7. Tosca

Mi feci trovare pronta per le diciassette. Quando si stava avvicinando l'orario avevo il batticuore, ero emozionata e veramente felice di trascorrere di nuovo del tempo con lui; la sua compagnia mi rendeva viva e ricolma di gioia. I miei occhi risplendevano come il sole in primavera.

Ero felice di rivederlo.

Suonò al campanello e uscii, accompagnata da mia madre, non potendo camminare con facilità indipendentemente.

Lui ci venne incontro e mi aiutò a entrare in macchina.

Dopo aver parcheggiato ci dirigemmo alla fiera di piante e oggetti artigianali. Mi propose di mangiare un kebab in un locale poco distante e così ci dirigemmo proprio là.

Purtroppo, però, c'era una fila fin troppo lunga per ordinare del cibo, così proseguimmo a piedi verso una pizzeria al taglio. Entrammo e prendemmo due pezzi a testa e ci sedemmo al tavolino fuori. Si trovava in un vialetto del paese, era molto pittoresco e al limite del romantico. Addentammo il cibo con una gran fame. Parlammo del più e del meno. Gli raccontai che non desideravo sposarmi, perché non lo trovavo necessario: se ci si ama, non c'è motivo di fare un rito per mostrarlo al mondo, volevo una semplice festa di celebrazione del nostro amore con gli amici; lui si trovò d'accordo. Successivamente gli dissi che avrei voluto avere dei figli e lui, stavolta, dissentì perché non ne desiderava. Arricciai il naso, non perché avessi la speranza di averne con lui, ma perché così avrei dovuto escluderlo a prescindere.

Tornando alla macchina gli proposi di vederci un'altra sera un film a casa mia: Willy Wonka con Timothée Chalamet; notai il suo imbarazzo e la sua poca convinzione al riguardo. Era come non volesse accettare l'invito, così aggiunsi:

«Come semplici amici e senza obblighi» stavolta annuì, ma vidi comunque della titubanza che non lo rendeva tranquillo. E io mi chiesi perché...

Ci rivedemmo due giorni dopo per andare al cinema e successivamente ci fermammo in un pub per un aperitivo. Gli parlai di un nuovo libro che stavo leggendo, parlava di semidei ed era un fantasy.

Lui mi osservava con curiosità e interesse e questo mi fece molto piacere, perché l'essere ascoltata mi faceva sentire compresa.

Facemmo di nuovo una passeggiata alla pineta e mi parlò di musica. Ci confrontammo sui nostri gusti musicali che sorprendentemente si assomigliavano molto.

Il passo successivo, quello che fece la differenza lo fece lui.

«Ti va di vederci quel film a casa tua?» acconsentii ovviamente, anzi, ne ero immensamente felice. Non che avessi grande aspettative o speranze. Non confidavo in niente di realmente eclatante.

Due sere dopo  venne a casa mia per cena. Portò un falafel e un kebab, mia madre ci aveva lasciato casa libera. Perciò avevamo casa libera. Mangiammo prima al tavolo, poi ci mettemmo comodi sul divano davanti alla televisione. Misi play e la prima canzone, cantata dal mio attore preferito, risuonò dalle casse della tv.  Mi feci avvolgere da quella voce che mi era così familiare e che mi riempiva ogni volta il cuore di felicità. Spesso basta così poco per far gioire una persona: a me bastava una persona a cui ero affezionata accanto a me sul sofà e un film a me caro. Era così semplice sorridere in quel momento. Il mio sguardo me lo immaginavo simile a quello di una bambina di fronte a una torta ricoperta di panna. 

Non finimmo di vedere il flm, a lui non interessava.

Mi propose, invece, di suonare un pezzo al pianoforte a due mani, la mia destra e la sua sinistra,  e io, arrotolata in un velo di beatitudine e quindi, completamente incerta, annuii e mi avvicinai con la stampella allo strumento in legno di noce, e mi sedetti su una sedia, poggiandomi con il tronco del mio corpo allo schienale, lui, invece, si sedette sullo sgabello di pelle nero, prese uno spartito che aveva portato e lo aprì di fronte a noi sul leggio. Iniziò suonando i bassi, ai quali mi aggiunsi io con la melodia della canzone. 

Fu un disastro.

Lui mio osservava di nascosto di continuo le mani, e io fui impanicata dal fatto che forse avessi le unghie sporche e che lui se ne fosse accorto. Ma non era così. 

Lui ne era attratto, le mie mani lo richiamavano, lui le dorava.

Comunque non riuscimmo a suonare niente di decente, ognuno componeva una melodia diversa da quella scritta sullo spartito. Forse già questa era un segno metaforico della nostra incompatibilità: avevamo la necessità di prendere strade diverse. Non credo in questo genere di cose, ma in cuor mio penso che già all'epoca pensavo che non eravamo fatti l'uno per l'altra. Ma questo non potevo saperlo, ancora. 

Non riuscendo nel nostro intento, volli tornare sul divano, così in una tacita richiesta di aiuto con uno sguardo, lui stavolta mi prese tra le sue braccia contro la mia volontà. Mi vergognavo.

«Mettimi giù! Peso!» arricciai il naso, angosciata dall'effetto che le sue dita impresse sul mio corpo potessero scaturire. Ne avevo paura. Era tanto tempo che non percepivo più  quei brividi provocati da un uomo, ne ero terrorizzata!

Mi portò di nuovo sul divano, dove mi adagiò cautamente. Affondai nel materasso morbido e con la schiena nei cuscini. Lui si posizionò di fronte a me e alzò lo sguardo sui miei occhi.  Erano del colore del termine di un tramonto. Un marrone chiaro sfumato d'oro. Erano belli, e il cuore si fermò per un tempo che durò un battito di ciglia. Non so che sguardo avessi, ma oggi mi immagino  quello simile a una bambola posata su un sofà con un'espressione immobile, che non mostra alcuna emozione, per quanto in realtà il mio cuore facesse le capriole e la mente volava lontano per vederci dall'alto baciarci e fare le fusa. Ero una ragazza estremamente fantasiosa e con alte aspettative.

Lo sono tutt'ora.

Abbozzò l'accenno di un sorriso debole, ingenuo e pieno d'imbarazzo. Quella stessa espressione si trasformò in un ghigno furbo stampato in viso.  Quando cominciai a fissarlo anche io, mentre la gola cominciava a chiudersi per le vibrazioni assurde che provava il mio povero cuore, lui cominciò a evitare d'incrociare il mio sguardo. Osservò, quindi, nuovamente le mie mani, che per l'agitazione e l'imbarazzo cominciai ad attorcigliare al bordo della mia  camicetta a maniche corte.Ero sepolta da un panico viscerale che mi fece cominciare a sudare freddo. Il respiro diventò frammentato e aritmico. 

Quando aprì la bocca per parlare, il respiro mi morì in gola e quando pronunciò quelle parole che diedero inizio alle eruzioni vulcaniche, rimasi in apnea. 

«Ci proviamo?» non feci in tempo a rispondere e comprendere la domanda che lui si avvicinò a me. Il suo vico si fece vicino.

Possibile che non avevo capito i suoi segnali? Il problema era ed è tutt'ora che io gli uomini proprio non li comprendo. Non riesco a carpire i loro pensieri e tantomeno il loro volere. In sintesi non capisco cosa desiderino. 


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