Capitolo 11 - Imbranata (R)
Passai gran parte della notte a rigirarmi nel letto: una miriade di pensieri vorticavano senza sosta nella mia mente non permettendomi di rilassarmi e godermi una bella dormita.
Nel frattempo, ero riuscita a ricollegare alcuni fatti di quella bizzarra serata: avevo lasciato il telefono nella macchina di Lydia, avevo discusso due volte nel giro di poche ore con Stiles - fatto che mi distruggeva - e avevo passato maggior parte del tempo con un ragazzo che, a detta del mio vicino di casa, era un pazzo.
Non poteva andare meglio! E senza dimenticare i quasi due incidenti, anche quelli, parecchio assurdi.
Aveva ragione Theo: questa città non è per niente ordinaria e gli abitanti, ancor meno.
Tu non sei normale.
Queste parole non volevano darmi tregua ed il loro significato mi sfuggiva; ogni volta che mi sembrava di arrivare a un qualche punto di svolta, la ragione mi riportava con i piedi per terra.
Mi alzai dal letto e andai a sedermi sulla cassapanca ricoperta di cuscini sotto la grande finestra che occupava un intero angolo della camera, a osservare il quartiere lievemente illuminato.
La sveglia segnava le tre e mezza del mattino, erano passate solo poco più di due ore da quando ero rientrata, eppure era sembrata un'eternità.
Chissà cosa facevano i miei amici a Londra in quel momento, chissà cosa faceva il mio ex fidanzato.
Mille chissà si sostituirono ai mille perché, non rendendo comunque migliore la situazione.
Presi da uno dei vari scatoloni ancora pieni che non avevo voglia di disfare, una cornice contenente varie fotografie mie nel periodo in cui ero in Inghilterra, assieme alle persone meravigliose che frequentavo. Una lacrima silenziosa scese lentamente e bagnò il viso sorridente di Giselle ritratto: passai le dita su di esso, ricordando perfettamente i dettagli di quella giornata al parco.
Era iniziata come un semplice pic-nic, ma presto divenne una gara a chi riusciva a fare più cose stupide e chi si rifiutava, si sarebbe beccata una gran bella punizione; Giselle era una ragazza solare ed espansiva che non si tirava mai indietro davanti alle sfide, un po' come me, solo meno testarda.
«Allora, come va con quel ragazzo di cui mi parli sempre, ma del quale non mi hai mai detto il nome?» La mia amica ammiccò nella mia direzione, provocandomi una risata.
«Mh. Non c'è nulla da dire.» Mi finsi seria, ma il rossore che colorì le mie guance mi tradì.
In riposta ottenni una spallata che per poco non mi fece cadere «Non puoi mentirmi, so che ti piace. E anche molto. Quello che non so è perché tu non me l'abbia ancora presentato.»
Non avevo voglia di parlare di lui, la situazione era troppo complicata e io non me la sentivo ancora di spiegarle tutto. «Ogni cosa a suo tempo.»
«Prima che mi crescano i capelli bianchi, possibilmente.» E mi schioccò un sonoro bacio sulla guancia. «Quindi, dato che non ti va di parlare, che ne dici di fare un bel gioco?»
A quella parola i miei sensi di acuirono e tesi le orecchie nella sua direzione.
«Dimmi di più.» I suoi giochi, come li chiamava lei, erano delle vere e proprie sfide impossibili e imbarazzanti che però riuscivano sempre a divertirci un mondo.
«Allora: per prima cosa...» E allungò le mani verso la mia felpa extralarge nera. «Questa la togliamo.» Da quel gesto capii che avrei dovuto fare un qualche sforzo fisico che mi avrebbe di sicuro quasi uccisa.
La scostai bruscamente «Non ci pensare minimamente! Ho freddo.»
«Certo, come no. Ci saranno almeno trenta gradi!»
«Ho freddo, argomento chiuso.» La guardai con aria corrucciata, sfidandola a ribattere.
«Allora niente, guastafeste. Cambio gioco. Lasciami qualche minuto per pensare.»
Il citofono interruppe il flusso dei miei pensieri facendomi sobbalzare per lo spavento.
Chi poteva essere a quest'ora?
Scesi di corsa, accendendo ogni luce possibile e passando prima per la cucina; afferrai poi il solito coltello - sperando che mi avesse portato più fortuna questa volta- e mi diressi infine verso l'ingresso.
Se fosse stato un malintenzionato non avrebbe suonato, o no?
Guardai il mio riflesso nello specchio accanto alla porta e notai quanto la mia espressione sembrasse da pazza, soprattutto se incorniciata da un aspetto alquanto terrificante. Nascosi dunque la mia "arma" dietro la schiena e aprii cautamente.
«Stiles!»
Per la sorpresa mi scivolò il coltello, che stringevo non tanto saldamente, e mi tagliò il palmo: emisi un urlo strozzato per il dolore e cominciai a saltellare stringendo forte il polso con la mano sana.
Il ragazzo di fronte a me, dopo un secondo di esitazione fisso a osservare il sangue che macchiava la lama, si precipitò su di me prendendo la mia mano ferita tra le sue.
«Sei proprio imbranata, sai?» disse con voce fioca.
Mi guidò verso la cucina e mi disse di aspettare lì mentre lui andava a cercare la cassetta del pronto soccorso. Attesi minuti interminabili, seduta sul tavolo, asciugando con uno straccio il liquido rosso che fluiva senza sosta.
La testa del moro, china su una scatola aperta colma di medicinali, fece capolino poco dopo; osservò la ferita e notai che represse una smorfia di disgusto.
Con una vena ironica, chiesi: «Ti fa senso il sangue?»
«No, affatto» rispose con voce strozzata.
Tesi la mano verso di lui in attesa. «Passami le garze e il disinfettante.»
«Posso farlo io, ho curato ferite peggiori. Dovevi vedere quella inferta da arma da fuoco ad un mio amico, era a dir poco disgustosa.» Nonostante ciò, con veemenza, mi porse ciò che gli avevo domandato.
Passai l'acqua ossigenata sul taglio: gli occhi mi lacrimarono per il dolore; continuai con pazienza e concentrazione a pulire l'intera mano dal sangue, misi vari cerotti e infine applicai una grande quantità di garze.
Per tutto il tempo Stiles mi era rimasto accanto, stringendo un braccio attorno alle mie spalle, rassicurandomi; sentivo il suo respiro caldo sul mio collo e mi venne un forte istinto di voltarmi e colmare la breve distanza che c'era ancora tra di noi.
Per un istante dimenticai il bruciore.
Finalmente, lui parlò dandomi una pacca sulla schiena. «Ecco fatto, sei stata bravissima.»
Ridacchiai, ripensando alle varie lezioni di primo soccorso che avevo preso. «Anni di pratica.»
Mi morsi forte il labbro per non lasciar trasparire alcuna emozione. Il ragazzo si schiarì la voce e si scostò, imbarazzato.
«Che cosa ci fai a quest'ora della notte qui?» Dalla mia voce traspariva forse una punta di aspettativa.
Abbassò lo sguardo e cominciò a fissare la suola delle scarpe come fosse la cosa più interessante del mondo «Non riuscivo a dormire.»
Scesi dal tavolo e presi un bicchier d'acqua. «Siamo in due allora.»
Mi diressi poi in salotto, invitandolo a sedersi accanto a me sul divano.
Il silenzio si fece opprimente. «Vuoi qualcosa da mangiare?»
«No grazie. Anzi, forse non dovrei nemmeno essere qui.» Tentò di alzarsi, ma d'istinto lo bloccai: non volevo se ne andasse.
Stiles mi sorrise, dolce. «Devo andare a casa. Se mio padre si sveglia mentre non ci sono: muore, resuscita, mi cerca, mi trova e poi mi uccide!»
Ridacchiai al pensiero e al tono che utilizzò, ma non lo lasciai comunque andare anzi, lo attirai a me. C'era qualcosa, nella sua vicinanza, che mi rendeva nervosa, ma allo stesso tempo al sicuro: il mio cuore accelerò all'improvviso mentre lui si chinava lentamente nella mia direzione, per poi posarmi un delicato bacio sulla guancia.
«Buonanotte, Diana.»
E se ne andò, nuovamente lasciandomi un enorme vuoto nel petto, al posto della sua presenza.
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