Le strade sono silenziose, a parte per qualche mezzo articolato in procinto di consegnare merci e viveri ai market di Cambridge (se te lo chiedi, non è quella Cambridge, anche se chiamata in onore della sua omonima inglese, bensì la cittadina nel Massachusetts).
Il cielo si è ingrigito, il sole è sparito dietro una coltre di nuvole spesse e non proprio candide.
Ai lati dei marciapiedi gli alberi sono ancora spogli, nemmeno una foglia libra nell'aria, tranne qualche uccellino che fischietta al nuovo giorno.
La pista ciclabile sui cui mi sto muovendo è priva di traffico, mi sembra così paradossale ora, alle volte mi superano diversi corrieri che vanno con una fretta del demonio, gli zaini portavivande che ballonzolano al ritmo delle loro leste pedalate.
Mi dico che sono fortunata: il mio lavoro non ha nulla a fare con i vivi al momento e posso percorrere questo breve tratto dal mio alloggio alla mia destinazione con tutta calma.
Come i giorni precedenti, appena svolto nel grande incrocio a destra, una pattuglia di polizia mi fa cenno di fermarmi: ormai è un ripetersi, ammetto che sono infastidita dalla cosa, ma alla fine loro stanno solo facendo il loro lavoro.
I poliziotti mi chiedono il lasciapassare e, con un gesto automatico, pesco il documento dalla tasca del cappotto e glielo mostro.
Il poliziotto più vicino alla strada mi indirizza un cenno; posso andare.
Inizio a pedalare più veloce. Mi sto dirigendo a cavallo della mia bici a noleggio verso una delle più importanti università dello stato, quella Harvard che più o meno conoscono tutti per nome.
Quando finalmente scorgo la cupola della sede centrale dell'ateneo, inizio a rallentare la mia corsa, mi sento euforica.
Poi entro nel campus: il vociare degli studenti mi accoglie come un abbraccio e mi rendo conto che il silenzio che vige ora nelle strade lì fuori mi destabilizza in qualche modo.
Tuttavia mi rendo conto che sono tutti con le valigie alla mano e, anche se le mascherine mediche non permettono di vedere molto, è comunque impossibile non notare le fronti aggrottate e la strana fretta con cui si muovono verso l'uscita.
Parcheggiata la bici recupero la mia tracolla, poi indosso la mascherina medica sul volto e mi incammino in direzione dell'area adibita all'osservatorio di gran carriera.
La mia ultima destinazione sono i tre piani dell'Harvard College Observatory, per me una vera e propria caverna dei quaranta ladroni: si trovano cinquemila lastre di vetro, custodite dentro ad armadietti, dalla dimensione di venti per venticinque centimetri, grandi come un negativo fotografico risalente all'Ottocento, e conservano dati astronomici di telescopi puntati su regioni e oggetti della volta celeste...
Okay, non ci hai capito un'acca eh?
In sostanza sono come appunti che riproducono gli astri con tanto di equazioni, di frecce, di archi, di lettere e altre varie annotazioni. E sono opera di donne, pionere degli astri, che nel corso della Storia sono passate purtroppo inosservate... (E alla faccia dell'uguaglianza!).
La cosa è di vitale importanza non solo per me, ma anche per l'Università stessa: la professoressa Zimmer, la curatrice dell'Osservatorio, è riuscita a risalire insieme ai suoi studenti a Henrietta Swan Leavitt e Annie Jump Cannon, nomi che purtroppo non ti dicono niente, ma posso assicurarti che in qualche modo conosci perché la prima ha scoperto più di duemila stelle a luce pulsante (così capendo che poteva misurarne la luminosità e la distanza) e la seconda ha scoperto le differenze di temperatura tra le stelle e ha rivoluzionato un sistema di classificazione che ti hanno fatto studiare in scienze e in geografia astronomica a scuola.
La professoressa Zimmer è una tosta, anche se di aspetto non lo sembra, perché è così minuta da sembrare un topolino in procinto di essere scoperta da un gatto affamato. Non l'ho vista sorridere mai una volta, ha sempre quell'aria un po' sparuta, ma quell'espressione si è un po' incrinata quando mi sono presentata qui con la mia squadra: forse per lei è stata una manna dal cielo, non so che dirti, dato che la mia presenza ha impedito a un progetto che durava dal 2000 di scansionare tutte le lastre e digitalizzarle.
Aspetta. Mi sembra di sentirti brontolare...
Cosa c'è di bello, dici?
Questa collezione non dovrebbe essere resa di dominio pubblico e usufruibile per tutti su internet?
Certo, ci mancherebbe altro!
Peccato che per scannerizzare e per digitalizzare le lastre, in modo da rendere più nitidi i dati astronomici, hanno dovuto cancellare tutti (sì, tutti) quegli appunti e annotazioni che si trovavano sull'altro lato delle lastre prima della scansione. In parole povere hanno cancellato su circa quarantasettemila lastre appunti ed equazioni di queste studiose per digitalizzare tutto quanto: quando l'ho scoperto, proprio un anno fa, avresti dovuto vedermi perché, a detta della mia migliore amica, il mio viso è diventato dello stesso colore dell'agata bianca (e lei se ne intende, è una geologa!).
In fretta e furia, presa da una frenesia pazzesca, ho iniziato i preparativi, facendo invidia alla luce per la velocità, ho coinvolto una squadra di ricerca esterna e mi sono fatta avanti: ci è voluto un po', ma infine sono arrivata all'Osservatorio con la mia squadra, pronta a mettermi all'opera e a salvare quei dati a ogni costo.
Dopo il nostro arrivo le lastre che non sono state scansionate sono diventate la priorità principale del nostro lavoro per preservarne anche la bellezza, anche se erano davvero poche quelle rimaste integre.
Dopo aver camminato spedita per il corridoio, entro nell'archivio del terzo piano, quando mi viene incontro la mia assistente Molly: è tutta trafelata, lo intuisco anche se ha indosso una mascherina che quasi le copre gli occhi sempre cerchiati da quell'orrenda matita nera che la fa somigliare a un panda.
«Prof, mi dispiace!» inizia esclamando, per poi bloccarsi e fissarmi in silenzio.
Forse è stata la mia espressione contrariata a bloccarla? Non so...
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