9. OBBLIGO

Primo aggiornamento dell'anno, auguri a tutti❤️

Ogni diritto implica una responsabilità:

ogni opportunità, un obbligo;

ogni proprietà, un compito;

ogni dovere, un volere.

"Dove mi trovo? Perché non riesco a vedere niente di chiaro? Sono solo ombre, ed io ho paura dei fantasmi. C'è qualcuno che può sentirmi? Vi prego, aiutatemi. Tiratemi fuori da qui."

Sobbalzo dalla superficie morbida, cacciando un urlo, seguito da un respiro affannoso e terrorizzato. Non riesco a vedere e sentire niente, e il panico non fa che aumentare.

Riesco a sentire solo il soffice su cui mi trovo, ma non so se sia una cosa positiva o negativa: è un letto di morte? I miei occhi sono spalancati, ma è come se non avessi più le pupille, e al loro posto fossero stati inseriti litri di eye-liner, facendoli diventare completamente neri.

«Lin? Lin, mi senti?» Odo, ma non riesco a distinguere le voci nella mia testa, o quelle reali. Forse quelle reali non possono esserci, perché sono sola, come sempre. Vorrei provare a parlare, dire qualcosa, ma oltre ai gravosi respiri spaventati, dalla mia bocca non esce niente. Cosa sta succedendo nella mia testa?

«Cazzo, Lin.» Sento di nuovo urlare, con un tono di voce impaurito. Non può essere la mia coscienza interiore, perché anche questa parte di me ha un accento femminile.

Oddio, forse questa volta non sono da sola. Tento di moderare il ritmo dei respiri, cercando di poter calmarmi, ma è tremendamente difficile. Non ho input. Chi è che mi chiama Lin?

«Lin, io non so come comportarmi. Cerca di rispondere.» Mi scuote, mettendo le sue mani sulle mie spalle. I respiri cominciano ad affievolirsi, e il battito del mio cuore accelera, permettendo però di placare il panico. Forse ho bisogno di ascoltare la sua voce.

«Proviamo così: pensa a Kurt, o a Serkan. Oppure Günes. Sì, lei. Credo che lei ti piaccia. Pensa a loro che ti vogliono bene.»

Chi sono loro? Non riesco a collegare. La sua voce mi ricorda soltanto un ragazzo, e non è nessuno dei tre appena nominati.

«Sai di chi sto parlando? Dammi un segno, se la tua risposta è sì.» No, nessun segno. «Cristo, riesci a capire chi ti sta parlando?» Koray? «Se credi di saperlo, stringimi la mano.»

Faccio esattamente come ha detto, riuscendo a reagire ai miei impulsi, e anche il respiro rallenta. Riesco lentamente a calmarmi, con la sua mano ancora stretta alla mia, e finalmente comincio a vedere qualche colore oltre alle ombre nere. «Ho quasi paura di te.»

Lo sento ridacchiare leggermente, ed ora capisco. La sua voce, il suo tocco... lui è la mia cura. È la luce in grado di darmi la vita, ma anche la distruzione.

«Do-dove sono?» Mi guardo attorno, cercando di mettere a fuoco prima lui, e poi ogni angolo della stanza. Koray non mi risponde, ma si alza dal mio fianco, e molla la presa della mia mano. Credo di essermi ripresa. «Cosa è s...»

«Sei svenuta. Sei crollata su due piedi dopo aver corso. Ho avuto paura, pensavo stessi per morire.» Spiega, in tono cupo. Non credo sia la verità, è impossibile svenire per una corsa. Comunque sia, resto in silenzio. Riesco a ricordare ben poco di cosa è accaduto prima dell'ultimo impatto nella neve: la forte determinazione, Koray sbucato all'improvviso, la sua rabbia, la sua preoccupazione... forse ho accumulato troppa adrenalina.

L'ultima volta - e anche l'unica - che mi sono ritrovata in una situazione simile risale ad anni dietro, esattamente tredici anni fa, nel periodo della tenera età. Non ricordo ogni singolo sintomo, ma ricordo perfettamente la causa: mia madre.

Non ce la posso più fare... è quello che disse prima di sparire dalla mia vita, e quelle sue ultime parole mi causarono un forte shock. Ero solo una bambina di appena sette anni, ma capivo più cose di quante ne davo a vedere, e seppur nella mia mente cercavo di convincermi di aver compreso male, non sono riuscita ad evitarlo. Il trauma è stato evidente. Avrei voluto rimuovere completamente quel mio compleanno.

Scaccio immediatamente questo pensiero dalla mia testa abbattuta, e finalmente torno a guardare Koray, che però sembra si stia allontanando. «Perché io?» Domanda, più a sé stesso che a me, ma si guadagna lo stesso la mia confusione. Cosa intende?

Nonostante il mio sguardo interrogativo, mi evita e se ne va in cucina. «Perché io?» Borbotta ancora a sé stesso. Non lo capisco: prima mi odia e mi vuole fuori di casa, poi mi dice di tornare. Si preoccupa, dice di aver avuto paura, e poi si pente di essermi stato accanto. Cosa ho fatto di sbagliato, adesso?

Non faccio che pormi questa domanda dentro di me, perché io sto provando a conquistare la sua fiducia, e mi sto rendendo conto che la sua presenza mi è anche di aiuto. Cosa più importante, che però vorrei negare, è che lui mi piace. Non mi sono mai interessata a qualcuno, a causa della mia instabilità fisica e mentale, ma ora... sento che sia il momento giusto.

Lui, però, continua ad odiarmi e respingermi. Le volte in cui ha fatto il carino con me le posso contare sulle dita di una mano.

Sto per alzarmi, ma la sua voce roca mi blocca. «Ferma, non ti devi muovere.»

Torna nel salone con un bicchiere di liquido rosso, e un recipiente. Forse mi ha portato qualche biscotto. «Hai bisogno di energie per poter alzarti.»

Faccio un timido sorrido, ma dentro di me mi sento esplodere. Potrei pensare che sia a causa dell'ira, perché scappa e poi ritorna come se nulla fosse, ma... si sta preoccupando per me. Nessuno mai ha fatto una cosa del genere per me, almeno da quando sono rimasta sola... e Mister Douglas?

Afferro il bicchiere, ma l'odore mi stomaca. «Dimmi che non è vino.»

Mi guarda senza parole, con gli occhi sbarrati, per poi scoppiare a ridere a crepapelle. «Devo farti ubriacare.»

Lo guardo ancora più scioccata. Ma è serio? Resto in silenzio, quasi terrorizzata, ma annuso di nuovo la bevanda. Questo non è vino.

«Pensavi davvero che fosse vino rosso?» Torna a parlare, placando il suo divertimento, mentre io butto giù un sorso: succo al mirtillo.

«Mi avevi anche dato la conferma.» Rispondo, guardandolo male, ma poi mi lecco le labbra. Guardo Koray che stringe i pugni, e si volta, distogliendo lo sguardo da me. Sono di nuovo in errore.

«Ci sono dei biscotti, qui dentro.» Mi lascia il recipiente sul petto, senza guardarmi. Ignoro il pensiero, e guardo l'interno: cookies. Ne prendo subito uno e lo addento.

«Questi non sono comprati.» Commento, sicura dei miei gusti. Ne sono certa, perché quelli confezionati hanno pochissime gocce di cioccolato.

Finalmente, rivolge di nuovo il suo sguardo a me. «No, non compro molte cose.»

Continuo a mangiarlo e il forte sapore cioccolatoso mi stupisce. «Li hai davvero fatti tu?»

«Già, la cucina è il mio sfogo ai nervi, oltre alla foresta...» Ammette, anche se sembra omettere altro. Forse è solo una mia impressione.

Io sono ancora più stupita, e soprattutto colpita. Questa cosa è stupenda.

«Non sono buoni.» Dico, sperando di risultare credibile. Non deve montarsi la testa con le mie sensazioni paradisiache.

Alza un sopracciglio. «Se non avessi capito che sei pura e delicata, ti avrei quasi creduto. Non ti si addice molto l'ironia.» Nascondo un sorriso dietro ad un boccone. Ha capito che sono pura e delicata? Pensavo di essere invisibile ai suoi occhi.

«Sei spassosa, lo sai? Anzi no, se un'ingenua spassosa.» Ora è lui a nascondere un sorriso dietro alle sue parole, ma io lo noto. È impossibile non vederlo.

«Perché mi odi, allora?» Cerco di non risultare invadente o aggressiva. Sono solo dispiaciuta per questo suo sentimento nei miei confronti, perché il suo complimento mi fa piacere, è divertente.

«Io non...» Si blocca, come se volesse dire qualcosa, ma allo stesso tempo non vorrebbe dirla. Alla fine si decide. «Non lo so. Voglio vivere da solo, e avere una coinquilina a caso non è nei miei progetti.»

Coinquilina a caso.

Resto in silenzio, ferita dalla sua risposta. Sapevo di essere piombata qui all'improvviso - a causa di suo fratello - e che a lui infastidisce questo obbligo, ma sentirglielo dire mi fa male.

«Perché... perché mi stai aiutando, allora?»

Una luce fulminea attraversa il suo sguardo. «Non ti sto aiutando. Sto passando il tempo perché non so cosa fare.»

Qualsiasi cosa si fosse formata di piacevole dentro di me, ora la sento frantumarsi in mille pezzettini di vetro che mi trafiggono il cuore e ogni centimetro di pelle dall'interno. Nega tutto quello che ha di buono in lui.

Ho frainteso i suoi gesti docili, perché lui preferisce essere un cattivo. Io sono semplicemente la sua preda, che prima illude, e poi sbrana... proprio come il lupo fa con la volpe. Come ha detto lui, sono un'ingenua.

Lascio il recipiente ermetico a terra, con accanto il bicchiere ancora pieno, e guardo il soffitto come se fosse un vortice pronto a risucchiarmi.

Che ore sono? Voglio vedere la luna. Ho bisogno di lei.

«Dovrei preparare la cena.» Dice, ma resta dove sta. Sento il suo sguardo addosso, ma io non riesco a guardarlo. Costringo tutta me stessa per rivolgergli almeno un piccolo sguardo ma, quando lo faccio, una lacrima solca la mia guancia, quindi mi sbrigo a tornare a guardare il muro.

Lui, nonostante il mio attuale distacco, si avvicina e mi asciuga la lacrima. Questo suo gesto - seppur banale per molti - mi lascia senza parole.

«Le lacrime svelano silenziosamente il linguaggio del dolore.»

Se fosse possibile, sono appena diventata una pietra imbambolata sotto al suo tocco, e maggiormente con la sua esclamazione.

Resto in silenzio, senza capire le ragioni dei suoi comportamenti contrastanti.

È un lupo cattivo, o solo un orso polare?

«Fai piccoli movimenti, non alzarti di scatto, e cerca di riposare.»

Se ne va, dopo aver parlato velocemente, e lo osservo allontanarsi mentre si mette le mani nei capelli, quasi come se quello confuso e disperato fosse lui. Okay, non posso sapere le sue ragioni, ma io mi sento nello stesso identico modo. Non comprendo le sue azioni, prima dolci, poi distaccate e poi ancora mansuete.

Dal canto mio, la voglia di insinuarmi in lui, di conoscerlo e capirlo aumenta ogni secondo di più. A tratti sembra che lui non voglia nessuna forma di accanimento o bontà, ma altre volte... non lo so, è tutto così confusionario.

Resto sola, pensando a me, a lui, e a Kurt, il quale mi fa compagnia al mio fianco, adesso, e attende le mie coccole.

Con non pochi sforzi, riesco a mettermi seduta, e quindi ad accarezzare Kurt, il quale agevola anche il mio stato poggiando le sue zampette sul bordo del divano per impalarsi.

«Cosa mi dici di Koray?» Sussurro, come se potesse rispondermi, ma sorrido quando emette il suo flebile verso. Alla fine, spronata anche dalla sua allegria, mi alzo, facendo appello a tutte le mie forze interiori - il forte capogiro, insieme alla nausea, tornano a farsi sentire con insistenza - e raggiungo la cucina, dove mi fermo ad osservare Koray mentre si sposta da una parte all'altra come un concorrente di un programma televisivo di cucina. È divertente, lo immagino a partecipare ad una puntata de La Prova del Cuoco.

Non appena avverte i miei passi che si avvicinano per poter prendere la tovaglia, si volta e mi trucida con uno sguardo contrariato. «Ti ho detto di riposare, non di alzarti. Cosa non ti è chiaro delle mie parole?»

Cerco di mantenere la mia calma, cosa che non mi riesce difficile. Devo solo nascondere un po' la delusione. «Voglio dare una mano. Non mi sembra giusto stare a guardare.» Cerco di smorzare con un lieve sorriso.

«Ora è più che giusto. Non sono un servo, ma tu hai bisogno di stare tranquilla, al momento. I sintomi post deliquio non spariscono con un po' di zuccheri.»

Come se il mio corpo avesse ascoltato alla lettera ogni singola parola, le vertigini tornano a presentarsi, e la vista si sfoca, facendomi un po' sbandare.

Pronto per questa situazione, Koray mi raggiunge di corsa, prendendomi per il busto prima che io possa sbattere a terra. «Devi starmi a sentire, quando ti do dei consigli.» Mi poggia sulla poltrona all'angolo della cucina.

«Ma io sto bene.» Insisto, guadagnandomi un'alzata di sopracciglio, seguita da un minuscolo sorriso. «Come no.»

Torna a cucinare, ed io resto a guardarlo di spalle, mentre provo ad alzarmi di nuovo. Inutile dire che se ne accorge, ma vedendo la mia estrema lentezza nel camminare, sorreggendomi al muro, fa finta di nulla.

«Sei proprio cocciuta.» Lo sento borbottare tra sé, quando torna a guardare le pentole.

«Io non me ne sto a vederti senza aiutarti.» Spero che la mia esclamazione non risulti come una minaccia alle sue orecchie.

«Io non ho bisogno di aiuto. Me la sono sempre cavata da solo, e le cose non cambieranno.» Non mi guarda mentre parla. È impegnato con i fornelli.

Lo pensa davvero? Di solito, le verità si dicono guardandosi negli occhi.

«Ora ci sono io e ti aiuterò, anche ora che sto così.» Non so come sto, ma spero che capisca il concetto.

Passa qualche secondo di silenzio, quindi metto la tovaglia.

«Sei qui perché te l'ha chiesto mio fratello.» La sua non è una domanda. «Quel coglione deve sempre farsi i cazzi miei.»

Vorrei poter negare, ma in fondo lo so anche io che ha ragione. Sono in questa casa perché Serkan mi ha affidato questa, con l'obbiettivo di stare accanto al fratello.

Dal mio punto di vista, non c'è più un obbligo, ma volontà. Sento che, dietro la tosta corazza che si è creato, ci sia una luce che aspetta solo di abbagliare, e voglio permettergli di scoprirlo. Voglio conoscerlo e tendergli la mia mano, ma non è il caso di dirglielo.

In fondo – così come ha detto lui - sono qui da poco più di una settimana, e sono qui perché me lo ha chiesto Serkan.

«La cena è pronta.» Sbatte i piatti sul tavolo, visibilmente innervosito, e comincia a mangiare senza aspettarmi.

Mi siedo al mio posto, afferrando la forchetta mentre lo guardo. «Buon appetito.»

Non si smuove di un millimetro. Infilza i pezzetti di carne come se volesse squartarli, e mette in bocca quanto più cibo possibile per non parlare. Già, la cena prosegue in un silenzio tombale, ed io non faccio che pensare al dispiacere, al senso di impotenza che sta avvertendo, al fastidio di questa situazione imposta.

Non è giusto essere qui per imposizione di suo fratello, ma allo stesso tempo non è neanche giusto lasciarlo da solo qui.

Ho visto lo sguardo di Serkan mentre mi chiedeva, quasi in ginocchio, di restare: era preoccupato per Koray, come se la casa fosse la sua opportunità per farla finita. Non posso lasciarlo solo con un pensiero del genere.

Come già avevo immaginato, termina velocemente il piatto di riso e pollo al curry, e si alza dal tavolo infuriato, portando il piatto e il bicchiere al lavabo.

Un suono della ceramica che si frantuma riecheggia in tutta la stanza, facendomi sobbalzare. «Vaffanculo.» Sbotta lui.

Faccio per alzarmi, ma lui esce di corsa dalla cucina, diretto verso il corridoio. Devo lasciargli un po' di spazio. Deve sbollire un po' la rabbia. Questa situazione lo opprime, ne sono consapevole.

Lascio metà piatto di riso, avendo perso la fame, e pulisco la tavola e il casino di cocci fatti con il piatto. Lavo gli utensili sporchi e il pavimento, e dopo aver messo tutto a posto, vado in corridoio per andare in bagno. Sono quasi tentata di vedere come sta Koray, ma mi fermo.

Devo lasciargli un po' di spazio, mi ripeto.

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