37. IL LUPO E LA VOLPE

La favola de "il lupo e la volpe"

fa immaginare che

il primo mangia la seconda.

E se, invece,

avesse un lieto fine?





Parigi... Cavolo se era bella quella città. Sembrava di stare in un altro universo. Mister Douglas mi aveva detto che quella era la città dove è nato l'amore tra lei e sua moglie, che però non c'è più. Diceva che avrei dovuto salire almeno una volta fino alla cima della torre Eiffel, e vedere con i miei occhi il quadro della Gioconda appeso al Louvre. Mi ha ripetuto più volte che sua moglie amava l'arte, perché entrava in un mondo tutto suo, proprio come me. Io mi chiedevo, però, se in Francia mi sarei sentita nel posto giusto, come mi era accaduto solo in Norvegia, a cinque anni. Avevo bisogno di un posto che potessi chiamare casa.

Passo in rassegna il mio sguardo in ogni punto esterno della casa, lontana dalla foresta, dai miei amati alberi, da Kurt ma soprattutto da Koray. La finestra ha le sbarre, come se fosse un carcere, e il vetro mostra una lunga lesione. La porta d'ingresso è martoriata: sembra che qualcuno l'abbia presa a pugni, per poi appiccare il fuoco. Persino la parete, tinteggiata di un vecchio marrone, presenta delle bruciature. Non ho ancora messo piede all'interno, ma la vista mi demoralizza più di quel che già sento dentro.

Sospiro, facendo cadere la testa all'indietro. Non ho valige con me - soltanto il mio zainetto con l'immancabile album dei disegni - ma mi sento soffocare da un peso talmente grosso che neanche respirare mi riesce in modo naturale. Non riesco neanche a trovare il coraggio di entrare in quella che sarà definitivamente la mia casa.

Mi sembra di trovarmi alle porte per l'inferno, indecisa se restare nel paradiso. O forse devo dire il contrario? Magari, in questo momento sono nell'inferno, perché Koray che non vuole vedermi ed io che mi odio sono due cose che non riesco ad alleggerire, e quella è la porta che mi farà sentire come nuova.

Se in questo caso avessi una scelta, preferirei restare dove sono - all'inferno - perché il pensiero di abbandonare Ray per andare in paradiso mi crea più sensi di colpa del previsto.

Mi guardo attorno, in cerca degli alberi che mi fanno sempre perdere, ma le strade abbastanza trafficate mi trasmettono solo delusione. Mi siedo sul pianerottolo, vagando lo sguardo da un'auto all'altra, tirandomi pugni da sola per oggi macchina gialla che passa.

Tiro fuori il quaderno dei disegni, fissando la copertina come se fosse la mia unica ragione di vita, e raggiungo la prima pagina vuota senza dare un occhio a nessuno degli altri disegni.

Evito anche l'ultimo, consapevole che, dopo la piena giornata di ieri, costituirà solo uno strano capitolo della mia vita.

È pesante anche per me pensare che sia finito qualcosa che non era neanche cominciato, ma è così: io ho provato emozioni nuove e molto forti con Koray, rappresenta il mio primo vero bacio e l'unico che riesco a considerare amore. Mi ha dato la forza di lottare in una battaglia persa in partenza, dandomi quel pizzico di speranza che mancava...

Anche se ho cercato di migliorare lui - venendo spesso rassicurata di avergli fatto del bene, di essere ritornata al momento giusto, di essersi affezionato a me, di averlo salvato dalle sue tentazioni - ed anche se ho avuto con lui momenti indimenticabili, so che lui non ha provato i miei stessi sentimenti. Lui non si è emozionato per ogni volta che gli sono rimasta accanto, non è esploso di farfalle per ogni mio tocco, non si è sentito andare a fuoco per la mia vicinanza...

Non mi ha amato come io ho amato lui.

Continuo a guardare la pagina vuota del quaderno, mentre tentenno la matita su di esso, sperando di distrarmi. Questo foglio aspetta solo di essere riempito, ed anche se vorrei cercare di pensare ad altro, la mia mente mi riporta soltanto a Ray. Lui mi detesta, ma io non riesco ad allontanarlo a causa del suo odio. Nel suo piccolo, è riuscito a scavarmi nel profondo come mai nessuno era riuscito a fare prima: lui mi ha conosciuto quando avevo cinque anni, e da lì non mi ha più dimenticata; ha dedotto il problema che ha portato mia madre ad abbandonarmi; è stato con me quando ho scoperto che mia madre vive nelle vicinanze, e che mio padre - il quale non ho mai riconosciuto come tale - in realtà è l'unica persona che non mi ha mai abbandonata.

Tutto questo riguarda soltanto le parti più private di me, il che raggiungono l'apice dell'importanza. Di solito, le persone che sanno del tuo passato non perdono tempo per rinfacciartelo... ma lui non è quel tipo di persona, e l'ho capito dal grosso dolore che si porta dentro. L'odio per gli insulti e le molestie lo fanno arrivare al culmine della rabbia, perché ogni cosa che gli riporta alla mente sua sorella gli fa male. Si è sentito obbligato a lasciare sua sorella gemella sulle sue gambe, morente, e questo gli ha conferito un trauma psicologico molto tosto, e il disturbo borderline è solo una conseguenza a questo. Lo ha riconosciuto in mia madre perché è quel che prova lui, anche se lei non mi ha mai detto una cosa simile. Il suo bisogno di difendere me da ogni commento sgradevole nasconde il fatto che in me vede l'animo buono che aveva Hailey, i suoi capelli rossi e il suo sorriso sincero.

Per lui è come riavere sua sorella, e salvarla da ogni male... mentre per me lui è l'anima del nonno che non ho mai conosciuto, che aveva il suo stesso nome.

Poteva quasi essere uno scherzo del destino: lui con l'anima di mio nonno, ed io con l'anima di sua sorella... assurdo?

Purtroppo, però, fin dall'inizio Koray non ha accettato la convivenza - poiché gli è stata imposta senza opportunità di scegliere - e questo non è cambiato neanche dopo tutto quel che abbiamo passato.

È per questo che adesso mi ritrovo seduta su un pianerottolo strano, di una casa che neanche conosco, ma che è diventata mia. Ho dovuto accettare il cambio di abitazione proposto da Serkan, perché Koray non mi sopporta avere con lui.

Senza neanche pensare a quel che faccio, la mia mano si muove da sola, tracciando linee, curve e scarabocchi ben definiti.

Solo appena sento il mio polso esausto, mi fermo, e quel che vedo esprime esattamente quel che siamo io e Koray: il lupo e la volpe.

Pensavo che la nostra fiaba potesse funzionare, anche se abbiamo questi due personaggi da arruolare... avrebbe potuto funzionare, perché il lupo aveva cominciato a legarsi alla sua volpe portafortuna.

A quanto pare, però, mi sono sbagliata di grosso. Come fa la volpe a diventare un'amica del lupo? È impossibile, perché il lupo se la mangia, quindi lei scappa per sfuggire alla cattiva sorte.

Il disegno, nonostante le vicende e la fiaba stessa, raffigura il mio desiderio: la volpe che dorme, mentre il lupo la stringe come un pupazzo, dormendo di conseguenza. Sorrido alla vista, perché mi riporta alla mente la notte che ha dichiarato di considerarmi la sua volpe portafortuna.

Magari, in un'altra vita, il lupo e la volpe potrebbero essere almeno amici senza che il primo sbrani la seconda. Per un po' di tempo ho creduto che potesse essere possibile anche in questa - di vita - ma credo di essermi sbagliata.

Definisco i due animali disegnati, rendendolo persino più reale. Al momento della descrizione, mi blocco per un secondo, tornando a guardare la luna che lentamente scompare con il chiarore del cielo. Cosa rappresenta, esattamente, questa bozza? La fine di una bella fiaba, o il fermo del punto più bello?

Vorrei davvero poter dire che non è finita, che la storia del lupo e della volpe può avere anche un bel lieto fine... ma non parlerei di me e Koray. Siamo due anime rotte, che si sono ritrovate dopo tanti anni in un momento un po' sbagliato. Stiamo entrambi lottando contro i nostri demoni, e ciò ha reso più difficile - per lui - trovare del buono nella mia presenza. Sono stata in grado di salvarlo dal suo gesto estremo, ma non credo di poterlo fare ancora: non me lo perdonerebbe mai.

Sospiro, abbattuta, chiudendo gli occhi. Lui non mi perdonerebbe mai un altro salvataggio alla sua tentazione di mettere fine alla sua vita, ma io stessa non mi perdonerei mai un fallimento del genere. Non riuscirei più a vivere in pace, se Koray dovesse compiere un gesto letale.

Ho paura di quello che potrebbe fare senza di me, ma lui non mi vuole neanche avere con lui...

Mi trovo catapultata in un limbo oscuro, in cui ogni cosa che vorrei o potrei fare sembra essere la scelta sbagliata: in ogni caso, qualcosa andrà in frantumi.

Sospiro di nuovo, e l'istinto mi porta a chiudere il quaderno con uno scatto fulmineo. Non posso scriverci una descrizione, o almeno non posso ancora farlo: non voglio mettere fine ad un rapporto che io non considero giunto al capolinea. Io e lui non siamo stati insieme, ma abbiamo avuto dei momenti di pace che farebbero invidia ad ogni coppia esistente. Quel che è successo tra noi è stato reale, momenti che sono venuti dal cuore... non possono sbiadirsi nel nulla per un singolo scoppio di rabbia, dovuto ad un disturbo di personalità. Se tutto ciò dovrà avere un punto, dovrò sentirlo dire dalla bocca di Ray in un momento di tranquillità. Solo così, potrò mettermi l'anima in pace.

Guardo la casa alle mie spalle, un po' delusa da me stessa. So che probabilmente non ho sbagliato ad allontanarmi per un po' dalla casa dove ho vissuto finora, ma ora non riesco a mettere piede in questa. Non riesco neanche a considerarla mia. Sapevo di non poter restare per sempre nella casa che appartiene a Ray, ma questa non la sento fatta per me. Lì sono stata bene, anche se sono stata a stretto contatto con la turbolenta presenza di quel dannato ragazzo dai capelli scuri e simili ad un clown. Nonostante il suo odio, io non riesco a vedermi in nessun altro posto, se non con lui.

Ripongo l'album dei disegni nello zainetto, con cura, per poi alzarmi e incamminarmi verso le strade trafficate. Non mi sento pronta a mettere piede in una casa che non conosco, subito dopo aver lasciato quella precedente. Temporeggerò e sistemerò uno dei dilemmi della mia vita, prima di ricominciare.

Mi guardo intorno, studiando le varie insegne delle strade e i negozi passati poco prima, grazie ad un passo lampo da parte di Ser. Non ha fatto domande sull'accaduto - anche perché ha ben visto l'umore di Ray come era messo al ritorno dalla festa - e di questo gliene sono molto grata. Sarei scoppiata in lacrime anche solo a sentir pronunciare il suo nome, ed evidentemente questa cosa suo fratello l'ha percepita.

Sola nei miei pensieri, questo è uno di quei momenti in cui preferirei avere un cellulare. Non ne ho ancora ricomprato uno, da quando sono arrivata in Norvegia, ed ora che non ho la più pallida idea di come colmare il vuoto che sento, vorrei averlo... almeno per ascoltare un po' di musica, mi avrebbe senza dubbio fatto sentire meglio.

Non so quanto tempo passo a camminare senza neanche una piccola sosta, ma il mio stomaco comincia quasi a farmi male per i brontolii quindi, dopo aver sbattuto le scarpe a terra per privarle della neve, entro in un piccolo bar dallo stile vintage, e subito vengo catapultata in un mondo caldo, fatto di bella musica melodica ed un profumo paradisiaco. Immediatamente anche la mia mente viaggia, fino a collegare il profumo di cioccolato e di pistacchio all'unico ragazzo che emana questo odore.

Sospiro, un po' devastata: devo stare proprio giù di corda, per collegare anche un classico odore a Koray.

Beh, tanto classico non è, considerando che di norma le persone non portano con sé i profumi del cibo: non ho mai sentito dire da nessuno che una persona odora di cioccolato.

Mi siedo in un tavolino, con lo sguardo puntato verso le vetrate che si affacciano sul mare: la neve che contorna la spiaggia crea uno spettacolo stupendo, e gli orsi polari che sono stravaccati su di essa con un'aria tranquilla crea tenerezza. Davvero si stanno estinguendo, questi esseri così carini? La vita è ingiusta per tutti, a quanto pare.

Più in lontananza, riesco ad individuare due foche che schizzano acqua e tornano sulla neve ghiacciata. Come sarebbe andata la mia vita, se fossi nata nel corpo di un animale?

Sorrido al pensiero della bizzarra domanda che mi sono appena posta, e riporto l'attenzione all'interno del bar, afferrando l'aggeggio dei fazzoletti sopra al mio tavolino. Subito dopo, però, la mia attenzione viene attivata dalla sedia di fronte a me, che viene spostata indietro e occupata da qualcuno.

No... non ho voglia di altri ragazzi che cercano di avvicinarmi con i loro strani modi di seduzione. Le avances di Zack sono state anche troppe.

Resto con lo sguardo basso puntato sull'oggetto che ho in mano, ma notando che la persona di fronte a me non accenna ad andare via, mi costringo a vederla.

«Mi stavi evitando?» Chiede, con un piccolo sorriso sulle labbra piene.

Per un attimo ho pensato di vedere Koray, considerata la somiglianza, ma i lunghi riccioli d'oro mi confermano che sto esagerando.

Abbasso di nuovo lo sguardo, massacrando le mie stesse mani per l'ansia e la delusione che sto provando allo stesso momento. «Non proprio...» Scuoto la testa. «Di solito non evito la compagnia...» Ammetto, con sincerità. In un mondo di persone normali, io sono la prima a voler avere compagnia e parlare di qualcosa che mi faccia sorridere... e intanto adesso non sono dell'umore giusto per farlo.

«Immaginavo stessi male, ma non credevo fino a questo punto.»

La guardo stranita, non capendo a cosa lei stia alludendo.

Fa un piccolo sorriso triste. «Serkan mi ha raccontato cosa è successo...» Spiega, e lì comprendo subito le cose che intende.

Rimuovo la mia apparente tranquillità, rivelando la mia malinconia in tutte le sue sfaccettature. Alzo le spalle, un po' rassegnata. «Oh...»

«Non pensavo che il mio gemellino potesse avere una reazione così aggressiva. Da quando ha visto nostra sorella... ehm, credo che hai capito...»

Annuisco, comprendendo la sua difficoltà. Come per Koray, anche Nes fatica a parlare di Hailey.

«Ecco... da quando l'ha vista, è diventato piuttosto irascibile, e il trauma gli ha portato dei disturbi evidenti. Se non prevale il bipolarismo, è in atto la dissociazione, o viceversa. Sono riuscita a vederlo davvero presente con la testa solo con te. Non so se dipenda dalla tua somiglianza con Hailey, o altro, ma sei l'unica che è riuscito a mantenerlo a galla dopo vari mesi di incubi. Pensavo che stesse davvero migliorando, con la tua presenza, ma ieri ha dato davvero di matto. Mi dispiace davvero, nessuno di noi se lo immaginava.»

Lascio il contenitore dei fazzoletti del bar per afferrare subito dopo le sue mani, per fermarle dai suoi gesticolamenti ansiosi.

«Nes, calmati... non devi scusarti tu per lui, e credo che neanche lui debba farlo. Lui è... in quei momenti non si rende conto di quello che gli si scatena dentro, quindi reagisce non per mente sua, ma per mente dei disturbi che lo comandano.» Spiego, sperando di convincere anche me stessa con le mie parole.

Sono cose che penso davvero: le persone, in casi di disturbi e malattie psicologiche, non ragionano con lucidità, e nei momenti più alti delle loro crisi non sono neanche coscienti delle loro azioni. È triste da dire e da vedere, ma ciò è la dimostrazione che alla base c'è qualcosa di molto profondo da curare.

«Lin...» Pronuncia il mio nome con estrema tristezza. «Tu hai un'anima troppo pura, e vedi il buono in tutto. Non puoi permettere agli altri di calpestarti, però. Kore deve capire quali sono i suoi errori e deve scusarsi, perché altrimenti la passerà sempre liscia e non risolverà mai i problemi che ha.»

Distacco il mio sguardo dal suo, un po' imbarazzata. «Non so neanche se vorrà più vedermi. In fondo, è anche colpa mia che lui ha reagito in quel modo esagerato. Detestava Zack, ed io invece ho provato a vedere il positivo anche in lui. Ho capito troppo tardi che si stava prendendo gioco di me.»

«Zack ha messo in atto questa pagliacciata per vendicarsi di mio fratello, perché non sopportava vederlo insieme a te. Ha provato ad avvicinarsi con la sua falsità, avendo capito il tuo modo di essere molto buona e delicata. Non è colpa tua, e non devi neanche pensarlo. Kore è solo caduto nella trappola, proprio come te, facendo vincere Zack anche a suon di pugni e calci. Ti ha allontanata, dicendo di non volerti più in casa sua, e con questo Zack ha ottenuto la prima parte della sua vendetta.» Mi spiega, lasciandomi a bocca aperta per lo stupore.

«Come... come sai tutte queste cose di Zack?» Chiedo, con un po' di paura nella voce. Cosa significa tutto questo? Nes ne è complice?

«Conoscevo molto bene suo fratello, e so che Zack sta solo continuando quel che lui non ha potuto portare a termine con mia sorella. Ci sei andata di mezzo tu perché sei piombata all'improvviso, prendendo inconsciamente il posto di Hailey, ma il suo obbiettivo è sempre stato quello di rovinare Koray, come lui ha rovinato la vita del fratello. Lo ha fatto finire in carcere, ed ora Zack è assetato di vendetta.» Spiega, il tono di voce serio, quasi cupo.

Ogni nuova notizia mi arriva come un pugno al cuore, e la preoccupazione per Koray cresce a dismisura, oltrepassando quella per i suoi disturbi di personalità. «Co-cosa ha f-fatto?»

«Mio fratello?»

Annuisco, non sicura di voler sentire la risposta. Sto davvero dubitando di Ray?

«Oh, lui non ha fatto assolutamente niente, e non lo dico solo perché è il mio fratello gemello. Kore ha solo reso giustizia per lo schifo che ha fatto vivere a nostra sorella. Quelle luride mani meritavano una lezione, e lui ha fatto tutto ciò che era in suo potere per aiutare Hailey, facendolo quindi finire in carcere, ma Zack è dalla parte sbagliata e vuole vendicarsi di conseguenza. Koray ha agito in buona fede, prima che nostra sorella perdesse la speranza, ed ora gli si sta ritorcendo contro.»

Un paio di lacrime solcano le mie guance prima che io possa fermarle. Ora sono più chiare le sue reazioni di fronte agli insulti: non c'entrano soltanto la morte della sorella, e gli atti di bullismo che lei riceveva ogni giorno... Hailey veniva abusata sessualmente dal fratello di Zack, e tutto il resto ha conferito un grosso trauma in colui che ha tentato di aiutare una persona che riteneva essere importante più di sé stesso.

«Lui sente di non aver fatto abbastanza per aiutare sua sorella...» Sussurro, con la voce rotta. La mia è più un'affermazione, che una domanda. Credo che questo sia proprio quel che prova Ray.

Nes annuisce, fissando le nostre mani intrecciate sul tavolo. «Ed è questo pensiero ad aggravare il suo stato di trauma psicologico. È fissato sull'essere lui la causa di tutto il male, e questo non riesce neanche a dargli dei motivi per guarire. Ripeto: l'unica cosa che è riuscito a svagargli un po' la mente, mettendo da parte quel pensiero malsano, è stata la tua presenza. In qualche modo tu lo hai risollevato dal baratro.»

Mi guarda negli occhi con una vela di commozione, e nella sua voce non c'è traccia di menzogna. Tutto quel che dice è la verità dei fatti, e questa cosa crea anche in me un piccolo sorriso, il che è difficile da fare, considerando tutto il passato di Ray.

«Io e Ray ci siamo conosciuti per caso quando eravamo piccoli, e a quanto pare lui non mi ha mai dimenticata.» Dico, con l'emozione palpabile dallo sguardo, ma il tono un po' incupito. Chissà se davvero la pensa così, lui. Non mi è mai sembrato che mentisse, ma come posso saperlo per certo? In questo momento, tutto sta cambiando traiettoria.

Lei scruta me con attenzione, e sembra realizzare le mie parole solo dopo, perché spalanca la bocca come se avesse appena ascoltato la rivelazione del secolo.

«Oh, cavolo... bambina buffa, simile ad Hailey, capelli rossi, occhi di luna e ghiaccio, lentiggini, cinque anni, mamma cattiva... quella bambina eri tu?» Domanda, sconvolta ma emozionata più di me.

Divento rossa in volto, vedendo tutta la descrizione di quella bambina che ero un tempo, e che sono ancora adesso.

«A quanto pare sì... mi aveva descritta con i fiocchi.» Scherzo, coprendomi il volto per l'imbarazzo. Cavolo, Koray aveva parlato della bambina con la quale ha parlato per tre giorni di vacanza... stento a crederci, ma tutto ciò è reale.

«Scherzi? Ti descriveva proprio come si descrivono i fiocchi di neve. Parlava di te e dei tuoi occhi ogni giorno che passava, da quando non vi siete più visti. Voleva rivederti sempre di più, ma non sapeva come fare o come rintracciarti. Si sentiva perso, e l'unica compagnia, per lui, era menzionare qualcosa di te in ogni suo discorso. Sembrava impazzito.» Spiega, con l'eccitazione della situazione che sprizza da tutti i pori.

Io mi sento sempre più in imbarazzo, ma la parte più interna di me è al settimo cielo per queste cose che Ray non mi ha mai raccontato. È strano, ma bellissimo, immaginare un bambino di sette anni che, nonostante l'abbandono dei suoi genitori, parlava di me senza sosta ai suoi fratelli. Chissà cosa pensavano, loro.

«Pensa che, per la somiglianza che lui affermava che avessi con Hailey, lei ne era infastidita. Diceva di volerti conoscere solo per dimostrare che lei era moto più bella.» Ride al ricordo divertente di sua sorella.

Ridacchio anche io. Tutto ciò che mi sta dicendo è divertente, e immagino come sarebbe stato viverlo con i propri occhi. Senza dubbio, avrebbero migliorato le mie monotone giornate con la rabbia di mia madre, o con la sua improvvisa assenza.

«È... oddio, è tutto così imbarazzante.» Dico, ridacchiando. Ho vergogna, in questo momento.

«Cavolo, non riesco a crederci... sei tu! Ora tutto torna: Koray furioso per il tuo arrivo improvviso ma subito dopo accetta la cosa, anche se non lo ha detto esplicitamente; lui che diventa più tranquillo e i suoi sbalzi d'umore diminuiscono; lui che ti porta a fare i giri panoramici, svelandoti anche i posti dove nessuno di noi aveva accesso, se non Hailey; lui che con te ha ripreso a disegnare e fare sculture, ha seguito con più voglia le sedute dallo psicologo ed ha cominciato ad essere più felice; tu che lo chiami Ray, lui che ti chiama Linny, o meglio Linny Klaus... oh mio dio, ora combacia ogni cosa: ha ritrovato la persona che stava cercando da una vita.»

Il suo umore si fa piano piano più esaltato. Il suo sorriso a trentadue denti colpisce anche me, facendomi ridere.

«Beh, se davvero fossi la donna della sua vita, non mi avrebbe ripetuto mille volte di andare via.» Rispondo, anche se le piccole risate che sfuggono dalla mia bocca dichiarano che non è questo che mi spaventa, ma che anzi mi dà una grinta in più, anche se mi sento piuttosto abbattuta.

«Senti, mio fratello sa anche essere un coglione, ma non credo che si farebbe sfuggire la bambina della quale ha parlato per anni senza mai dimenticarla.» Ribatte, afferrando le mie mani, sicura di sé.

La guardo negli occhi, con un sorriso indeciso sul volto, ma poi sospiro.

«Non so bene cosa pensare... in questo momento il mio cervello è un po' annebbiato perché non ho dormito ed ho anche una fame da lupi.»

«Oh, no... il lupo è Koray, in questo caso.»

«Giusto, io sono la sua volpe portafortuna.» Scherzo, ma il sorriso sincero che si stampa sulle mie labbra supera ogni indecisione che ho.

Ora ne ho la certezza: questa storia, qualunque essa sia, non può finire qui.

Lo sguardo di Günes si fa nuovamente luccicante per l'emozione. «Oddio, te lo ha detto sul serio?»

La guardo, confusa, ma rispondo: «Sì, me lo ha detto più volte e ci ha fatto anche una scultura in legno.»

«Oh mio dio, questa cosa mi farà morire, un giorno... cavolo, ma è stupendo. Lo ha fatto sul serio.»

Rido per la sua felicità espressa in ogni angolo di sé. La mia confusione però resta. In che senso lo ha fatto sul serio? Cioè, cosa?

«Diceva sempre che ti vedeva come una volpe, infatti a volte usava il soprannome "volpina" per far capire che parlava di te.» Spiega, mettendo fine alle mie pippe mentali.

Il mio sguardo imbarazzato e raggiante al tempo stesso la colpisce, ed entrambe ridiamo. Tutto ciò è stupendo, ma ammetto che è anche inquietante. Tutto, o almeno quasi, coincide come pezzi di puzzle.

«Okay, ora basta di parlare di quello stronzo, altrimenti il suo ego si gonfierà come un pallone.» Ridiamo. «Chiamo il barista?»

Annuisco alla sua domanda, quindi attendiamo l'arrivo dell'addetto agli ordini. Per me prendo una cioccolata calda con i churros, mentre Nes opta per un trancio di parigina.

«Che ore sono?» Le chiedo, appena abbiamo un momento di tranquillità.

«Quasi mezzogiorno.»

La guardo sbalordita, ma mi ricompongo in fretta, ed appena arrivano le nostre ordinazioni, inzuppo un biscotto nel cioccolato, ricordando la colazione fatta a casa, quella con i pancake e il cioccolato fuso, consigliata rigorosamente da Koray. Cavolo, mi ha sbloccato un mondo.

Al termine di tutto, faccio cenno a Nes di aspettare, quindi raggiungo il bancone e, dopo essermi fatta dare un sacchetto con la colazione all'interno, pago tutto e ritorno dalla ragazza con i riccioli d'oro.

«Nes, puoi portare questo a Ray?» Le porgo il sacchettino. «Gli ho preso un cornetto bi-gusto, cioccolato fondente e nutella al pistacchio.» Spiego.

Fissa il pacchetto con occhi emozionati ma anche confusi. Incrocia i miei subito dopo. «Perché non glielo porti tu?»

«Perché lui non vuole neanche vedermi.» Rispondo, con rammarico.

«Aylin, sei la sua volpe portafortuna.» Ribatte, spingendo la mano che mantiene il sacchetto verso di me.

«Ma non esiste una favola dove il lupo sta insieme alla volpe senza mangiarla.» Le ricordo, anche se il mio tono di voce è cupo. Non mi fa piacere pensare questa cosa, ma è la realtà dei fatti.

Guarda il sacchetto, e poi guarda di nuovo me, non sapendo né cosa fare, né cosa dire.

«Ti prego... ho una cosa importante da fare.» Cerco di convincerla.

«Anche Koary fa parte di una cosa importante da risolvere.» Mi guarda con una punta di fastidio.

«Lo so, ma credo che sia meglio aspettare un po', prima di ripresentarmi. Credo che debba smaltire un po' di cose, prima di potermi affrontare.» Spiego.

In realtà anche io ho un po' di cose da smaltire, prima di rivederlo.

«Ti sto scongiurando. Ho... ho paura che faccia qualcosa di estremo.» Alludo ai suoi istinti malsani contro sé stesso. La paura che provo per questa cosa è immensa. «Almeno questo lo rassicurerà un po'. Potrebbe farlo sentire un po' meglio, perché sono i suoi due gusti preferiti.»

Il suo sguardo si fa di nuovo addolcito, ed anche un po' commosso. Afferra il sacchetto con determinazione, e poi guarda di nuovo me, negli occhi, mentre fa qualche passo indietro.

«Lin... questa è la volta buona in cui il finale della favola del lupo e della volpe diventi un lieto fine.»

Se ne va senza neanche darmi in tempo di rispondere, lasciandomi da sola nelle mie domande senza risposta: davvero crede che sia una cosa possibile? Cambiare il finale di una favola... davvero pensa che potremmo riuscirci? Non siamo abbandonati al nostro destino?

Sospiro, cercando di preoccuparmi, in questo momento, di me. Il pensiero per Koray c'è sempre - non va via - ma ora devo pensare soprattutto a quel che devo fare: devo raggiungere il parco giochi, per quanto quel posto possa ricordarmi lo strazio passato ieri, e fare in modo ritrovare Kira, la mia madre adottiva, oppure Mister Douglas, che dovrebbe essere il mio padre biologico. Non so se riuscirò a chiarire con loro due, ma ho bisogno di risposte alle domande rimaste in sospeso per tutta la vita che ho vissuto finora, e so che, se non loro, nessun altro potrà mettere fine ai miei dubbi.

Cammino a passo abbastanza spedito, rischiando più volte in poco tempo di cadere con la faccia a terra. Raggiungo i primi alberi che si infiltrano nella foresta, ed è proprio lì che mi dirigo, perché sono gli alberi a darmi la giusta direzione, anche se la facilità di perdermi, lì dentro, è alle stelle.

Vado ad intuito, affidandomi all'istinto. Cammino per un tempo che sembra infinito ma allo stesso tempo scorre in fretta, e i miei occhi vengono rapiti da un'unica e grande struttura in legno, che spunta dal bosco quasi come se fosse una casa, nascosta da altri alberi.

Ma... io questa cosa l'ho già vista.

Subito il mio naso viene invaso da uno strano odore di cipolle fritte, il quale mi fa confermare che il mio dubbio è giusto, e che in questo momento il ristorante in questione è aperto per il pranzo.

Senza pensarci due volte, mi dirigo verso l'entrata della struttura, mentre l'odore delle varie preparazioni si fa sempre più forte. Al diavolo il parco giochi: qui posso trovarci mia madre, e non sarà difficile parlarle.

All'interno vengo subito notata da due camerieri in divisa. Tolgo il mio cappellino alla Linny Klaus, sentendomi leggermente a disagio. Come me, anche i due camerieri cominciano a comportarsi in modo strano tra di loro. Si guardano intorno come se fossero impauriti, mentre io li guardo stranita. Ma... sono i due uomini che bloccarono mia madre fuori da qui, o sbaglio? Oddio, in questo caso si spiega il loro comportamento irrequieto.

Mentre cerco di sistemare i capelli ribelli appena liberati dal cappello, la porta che collega la cucina alla sala viene spalancata, rivelando la figura di una donna di mezza età, con i capelli legati in una coda di cavallo, mentre sorregge tre piatti pieni di cibo da portare al tavolo.

La riconosco immediatamente, ma resto ferma davanti all'entrata del ristorante, non sapendo bene cosa fare. Quei due camerieri mi guardano come se fossi un alieno...

Lei non mi nota subito, infatti lascia i tre piatti a coloro che hanno preso le ordinazioni. Afferra due bottiglie di vetro vuote, e si volta verso i due colleghi. È appena realizza le espressioni strane di quei due, che lei si volta verso l'entrata del locale e vede me.

Le sue mani liberano la presa delle due bottiglie, facendole schiantare a terra e frantumarle in migliaia di schegge. Resta pietrificata, senza staccare lo sguardo da me. Cerca di ricomporsi, ritornando con la testa sulla terra, e appena nota quel che è accaduto, si allontana come una lepre.

Con uno scatto fulmineo, parto e cerco di raggiungere il luogo dove è appena andata: il bagno.

Richiudo la porta sperando di essere nel posto giusto, e resto ferma cercando di riprendere fiato. Forse starà pensando che sono una pazza maniaca, e sinceramente non la biasimo. Avverto così tanto il bisogno di chiarezza, che sarei disposta a fare qualsiasi cosa, pur di mettere fine a questo enigma infinito.

Resto ad osservare l'unica porta chiusa tra i vari bagni, consapevole che, se lei è qui, quello è il gabinetto dove si è rifugiata. Ha paura? Vergogna?

Faccio un colpo di tosse, come per dichiarare la mia presenza, ma come risposta non mi arriva nulla se non un piccolissimo e quasi inaudibile singhiozzo.

«Kira...» Sussurro, non convinta di voler pronunciare il suo nome.

I singhiozzi si fanno più frequenti, quindi lascio la mia postazione, avvicinandomi a passi lenti alla porta chiusa.

«M...» Tossisco per il blocco che sento nel mio corpo. «Puoi uscire?»

La porta non viene aperta come richiesto, quindi sono io ad abbassare piano la maniglia, constatando che non è chiusa a chiave.

La lascio semi chiusa, in modo che sia lei a sentirsi pronta ad uscire. Sono impaziente, e anche un po' spaventata - lo ammetto - ma ho bisogno di vederla in faccia e parlarle con il cuore in mano, cercando di essere forte e non badare alle lacrime che sto trattenendo.

Come se fosse una lumaca, la porta si apre molto piano, rivelando la figura della donna in lacrime.

Qualche lacrima cade dai miei occhi, consapevole che quella è la reazione che ha riservato alla mia visita inaspettata, ma le asciugo in fretta. Che sia una cosa negativa o positiva, non devo mandare tutto a farsi benedire: la mia vita non deve finire in frantumi come quelle due bottiglie di vetro appena cadute a terra.

«Ho bisogno di risposte...» Vado dritta al punto. Vorrei chiamarla "mamma", per farla sentire un po' più serena - se potrebbe farla sentire come tale - ma non ci riesco.

«Lo so.» Risponde lei, la voce rotta.

Il mio cuore fa un paio di battiti più forti che mi fanno male all'interno del petto. Sospiro. Okay, sa... vuol dire che vuole parlare anche lei, giusto?

«Perché? Dimmi almeno perché lo hai fatto... perché mi hai lasciata sola come gli infami abbandonano i cani?» Le lacrime si liberano con una sola domanda, e fermarle risulta essere molto difficile.

Abbassa la testa per la vergogna che si percepisce subito. Ho paura della sua risposta. Sono pronta a sentirla uscire finalmente dalla sua bocca?

«Io...» Ingoia un groppo di paura. «Non potevo distruggerti con i miei picchi di rabbia.»

Sento un pezzo del mio cuore spezzarsi, mentre la mente mi riporta ai momenti in cui urlarmi di essere stupida o di doverla smettere di essere felice era all'ordine del giorno.

«Vedi? È quel che ti sto facendo anche adesso...» Nota, con la voce che si strozza per il pianto. «Neanche adesso posso starti accanto, perché a quanto pare non sono nata per essere una madre... il mio corpo ha sempre cercato di dirmelo, perché mi ha reso sterile.» Dichiara, e tutto il suo dolore lo sento scavarmi nella pelle, perforandomi i muscoli e lentamente anche le arterie.

Fa per andarsene e lasciarmi da sola a crogiolarmi, ma il mio corpo si muove sconnesso dal cervello. O forse è il cervello a dare il comando al corpo? Non lo so con esattezza, ma posso dire con certezza che mi muovo talmente in fretta da non rendermi neanche conto di averle afferrato un braccio per bloccarla.

«Tu...» Ingoio con difficoltà una bolla di saliva, riflettendo passivamente su quello che posso dire. «Tu non mi stai distruggendo.» Ammetto subito dopo, sperando di reggere. Non è lei ad essere la distruzione, ma la situazione che si è prolungata per anni. Non c'è niente di peggio di un abbandono, e se c'è una cosa che può fare, per portare un tassello al suo posto, è parlarmi.

«Come fai a dirlo? Stai piangendo come facevi da bambina, e so che è solo colpa mia, perché sono sempre stata una persona orribile.» Resta impuntata nella sua convinzione.

«Non è così.» Ribatto, asciugando qualche lacrima che continua a cadere. «Tu hai sofferto tanto... e tutto ciò ti ha portato a cambiare in peggio senza chiederti il consenso.» Spiego con fermezza, sperando di convincere anche me. Tra le conversazioni passate, le teorie possibili, e i momenti attuali, sto cercando di crearmi da sola le ragioni che hanno scatenato il putiferio nella mente della donna che ora mi guarda con disperazione.

«E chi te le dice, queste cose? Eri solo una bambina...»

«Te ne sei andata, e questo mi ha obbligata a crescere più in fretta. Ho sempre avuto un cervello molto attivo, sai?» Tento di sdrammatizzare, con gli occhi lucidi, ma mi ricompongo subito. «La morte di tua sorella... la mia vera mamma... ti ha sconvolta e catapultata in un'altra realtà, perché da un giorno all'altro ti sei ritrovata a dovermi crescere.»

I suoi occhi sono dei lucidi cristalli bagnati, come i miei, e continuo ad osservarla con compassione e tristezza, mentre il suo corpo sembra sciogliersi mentre vacilla.

«Tu...come...» Boccheggia, non realizzando di avere davanti una ragazza matura abbastanza da poter comprendere i dolori degli altri, immaginandone i motivi... perché sì, io sto immaginando i motivi che hanno portato mia madre a fare quello che ha fatto, ed a quanto pare sto facendo un buon lavoro.

La blocco, facendo la mia ultima domanda riferita a lei: «Soffri di disturbi psicologici come il borderline di personalità?»

Il suo sguardo passa da un occhio all'altro, terrorizzata. Scoppia in lacrime, inginocchiandosi a terra, e l'istinto mi porta ad inginocchiarmi con lei, sorreggendola. Ho sbagliato di sicuro a fare una domanda del genere come se fosse un "come ti chiami", ma necessito di risposte, e so che mettere alle strette è un buon modo di battere il tempo.

Le lascio appoggiare la testa sulla mia spalla, mentre lei continua a piangere e faticare a respirare. Restiamo così per un po', mentre le accarezzo la schiena e il braccio per confortarla.

«Sì...» Biascica, di punto in bianco, ed inizialmente non comprendo a cosa sia indirizzata la sua risposta. «È cominciato con un lieve borderline, ma nonostante io ti abbia abbandonata per poter essere ricoverata e tornare più forte di prima, mi è stato diagnosticato il bipolarismo allo stato medio. È per questo che non sono più tornata...» Termina, con l'anima a pezzi.

Assimilo ogni parola come una coltellata in pieno petto, e la devastazione che mi avvolge è una cosa talmente forte da distruggere anche la mia, di anima. Quindi... mi ha lasciata per il ricovero, per la sua salute? E sarebbe dovuta tornare dopo le dimissioni? Oddio.

Con le gocce naturali dei miei occhi che inzuppano le mie guance, ora è lei ad asciugarmi e sorreggermi. Mi sento andare in frantumi ad ogni secondo che passa.

«Io... non lo sa-sapevo. Mi-mi dispiace t-tanto.» Balbetto a causa dei singhiozzi, senza avere il coraggio di guardarla negli occhi. Riesco soltanto a tenere la mia fronte contro la sua, mentre lei mi scosta i capelli, accarezzandogli.

«Mia piccola Linda...» Un'altra piccola crepa sul cuore. «Eri una bambina... dispiace a me, perché sono stata una codarda, come adesso.» Ribatte, anche lei abbattuta.

Sospiro, cercando di reprimere ogni singhiozzo, per poterla finalmente chiamare come non lo faccio da anni. «Mamma...»

Scoppia in un pianto liberatorio, stringendomi forte a sé. Ricambio l'abbraccio senza pensarci due volte, perché come faccio a restare impassibile davanti a delle dichiarazioni del genere? Ha dovuto, e continua ad affrontare cose più potenti di lei. Come posso anche solo voltarle la testa? Mi ha finalmente chiarito uno dei dilemmi che mi porto avanti da 14 anni.

Resto legata a lei, beandomi finalmente di quell'abbraccio materno che cercavo da tanti anni, prendendo consapevolezza di quel che siamo e quel che saremo nel futuro: lei mi ha abbandonata a sette anni, quando ero ancora una bambina innocente e incosciente. Non ho avuto neanche una sua notizia, ma mi ha confermato che si è sentita costretta a tenermi alla larga a causa del suo bipolarismo. Tutto ciò che a me ha distrutto è stato fatto per il mio bene, per evitare di rompermi definitivamente.

Pensavo di dover ritrovare la mia madre biologica, anche se lei mi aveva abbandonata alla nascita, ma non potevo sapevo che era volata in cielo dandomi alla luce del mondo.

Credevo di dover ripudiare Kira, perché una madre, seppur adottiva, non dovrebbe mai lasciare un figlio...

Mi sbagliavo, però. Mi sono sempre sbagliata.

Seppur sia andata male per tanti anni, io devo considerare anche i primi cinque anni da favola che mi ha regalato, perché se non fosse stato per il suo iniziale sostegno, ogni non sarei neanche viva, o peggio sarei stata affidata a qualche orfanotrofio, dove solo Dio sa come sono i dipendenti che ci lavorano.

Devo pensare al fatto che, nonostante i suoi problemi fisici e psicologici, ha fatto qualche sforzo in più per trattarmi come una vera figlia, salvandomi anche dai suoi mali.

Devo provare a ragionare sul fatto che, vedendo le sue capacità venire lentamente a mancare, ha ben deciso di affidarmi, per quanto mi faccia male ammetterlo in questo momento, alla persona più buona e sorridente che io abbia mai conosciuto, il quale mi è sempre stato al fianco e per nessuna ragione al mondo mi avrebbe lasciata sola nei miei incubi.

Non c'è altro, quindi, che io possa dire per ritorcermi il mio stesso pensiero attuale: lei è mia madre, e lo è a prescindere dai suoi errori e dal fatto che non abbiamo un legame di sangue, se non che lei è biologicamente mia zia, poiché sorella della donna che mi ha cresciuta in grembo.

Kira è la mia madre affidataria - la persona più degna di essere tale - e non posso incriminarla per degli errori emessi in buona fede. È mia madre, e il passato non cambia le cose.

«Posso... posso sapere co-come si chiamava?»

Capisce immediatamente chi intendo, con la mia richiesta.

«Karen.»

«Keenan?»

La sento annuire piano sopra di me.

Karen Keenan...

«E mio padre... Mister Douglas... si chiama Jamie?»

Annuisce di nuovo, mentre una lacrima solca il mio volto. Lo alzo per incrociare il suo sguardo e studiare la sua espressione. È tremendamente afflitta, ma almeno adesso mi sostiene senza scappare.

«Dov'è, adesso?» Chiedo, sperando di non farle prendere un colpo.

Il suo atteggiamento non cambia, come se si aspettasse di sentirmi chiedere questo.

Mi scosta leggermente per guardarmi meglio in faccia. «Sei fortunata. Ci stai pedinando?» Trova la forza di ridere e scherzare.

Le sorrido. «Questo è il primo posto che ho trovato, ed è il locale dove ho ritrovato te, quindi ho pensato di poterti trovare anche oggi qui.»

Mi sorprendo io stessa della facilità che ho nello spiegargli le mie ragioni. È come se tutto il passato fosse appena stato cancellato. Non è perdonata totalmente, ma sembra che io mi stia tenendo un po' distante senza ragioni.

«Sei rimasta determinata come quando eri piccola.» Nota, rivolgendomi un sorriso di rammarico.

Io annuisco semplicemente, non sapendo cos'altro dire.

«Mi-mi dispiace non esserci stata, per te. Jamie ha saputo fare bene il padre, anche se la morte di mia sorella gli aveva fatto credere di non esserne in grado. È per questa ragione che lui mi ha fatto firmare i moduli di adozione per prenderti in custodia: senza sua moglie, lui era distrutto, e non ti avrebbe protetta come doveva. Non poteva neanche farti da mamma...» Mi spiega, con tono triste ma comunque comprensivo.

Il mio sguardo si incupisce leggermente, al pensiero di un neo-padre single, con una bambina di appena due pugni di grandezza, alle prese con la nuova vita... Chiunque, dopo la perdita della moglie, non si sarebbe sentito in grado di crescere un neonato. Senza dubbio era felice, ma il dolore era più forte.

«Dove sta?» Chiedo di nuovo, sentendo più forte la necessità di sentire la sua versione della storia.

«Giusto, dove sta...» Si alza da terra, confondendomi, ma poi mi porge la sua mano. «Vieni con me.»

Balzo in piedi con non troppa fretta, ma comunque in modo più veloce della norma, e poi mollo la sua mano per seguirla in modo indipendente.

Fuori dal bagno, il pavimento è ormai pulito, i cocci di vetro sono stati rimossi, e i due colleghi stanno sbarazzando a due tavoli diversi.

Ci notano, e lo stupore nel vederci insieme è palpabile anche da lontano.

«Non badare a quei due, che sono troppo curiosi di sapere la nostra storia.» Sussurra, in modo scherzoso, strappandomi un piccolo sorriso. Almeno anche lei, come me, usa il senso dell'umorismo anche quando cerca di non lasciarsi scalfire dalle cose negative.

«A breve dovrà cominciare il suo turno di lavoro in ospedale, quindi adesso sta mangiando.»

Mi indica un tavolo singolo all'angolo della sala, e la persona seduta ha una forchetta in mano ma lo sguardo che vaga fuori dalla grande vetrata alla quale affaccia. Lo riconosco subito, anche a distanza di qualche anno - in cui non passo le ore a parlare con lui - e resto immobile, non sapendo se sia il caso di disturbarlo o no.

Mi volto verso la donna al mio fianco, e lei fa un passo indietro, incitandomi con lo sguardo a raggiungerlo. Mi sta davvero incoraggiando?

Sospiro in cerca di coraggio, e annuisco, quindi mi avvio verso il tavolo in questione. A quanto pare, ho ereditato una sua caratteristica: preferire gli angoli isolati dei locali per focalizzarmi sull'esterno.

Resto a qualche passo da lui, ma si accorge da solo di avere una presenza alle spalle, infatti volta piano il capo per vedermi. Non sembra affatto sorpreso, ma credo che comunque non si aspettava di trovare me.

Mi rivolge un piccolo sorriso, il quale non capisco se esprime felicità o tristezza, e mi fa segno di sedermi al posto vuoto di fronte a lui. Vorrei poter declinare l'invito, ma è scorretto sia nei suoi confronti che in quelli degli altri clienti.

Tiro piano la sedia, e mi accomodo, non riuscendo però a guardare lui negli occhi. Cosa dovevo dirgli di così urgente? Mi sembra di aver perso il cervello.

«Sono sorpreso di vederti qui, Aylin.» Dice lui, per spezzare il silenzio, mentre addenta una forchettata di carne al sangue.

«E perché mai dovresti stupirtene?» Lo attacco, con un tono di voce che infastidisce persino me. Non mi piace rispondere a tono alle persone...

Intuisce subito che non sono qui per fare la pace con il mignolino, ma non demorde: un altro aspetto ereditato da lui.

«Come ti senti?» Chiede, cauto, e i nostri sguardi si scontrano.

«Ho parlato con mia madre.» Dico subito, e non capisco neanche io se risulto essere fiera della cosa, o se l'ho detto a mo' di sfida.

«Grande...» La sua espressione è davvero felice?

«Ovviamente intendo Kira, quella che mi ha adottato.» Sentenzio, ricordandogli che chi mi ha dato vita sono lui e sua moglie, la sorella di Kira.

Abbassa lo sguardo, il quale si rattrista subito. «Sì, è ovvio...»

Non so cosa rispondere. Cosa mi aspettavo di ottenere da lui? Non può di certo fare miracoli.

Sospira, e guarda di nuovo me. «So che dovrei dirti che mi dispiace. Non dico che non mi importa, perché è comunque vero che tu sei mia figlia. Come faccio a dirti che mi dispiace, se io non ho mai avuto il coraggio di dirti di essere tuo padre? Non potevo crescerti io, da solo, perché la perdita di Karen non mi avrebbe permesso di dedicarti la giusta cura. Sono stato un codardo e, nonostante ero felice di averti, ti ho affidato a sua sorella, anche se lei aveva più motivi di me per stare male.» Spiega, senza neanche fermarsi per respirare. Non piange, ma la sua voce manifesta ancora quella disperazione che si ha nel ricordare le cose dolorose.

«Mi hai affidata a lei perché non poteva avere figli?» Chiedo conferma, cercando di restare quasi impassibile. Il suo cenno del capo in segno di affermazione mi fa un po' cedere. Butto la schiena all'indietro, con lo sguardo fisso sul piatto di carne e patatine sul tavolo, desolata.

«Aveva scoperto di essere sterile il giorno prima che sua sorella venne ricoverata per il parto, e dopo altri tre giorni, con la notizia che Karen aveva avuto una emorragia terminale post parto, il suo dolore si è moltiplicato. La mia unica opportunità era lei, e questo inizialmente l'ha risollevata. Io venivo a trovarti ogni giorno, appena terminavo il turno di lavoro, ed ero comunque felice di vederti crescere lentamente. Faceva un sacco male, perché mi ricordavi costantemente la donna che io continuavo ad amare.» Ammette, ed io mi alluno per asciugargli una lacrima che gli sfugge dall'occhio destro.

Lo guardo con estrema tristezza, e soprattutto con i sensi di colpa che mi sfregiano la pelle. Cosa pensava ogni volta che, vedendo me, vedeva una persona che era salita in cielo troppo presto? È comprensivo il fatto che facesse fatica a tenermi con lui.

«Mi sono allontanato per un po', quando avevi tre anni, perché credevo che la mia presenza infastidisse Kira, che aveva cominciato ad avere piccoli sbalzi d'umore. Il suo compagno l'aveva mollata un anno prima, perché lei non gli ha mai detto di essere sterile. Dal poco tempo previsto di lontananza, fu lei a chiedermi di presentarmi da te meno spesso, perché risultava essere più irascibile con me. Da lì, io ho cominciato ad avere paura di quel che tu potevi pensare di me, e con questo non ho mai avuto il coraggio di ammettere di essere tuo padre. Te lo facevo pensare, ma io non riuscivo a confermartelo. Quale padre vedrebbe sua figlia solo due volte a settimana?»

Anche i miei occhi liberano gocce di lacrime trattenute per troppo tempo, mentre afferro le sue mani. Ciò che hanno fatto, entrambi, è stato dannatamente sbagliato per una piccola bambina, ma hanno dovuto affrontare talmente tante cose messe insieme, in un tempo ristretto, che non hanno potuto comportarsi altrimenti.

«Mi sono fatto schifo da solo, e quando poi tua madre ha iniziato a peggiorare anche con la mia assenza, ho tentato di rimediare. Lei doveva essere ricoverata in una struttura, ed io ho pensato di fare per te un mestiere che ho sempre desiderato: l'assistente sociale. Ho pensato che poteva essere un buon modo per starti più vicina e perdonarmi. Odiavo mentirti, ma è stato l'unico modo per far andare avanti la cosa, e la cosa che mi distrugge di più è che tu abbia avuto le conferme molto tardi.» I singhiozzi lo costringono a fermarsi dalla sua spiegazione, mentre io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.

La mia mente è invasa: io sono stata molto male, non sapendo chi fosse la mia madre biologica, il mio padre, oppure cosa avessi fatto di sbagliato per essere stata abbandonata da tutti... ma loro quanto hanno sofferto? A testa e croce, la risposta è senza dubbio brutta: hanno dovuto sopportare davvero troppo.

«Quindi ti dispiace comunque per come siano andate le cose, giusto?» Chiedo, un po' confusa, anche se la sua risposta dovrebbe essere stata abbastanza chiara.

Annuisce, mettendo fine ai miei dubbi. Tra le lacrime, quindi, gli rivolgo un sorriso sincero, come quelli che le figlie fanno ai loro padri. Perché sì, nonostante gli inconvenienti della vita, lui ha lottato contro sé stesso per starmi accanto e non abbandonarmi. Anche se non mi ha mai confermato di essere mio padre, il mio cuore lo sentiva, e questo mi rendeva comunque felice.

Entrambi, a modo loro, hanno provato a far funzionare le cose dopo essere stati colpiti da un addio, del tutto impreparati.

«Non ti chiedo assolutamente di perdonarci, ad entrambi. Quello che ti abbiamo fatto è stato orrendo, e tu non avresti mai dovuto affrontare questo genere di cose. L'unica cosa che ti chiedo è: non criminalizzarci. Tua madre, mia moglie, ovvero la sorella di Kira, non avrebbe mai voluto una vita del genere per te, ma quel che le è successo ha messo a dura prova ognuno di noi. Ce la siamo cavata, credo, altrimenti lo spirito di Karen mi avrebbe buttato da un ponte.» Ironizza nel suo serio discorso, riuscendo a farmi ridere con le lacrime che continuano a scendere.

Sorride anche lui, malinconico, e poi continua: «In questo momento, pensandola in modo di dire "positivo", ti chiedo di immaginare la tua vera madre e comportarti in base a quel che credi che lei vorrebbe. Ti svelo un segreto: Karen era esattamente come te, delicata, comprensiva, reale... quindi prova a pensare con un cuore sempre tuo, mettendo da parte il rancore.»

Gli stringo le mani, guardandole, mentre lui muove i pollici per accarezzarle.

«Mister Douglas...» Faccio un piccolo colpo di tosse per il dispiacere che provo, adesso, a chiamarlo così. «Jamie...» Mi correggo, ma anche questo non suona bene in questo momento. Vado avanti così, però. «Non ho bisogno di pensare o scegliere cosa fare.»

Mi rivolge un sorriso quasi emozionato, nonostante la confusione, facendomi capire che ricorda bene il mio modo di essere. Ricambio la piccola risata, ma continuo, per confermare la sua ipotesi.

«Mi sono arrabbiata tanto, perché sono stata tenuta all'oscuro da cose che mi riguardano in prima persona. Ho provato tante cose, ma soprattutto sono stata male, e tanto. Ma la mia mente non smette mai di pensare.»

«Lo so...» Sussurra, mantenendo il suo sorriso.

«Ho immaginato troppe cose, ma sapevo che, per smetterla di struggermi la mente, dovevo parlare con almeno uno di voi due. Se fossi stata un'altra persona, non sarei mai venuta a cercarvi con così tanta tranquillità. Non avrei neanche voluto vedervi...»

«Ma tu sei per la pace, e sempre determinata a sistemare le cose nel modo giusto.» Risponde lui, togliendomi le parole di bocca.

Anche io sono commossa dalle tante cose che lui sa di me, infatti ora le lacrime non sono dovute dal dolore.

Lo guardo negli occhi senza staccare le mani dalle sue. «Ho avuto le risposte che mi servivano per mettermi l'anima in pace, e mi sono resa conto di aver reagito nel modo giusto. Ho ragionato mentre ho sentito le vostre parole, e sono giunta alla conclusione che voi non siete dei mostri. Avevate paura, e stavate male. Perché dovrei criminalizzarvi? Sbagliare è umano, anche da adulti.»

Cede fra le mie parole, appoggiando la sua testa sulle mani unite, in lacrime emotive. Singhiozza, e i suoi rumori attirano anche l'attenzione dei presenti su di noi. Kira, dal bancone del bar, ci raggiunge quasi allarmata, ma si calma notando le nostre mani.

Cerco di non badare agli sguardi, e neanche a mia madre qui al mio fianco. Guardo di nuovo Jamie, mentre alza piano la testa e stacca le mani per asciugarsi il volto.

«Mi sei sempre stato accanto, anche nei momenti peggiori. A volte ti presentavi per chiedermi semplicemente come stavo.» Ridacchio, seguita da lui. «Non sarebbe stato giusto eliminarti dalla mia vita dopo quello che hai dovuto passare, papà.»

I suoi occhi si spalancano, mentre io non capisco cosa ho detto di sbagliato da scioccarlo. È la verità, è quello che penso, e non credo che sia uno scoop.

«Cosa hai detto?» Chiede, ma la sua domanda non sembra irritata.

«Che è sb-»

«No...» Mi interrompe Kira, mia madre, sorridendomi. «Intende dire come lo hai chiamato.» Specifica.

Che? Perché? Com... oh. Oddio, l'ho chiamato "papà".

Sorrido, un po' imbarazzata. «Beh, non posso chiamarti così?» Chiedo.

«Oh, no, cioè sì, certo che puoi...» Balbetta anche lui, un po' imbarazzato. Non l'ho mai chiamato in questo modo, e l'emozione nei suoi occhi è palpabile. «Solo... puoi dirlo di nuovo? Ho bisogno di capire se è reale.»

«O-okay... papà.» Dico, nonostante la vergogna e la commozione mi stiano mangiando viva.

«Ancora.»

«Papà!»

«Di nuovo...»

«E dai, non sono una bambina.» Mi lamento, imbarazzata.

Alza le mani in aria, ridacchiando. «Va bene, va bene... ma sei la mia bambina.»

Sorrido, e dopo qualche secondo mi alzo dalla sedia, vedendo l'orario proiettato sul televisore della sala.

«Credo che si è fatto tardi, adesso. Abbiamo parlato davvero tanto.» Comunico, con il sorriso che non abbandona il mio volto.

«Oh, cavoli... devo andare al lavoro.» Jamie, mio padre, sembra ritornare in sé, realizzando che ore sono. Beh, mancano venti minuti alle tre, quindi è ancora in orario per il turno di lavoro pomeridiano.

Mi allontano, dopo aver lasciato un piccolo abbraccio a mia madre, stupendola anche con un leggero bacio sulla guancia. Io e mio padre usciamo insieme dal locale, e subito lui ne approfitta per abbracciarmi forte. «Cavolo, sentirti dire "papà" riferito a me è una cosa stupenda. Karen ne sarà felicissima.»

Sorrido alle sue parole, un po' triste, guardando il cielo. «Chissà se ora ci sta guardando...»

Anche lui alza lo sguardo verso l'alto. «Ne sono sicuro. Un giorno te la farò conoscere.»

«Grazie.» Lo guardo, asciugandomi una lacrima.

«Sono io che devo ringraziare te, per non essere scappata.»

Gli do un bacio sulla guancia, facendo per andarmene, ma lui mi blocca dal polso. «Vieni con me, ti do un passaggio. Ti porterei in capo al mondo, per rimediare agli errori.»

Ridacchio, senza mollare la presa, dietro di lui. «Lo hai sempre fatto, papà. Mi hai fatto vivere il mondo.»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top