio comunque e prima ancora di venire da lui in analisi. È amico di mio padre, lo era, anzi. Abbiamo passato tanti weekend nella sua baita in montagna con lui, sua moglie Meredith e il loro figlio Max, anche lui ventenne come me, all'epoca.
"Scusami Mya...", la sua voce affranta. Lo fisso dritto negli occhi: voglio capirci qualcosa adesso. La salivazione è ancora abbondante, ho voglia di vomitare, ma devo trattenermi, non posso andare via proprio ora.
La sua figura alta e imponente, lascia la posizione con cui ostruiva l'uscita e il suo passo lo accompagna lento alla poltrona. Non mi guarda nemmeno in faccia, ha il viso arrossato, se lo sfrega come a volerlo nascondere dietro quelle grandi mani dalle unghie curate anche se un po' ingiallite nella destra, dove tiene perennemente quelle sgradevoli sigarette di cui pare nutrirsi. E ha voglia di fumare adesso. Lo noto dall'agitazione che gli percorre il corpo fino a farlo vibrare.
"Quello che è successo...", esordisce dopo una lunga pausa. "Perdonami...".
Non aggiunge altro. Il ribrezzo che provo verso quest'uomo aumenta ogni secondo che passa e mi ritrovo a lottare con il mio stesso cervello. Con lui ci ho provato tante volte, troppe, eppure adesso che ha ceduto, mi ha causato talmente tanta repulsione da voler fuggire. Vorrei strapparmi di dosso quell'alone di lerciume che mi si è appiccicato. Bramo solo infilarmi sotto la doccia e restarvi ore e ore, e so che nemmeno così riuscirei a ripulirmi del pesante senso di nausea che mi attanaglia.
Vago in cerca di una spiegazione, ma mi rendo conto che nemmeno io riesco a capirmi, per questo preferisco non aggiungere altro e recuperare il mio giubbotto, per poi lasciare frettolosamente lo studio.
Mio fratello non è nella sala d'attesa ad aspettarmi, sarà sceso a fumare. Corro giù per la scalinata che si contorce come un serpente e spero di lasciare dietro di me tutti quei mostri che vogliono soggiogarmi.
Sono un'ipocrita, lo so bene, una pudica ipocrita.
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