Dell'arrivo
Il nome Talassa era stato scelto in onore dell’omonimo satellite nettuniano, che era stato inglobato da Giove durante il suo processo per diventare una stella. Talassa era la megalopoli più bella e grande del Sistema. L’atmosfera di Nettuno era troppo densa per gli umani che la costruirono, millenni prima, perciò la chiusero in un’enorme sfera: il più grande pannello composto da una lega di titanio e una di diamante trasparente mai costruito nella storia dell’uomo. Talassa ospitava tutto ciò che di più bello, più importante, più tecnologicamente avanzato fosse mai stato creato. L’intera città si reggeva su degli enormi magneti che traevano la loro potenza dalle radiazioni delle due stelle. La megalopoli era così abnorme da essere suddivisa non in Aree, come nel resto delle città
del Sistema, ma in Quadranti. Ce n’erano in tutto centosedici. Non appena tutto questo splendore si mostrò ai nostri giovani occhi, Talia ed io rischiammo di scendere alla piattaforma sbagliata. Non potrò mai dimenticare cosa provai nel ritrovarmi improvvisamente catapultato nella capitale dell’opulenza e della tecnologia più avanzata. Non esisteva una sola traccia di povertà in quel paradiso splendente e radioso. Gli edifici erano i più grandi e i più bianchi che avessi mai visto, ed ospitavano i più svariati uffici delle cooperative più importanti del sistema. Le eliauto volavano in fila indiana sopra di noi, ad un’altezza sufficiente per poter ammirare quei prodigi della meccanica spaziale. Le strade erano larghe e bianche, e tutti camminavano in un ordine e in una tranquillità quasi paradisiaca.
Dappertutto erano umani. Evolutisi di molto dai tempi della migrazione, erano ora molto più slanciati e dalla pelle bianca quasi translucida. Gli occhi rimanevano la loro caratteristica più spiccata: lucenti, brillanti d’intelligenza, delle più svariate tonalità, mentre i lineamenti fini del volto e le labbra pallide producevano uno splendido contrasto con i capelli, nella maggior parte dei casi lunghi e azzurri. Miriadi di teste azzurre, celesti, turchesi, blu, zaffiro inondavano le strade della megalopoli. Io guardai il capo di mia sorella, coperto da una cascata di capelli nero pece come i miei, che incorniciavano un volto violaceo dai lineamenti duri e marcati, sebbene non volgari, su cui la lucentezza dei suoi occhi blu intenso spiccava come può brillare uno zaffiro colpito dalle radiazioni luminose di Giove. E capii quanto fossimo diversi da loro. Quando ci passavano accanto, quegli esseri così aggraziati storcevano delicatamente il naso pallido, scrutandoci intensamente con quegli sguardi incisivi come lame. La Guardia Vegliante mi afferrò all’improvviso per un braccio, costringendomi a fissarlo negli intensi occhi castani.
«Cosa ci fate qui, giovani plutoniani?» chiese, con la sua voce dura. Sostenni il suosguardo quanto più potei.
«Cerchiamo nostro cugino, Ferek kah Lameh, del Quadrante settantacinque.» La Guardia estrasse dal tascapane metallico il computer e controllò la mia affermazione. Una volta accertatosi della mia sincerità, alzò lo sguardo su di me e m’indicò la via più breve per raggiungerlo. Quando si allontanò, notai di sfuggita che stava spruzzandosi sulla mano con cui mi aveva afferrato un liquido rosso. Scossi il capo, capendo che si stava disinfettando.
Quando arrivammo a casa di Ferek, era notte. Erano iniziate le sette ore di buio dell’estate nettuniana. Entrammo nell’atrio del grande palazzo in cui abitava insieme ad altre otto famiglie, e il computer all’entrata chiese le nostre generalità. Una volta date, insieme alla nostra impronta digitale, il sistema centralizzato aprì una porta scorrevole sulla nostra sinistra, che ci avrebbe condotto direttamente a casa di Ferek. Attraversammo uno splendido giardino, dove lucciole bioniche illuminavano il sentiero. Quando bussammo alla sua porta, Ferek non ci aprì. Non lo avevamo mai visto, ma sapevamo che ci conosceva. Era un mezz’uomo, figlio dello zio umano di nostra madre, e aveva impiegato molto tempo per farsi accettare dalla società, rifuggendo la vita a Plutone. Suo padre aveva sposato una plutoniana, sorella di nostra nonna materna, e Ferek non gli perdonò mai il fatto di essersi imparentato con noi. Sapendo questo, dissi:
«Non desidero nient’altro che tu ci indichi il modo migliore per vivere con gli uomini. Non abbiamo né padre né madre, né un posto dove dormire. Non ti chiedo niente, se nonun’indicazione.»
«Non sappiamo cosa fare, né dove andare…» sussurrò Talia. Le misi una mano sulla spalla, sorridendole per infonderle forza. Attraverso la porta, Ferek ci indicò un uomo che avrebbe potuto aiutarci e che si occupava di tutti i Trans-gioviani che volevano vivere a Talassa. Il suo nome era Kanak, e abitava nell’Area ventidue del sesto Quadrante, nel settore Omega. Detto questo, non parlò più. Capii che non avremmo potuto avere nulla di più da lui, così portai Talia fuori di lì.
Quella notte dormimmo all’addiaccio, sulla piattaforma su cui eravamo scesi quella mattina stessa, aspettando il sorgere delle due stelle. Quella notte, mentre Talia dormiva sulla mia spalla, intramezzata dai singhiozzi, realizzai che quel mondo ci era molto più ostile di quanto avessi mai potuto credere. Avevamo solo noi stessi su cui contare, e le nostre forze come unico aiuto. Dovevo fare qualcosa, e l’avrei fatta.
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