Capitolo 12 - Litigi (R)
Il weekend passò troppo velocemente e la mia mano offesa, stranamente, stava guarendo piuttosto in fretta: nel giro di due giorni era rimasta solo una sottile linea rosata un po' in rilievo. Non ci feci troppo caso, d'altronde sin da piccola ogni tipo di ferita che mi provocavo, guariva in maniera particolarmente veloce.
Mentre facevo colazione, pensai al fatto che il bello di non vivere con i genitori era che potevi fare quello che volevi, anche saltare scuola e non l'avrebbero mai scoperto; il brutto di avere la professoressa amica di tua madre invece, era che non potevi assentarti nemmeno un giorno, perché i tuoi l'avrebbero saputo immediatamente.
Maledissi quest'arma a doppio taglio e mi vestii velocemente, mangiai e uscii pronta per l'ennesimo lunedì. Ad aspettarmi in fondo al vialetto c'era il mio vicino, già sulla sua jeep, che mi guardava divertito.
«Buongiorno, Bella Addormentata. Passato un bel weekend?»
Certo, come no! Avevo passato notti così tranquille dopo che era irrotto in casa mia in piena notte, per chissà quale motivo, e dopo che mi aveva lasciata sola e imbambolata quando era più che evidente il fatto che stavamo per baciarci!
«Incantevole, grazie.» Mi incamminai verso la fermata dell'autobus, pregando di trovare posto a sedere una volta salita.
«Non passerà.»
Mi voltai in direzione di Stiles che stava guidando, a passo d'uomo, nella mia direzione e con sguardo ostile gliene chiesi il motivo.
Rise allegro. «Secondo te perché mi sono comprato una macchina?»
Mi alzai dalla panchina e sbuffai esasperata. «Mi stai suggerendo di comprarmi anche io un qualsiasi mezzo di trasporto?»
«In realtà ti sto offrendo un passaggio. Salta su!»
Non me lo feci ripetere due volte e mi accomodai sul sedile del passeggero.
Il viaggio fu breve, ma non smettemmo mai di parlare di tutto e di ridere per ogni stupidata: mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo, quando era ancora tutto normale.
«Siamo arrivati.»
Con un punta di delusione, indossai il miglior sorriso che possedessi e scesi dalla vettura, aspettandolo per incamminarmi verso la scuola.
Non riuscimmo nemmeno ad allontanarci dalla jeep che Stiles venne bloccato da Malia: li guardai interdetta, mentre si baciavano con passione. Lei infatti gli era saltata al collo, affondando le labbra sulle sue. Mi sentivo stupida e in imbarazzo.
Per una volta però, fortuna volle che passò di lì Lydia, che vedendomi in mezzo ad una situazione scomoda, venne in mio soccorso.
Mi abbracciò calorosamente e subito mi sentii meglio.
«Come stai?»
Mi prese per mano e mi trascinò all'interno dell'edificio senza nemmeno prestare attenzione ai due innamorati; io in risposta, seguii il suo esempio e li ignorai.
L'ultima cosa che riuscii a udire fu Malia che sussurrava al proprio fidanzato le due parole più temute in assoluto da una coppia: "dobbiamo parlare" e un sorrisetto soddisfatto si fece largo sulle mie labbra.
«Diciamo che ho avuto momenti migliori.»
La mia amica sospirò comprensiva e iniziò un lungo monologo su quella volta in cui era stata lasciata dal suo ragazzo e, come se non bastasse, questo l'avesse accusata di essere entrata in casa sua mentre lui dormiva. Ascoltai attenta, disgustata dal comportamento di questo tipo e intervenni un paio di volte contro di lui con commenti poco carini; nel frattempo, eravamo arrivati davanti alla mia aula e ci separammo dandoci appuntamento per la fine delle lezioni.
Un uomo sulla quarantina con i capelli spettinati, entrò di gran carriera nell'aula già gremita e osservò intensamente ognuno di noi; grazie al cielo, non sembrò accorgersi della ragazza nuova e io gli fui davvero grata.
«Ragazzi, il campionato si avvicina. Dobbiamo allenarci, allenarci e allenarci! Tra pochi giorni iniziano le selezioni ed esigo che tutti voi siate presenti. Nessuno escluso, se volete passare l'esame di fine anno di economia.»
Puntava il dito con fare minaccioso alla massa di studenti davanti a sé, sperando di intimidirci.
«Lui, è Bobby Finstock. Coach della squadra di Lacrosse e professore a tempo perso.» Voltai la testa verso la persona alle mie spalle per riuscire ad ascoltare meglio, ma parlava talmente a bassa voce che mi ci volle un grande sforzo per comprendere ciò che mi disse dopo. «Abbiamo perso un sacco di giocatori forti nel corso degli anni e oramai siamo rimasti con le riserve.»
«McCall! Lascia in pace la nuova arrivata. Deve ascoltare attentamente tutti i dettagli per poter partecipare alle selezioni. Non distrarla.»
La classe ridacchiò per quella affermazione; Scott, forse prevedendo che stavo per rispondere al coach che poteva anche sognarsi che io mi sarei presentata, mi diede un lieve calcio sulla sedia per intimarmi di star zitta.
L'uomo proseguì il suo monologo,
evidenziando l'importanza delle qualificazioni e di altre stupidate varie, tediandoci per tutta la lezione e concludendo al suono della campanella, con una frecciatina.
«Stilinski, non sia mai che quest'anno per mancanza di persone, ti nomini titolare. E tu Greenberg, piantala di guardarmi, sei fastidioso!»
Rise sguaiatamente per la sua battuta mentre il diretto interessato lo fissò con un misto di speranza e imbarazzo.
Il suono della campanella ci salvò tutto; ci alzammo tutti contemporaneamente facendo un frastuono assurdo. Improvvisamente percepii una violenta fitta alla testa, come se una miriade di spilli si stesse conficcando nel mio cervello con lentezza estenuante. La vista si appannò e vidi solo macchie sfuocate vorticare attorno a me; mi accorsi che stavo urlando solo quando percepii due braccia stringermi e delle parole ovattate arrivare alle mie orecchie.
Sotto quel tocco, così come era arrivato, il dolore sparì. Mi guardai intorno spaesata e la prima cosa che notai erano le mani di Stiles che mi circondavano premurosamente i fianchi, mentre mi sussurrava di rimanere calma.
Ero accasciata a terra, le mie cose sparse per terra.
«Sto bene.» Con un gesto stizzito, mi alzai e mi allontanai il più in fretta possibile,
mettendo alla rinfusa gli oggetti caduti nel mio borsone.
Le spiegazioni possibili erano due: stavo impazzendo oppure avevo fatto il passo più lungo della gamba decidendo di cambiare la mia vita praticamente da un giorno all'altro.
Presi la prima opzione come più plausibile, valorizzata soprattutto dai miei continui e inspiegabili sbalzi d'umore.
«Signorina, devi farti controllare.» Il coach si frappose tra me e l'uscita, sperando di bloccarmi.
«Ho detto che sto bene.» Ciò però non mi fece cambiare idea all'uomo; lo guardai duramente per intimarlo a spostarsi. «Farò tardi alla prossima lezione se non mi lascia passare.» Gli diedi una lieve spallata - fatto di cui mi sarei amaramente pentita più avanti- e superai la massa che si era formata per guardare lo spettacolo.
Prima di varcare la porta notai che Stiles era ancora seduto a terra, con le braccia aperte come se stesse ancora reggendomi, mentre Scott gli poggiava delicatamente una mano sulla spalla in segno di conforto, con lo sguardo enigmatico perso nel nulla.
Per il resto della giornata venni lasciata in pace, se non fosse che ogni volta che passavo accanto a qualcuno nei corridoi, questo bisbigliava parole cattive al proprio amico; oramai ero stata bollata come la "nuova ragazza strana (possibilmente pazza e da internare)".
All'ennesimo commento mi fermai di colpo, girai su me stessa, facendo cigolare la suola degli stivaletti sul pavimento lucido, e finalmente decisi di difendermi, stufa della situazione. La ragazza che aveva dato aria alla bocca era ammutolita.
«Ora non fai più la spiritosa?» la canzonai sperando in una sua reazione che non tardò ad arrivare. Dopo un primo momento di sbigottimento si riprese e, con aria di superiorità, sventolò davanti al mio viso una mano guantata piena di anelli.
«In realtà, se proprio vuoi farti i fatti miei, stavo dicendo alla mia amica quanto siamo fortunati ad avere una ragazza come te nella scuola. Giusto Karen? Sai, non ci capita spesso di ospitare delle persone che arrivano direttamente da Eichen House. È davvero interessante questo nuovo programma di integrazione, sono certa che impareremo molto da te così come tu portai apprendere da noi come essere persone normali.» Rise di gusto per la sua battuta.
Risi, acida. «La mamma non ti ha insegnato che non si prendono in giro i pazzi? Perché se lo fossi davvero, credo che potrei farti passare i cinque minuti peggiori della tua vita, se solo mi interessasse qualcosa di te o del tuo giudizio.»
Non volendomi lasciare l'ultima parola, fece vagare il suo sguardo sulla mia figura, in cerca di qualcosa su cui aggrapparsi per ribattere, ma fortunatamente non trovò nulla che la potesse aiutare.
«Neanche a me importa qualcosa di te!» La voce di un'ottava più alta e il tremolio della mano sinistra, mi stuzzicarono una piccola rivincita. Nella mia vecchia scuola nessuno avrebbe mai osato parlarmi in quel modo, perciò squadrai con indifferenza fino a che non mi accorsi, tra la manica del maglione e il guanto in pizzo, delle lievi cicatrici che spiccavano sulla pelle rosea.
Bene bene.
Si rese subito conto di ciò che avevo accidentalmente scovato e immediatamente si apprestò a coprire quel punto; purtroppo per lei, attorno al nostro teatrino, si era formata una discreta folla.
Presi tra le dita la collanina d'oro che le ornava il décolleté, mi avvicinai al suo orecchio e, con voce bassissima le sussurrai: « Jenna, giusto? Non vogliamo mica che tutta la scuola conosca il tuo piccolo segreto, o sì?»
Un lampo di paura le percorse il viso.
Bingo.
«Io non faccio quello che mi dice una pazza» ribatté a denti stretti. Per farle capire che non scherzavo, tirai leggermente la catenina nella mia direzione, avvicinandomi ulteriormente.
«Mia cara, credo che tu non abbia tanta scelta. Quindi se io fossi in te mi chiederei scusa pubblicamente e non oserei mai più rivolgermi accuse infondate. Cosa ne dici?»
Feci un passo indietro e la guardai con soddisfazione, sapendo di aver fatto breccia in una ferita già aperta: la ragazza aveva la fronte imperlata di sudore e si stava torturando le mani per l'agitazione. Alzai il sopracciglio in attesa che lei facesse ciò che le avevo caldamente consigliato.
«Mi scuso per il mio comportamento. Non avrei dovuto attaccati in quel modo affermando cose senza senso. Mi dispiace.» La voce era bassa, ma non abbastanza da far sì che non fosse udita.
«Ti perdono per il tuo errore» risposi con finta dolcezza.
Un grande senso di orgoglio mi pervase e continuai la mia avanzata fino all'uscita, sfidando chiunque a dirmi qualcosa.
Ma nessuno osò aprir più bocca.
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