38. Player put the money on it


JUNE POV

Gli orecchini di perle della signora Cooper scintillano nella penombra che regna nella sala d'attesa. Lo chignon alto e dorato le incornicia il viso smunto, regalandole un'aria distinta ed elegante, mentre se ne sta in piedi nella sua sagoma snella, vestita tutta di nero.
Sta continuando a parlare al telefono, incurante di me e James, entrambi affossati nelle scomode sedute di quella piccola saletta dell'ospedale. Siamo qui da soli pochi minuti, ma io sto già cominciando ad iper ventilare. Odio gli ospedali.
L'odore di disinfettante misto al cibo da mensa, le facce serie, quei colori spenti e le pareti sbiadite. Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo.
Nessuno pare accorgersi del mio malessere, forse perché non sono l'unica a provarlo. James è un fascio di nervi, tiene lo sguardo immobile, fisso nelle sue stesse mani che sfrega nervosamente sui pantaloni della tuta. Ogni tanto mi volto verso l'ingresso dell'ospedale, in attesa di Jackson che dopo avermi scaricata qui, si è messo a cercare parcheggio.

«Ehi...» provo a richiamare James, lui però non si smuove. I denti stretti e la mandibola serrata mi fanno presagire che sia ancora teso.

Poco fa era così scosso che non riusciva neanche a vestirsi, ho dovuto dargli una mano a mettersi la felpa, prima di uscire da casa di Connell.

Quando siamo corsi in giardino, alcune ragazze non facevano che ripetere l'accaduto.

«Camminava sul bordo ed è caduto.»

«Sicuri che non si è buttato?» ho udito chiedere ad altri.

«No. Si è sentito male ed è cascato in piscina.» hanno detto i testimoni dell'avvenimento. Immancabili però sono state le malelingue che continuavano a bisbigliare "Secondo me si è buttato di proposito."

Il ragazzo di Stacy ha raccontato di come ha estratto William dalla piscina, prima che questo annegasse.

E poi è stato tutto così confuso... ero così paralizzata e tremante da credere di vivere un incubo. Solo ora che siamo qui all'ospedale, mi accorgo di come tutto ciò sia tutto fottutamente reale.

Abbiamo seguito l'ambulanza con la macchina e quando la madre di William ci ha visti arrivare, le si è disegnato il disprezzo sul viso.

«Come sta?» le abbiamo chiesto appena giunti.

«Non so ancora niente. So solo che è fuori pericolo. Che ci fate qui?»

«Che cos'ha avuto?»

«Intossicazione da litio. Tutto l'alcol che aveva in corpo gli ha procurato una disidratazione importante e questo ha causato l'aumento del litio nel sangue.»

La donna è stata fredda e meticolosa nel raccontare l'accaduto, non sembrava una madre in pena per il figlio.
Continuo a vederla andare avanti e indietro per il corridoio buio, con quel cellulare sempre in mano.

«Sei la figlia di April?» domanda ad un certo punto, corrucciandosi.

«Sì.»

«Ah.»

Poi torna alla sua chiamata.
Mi alzo in piedi, non reggo più questa tensione. Il non sapere come sta William, il non poter fare niente per aiutarlo. Mi avvicino alla donna che continua imperterrita a parlare al telefono.

«Lo so, lo so. Dovevo partire questa notte. Ho avuto un contrattempo. Sì.»

Sembra stia discutendo di lavoro, ma a me poco importa.

«Scusi, ma lei deve partire di nuovo?» domando causandole un cipiglio.

James si volta per fulminarmi con lo sguardo.

«Sì ma sono costretta a rimandare.» replica la donna.

«Beh mi sembra il minimo... hanno detto altro?» insisto poi, con l'impazienza disegnata sul volto.

«Vado a sentire.» conclude sbrigativa, lasciandoci lì ad aspettare ancora.

Non riesco a smettere giocare nervosamente con i capelli, attorcigliando la base della coda intorno alle dita. Nella mia mente scorrono scenari terrificanti.

«Puoi calmarti? Mi stai facendo agitare, cazzo.» sento James lamentarsi, mentre con le dita seguita a far rollare l'anello intorno al medio.

Vorrei dirglielo, guarda che in realtà tu sei molto più agitato di me, invece pronuncio la prima cosa che mi viene in mente per rassicurarlo.

«Non è colpa tua James. E neanche mia.»

Quell'affermazione scalfisce la sua bolla di indifferenza, costringendolo a sollevare lo sguardo per incatenarlo al mio.

«Lo stai dicendo a me? O a te stessa?»

Mi volto per evitare l'occhiata seguita dalla provocazione che mi lancia addosso. Infondo, ma neanche poi tanto infondo, mi sento tremendamente in colpa. E so che anche per lui è lo stesso.

James si alza in piedi, intanto solleva il cappuccio della felpa sui capelli scompigliati.

«James...»

Lo vedo passarmi davanti per poi uscire da quella sala d'aspetto a passo spedito.

«Ho bisogno di fumare.»

Non ci penso più di tanto, decido di seguirlo, anche perché non voglio restare in questo postaccio da sola.
Pensavo uscissimo in strada, invece James prosegue verso un'uscita d'emergenza, questa ci conduce verso delle scale che danno sul tetto della struttura.

Fuori non fa freddo, ma l'aria notturna è fresca abbastanza da darmi i brividi, probabilmente avrei bisogno di una giacca per scaldarmi un po'.

«William sta bene ora. L'hai sentita, ha detto che è fuori pericolo.»

James non sembra interessato alle mie parole, preso com'è ad accendersi una sigaretta. Per il poco che lo conosco, lo so che si sta attribuendo la responsabilità di ciò che è successo al suo migliore amico.

«Non devi sentirti in colpa.» ripeto, dopo aver osservato attentamente la sua espressione sofferta.

Nel buio noto che i suoi occhi già sottili agli angoli, si affilano ulteriormente.

«Quindi tu non tornerai a casa... sentendoti in colpa, vero?»

Abbasso immediatamente la testa.

Non sai quanto

Una nuvola carica di fumo abbandona quelle labbra carnose mentre tiene lo sguardo inclinato nel vuoto.

«Will non ha bisogno di altri drammi nella sua vita.» lo sento dire, difronte al mio silenzio.

«Lo so, ma...cosa c'entra?»

Lo chiedo con un filo di voce, anche se purtroppo so già dove vuole andare a parare.

«E io lo sapevo che li avresti portati.»

La voce di James è categorica, come se stesse esponendo una verità assoluta.

«Ti rendi conto che dicendo così, mi stai addossando la colpa?»

«Non te ne sto facendo una colpa, ti sto spiegando perché non volevo ti avvicinassi a noi, perché ero sempre fottutamente preoccupato per lui. Anche se tu non hai fatto niente, Will... è così.»

Non riesco a rispondergli in questo momento, vorrei solo assicurarmi di non essere stata la causa che ha fatto scattare il suo malessere.

«E se tu non lo sapevi, io ne ero perfettamente al corrente.»

James riserva parole dure per sè stesso, mentre boccheggia gli ultimi soffi di fumo.

«No. Will ha bevuto troppo, non avrebbe dovuto. Nella sua condizione non dovrebbe toccare alcol, nè dovrebbe fumare. Per quanto mi dispiaccia, è stato un irresponsabile. Tu non c'entri niente.»

James scrolla il capo, come per cancellare le mie parole dalla sua testa.

«Non capisci, cazzo.»

Butta la sigaretta a terra con foga, prima di schiacciarla con la punta della scarpa.

«No invece ti capisco benissimo, perché anch'io mi sento così. Anche se so che è sbagliato, non faccio che pensare che se magari fossi rimasta lì con lui...»

«No.» lo sento dire a quel punto.

James allunga il braccio nella mia direzione per sfiorare con le dita la maglietta che mi circonda i fianchi.

«Non è colpa tua. Smettila.»

Mi cinge la vita con una mano, attirandomi a sè.

Una nuvola di fumo e profumo muschiato mi avvolge nel buio.

«Forse sono stata superficiale nel trattarlo con distacco, non avevo capito la...»

«Smettila ti ho detto. Non hai fatto niente di male.»

Quando sono esattamente davanti a lui, James abbandona immediatamente il mio fianco ed immerge entrambe le mani nelle tasche della sua felpa.

Si lecca labbro involontariamente. Sento le braccia gelide ma il calore del suo corpo vicino al mio è in grado di rassicurarmi.

«Quando Will ha gli sbalzi d'umore e si accorge di quanto siano state estreme le sue scelte o i suoi pensieri... finisce per pentirsene. E ne soffre. Non avrei  dovuto dargli retta con quella storia del cazzo...»

Non credo di aver mai sentito così tante parole uscire dalla sua bocca.
Mi sta davvero parlando.

«James...»

«Eh.»

Tengo le mani strette al mio stomaco, quando mi avvicino un po' di più a lui.

«Va tutto bene.» asserisco cercando i suoi occhi che si fanno vacui quando incontrano i miei.

«Non lo so...»

«Non è una domanda. Va tutto bene.» provo a rassicurarlo.

«Mi rubi le battute scadenti, ragazzina?»

Le ciglia chiare incorniciano quel blu profondo. Ci stavo scomoda lì dentro, all'inizio. Ma ora sento di aver trovato un posto tutto mio.

Se solitamente è lui a fare la prima possa per avvicinarsi fisicamente a me, con le parole sono sempre io a forzare la mano, ad avvicinarmi un po' di più. E tutte le volte che se lo lascia fare, mi accorgo di quanto ne valga veramente la pena.

Arrivo sotto al suo mento, quando James inclina la fronte verso il basso, per farla combaciare con la mia.
Perdo un battito quando lo vedo chiudere gli occhi.
Io invece rimango immobile, con le membra rigide, anche se in realtà l'unica cosa che vorrei fare è immergere le mani nella sua felpa calda e morbida.

Ma non ne ho il coraggio.
Mi chiedo cosa mi sia preso da Connel, lì il coraggio non mi era mancato.
Chissà perché a volte mi comporto così... forse perché quando gli sto così vicina smetto completamente di ragionare.

Le sue labbra sono ad un soffio dal mio viso. Vengo pervasa da un brivido.

Sì ma non è il momento di pensarci ora.

«Ti fa ancora male?»
sussurro indicandogli il fianco.

Il suo sguardo scende fulmineo sulla mia bocca per un secondo, poi torna a guardarmi negli occhi.

«Stai congelando, Biancaneve. Torniamo giù, vediamo che dice quel fottuto dottore.»



Quando rientriamo nella struttura, troviamo la mamma di William nel corridoio insieme a Jackson.

«Hanno detto che Will sta bene, è stata una reazione ai farmaci. Se domani rimane stabile, lo dimetteranno in mattinata.» spiega Jackson venendoci incontro.

Tutta la tensione che scorre sotto ai miei nervi si scioglie all'improvviso, mentre James di fianco a me è ancora un cumulo di muscoli tesi.

Jackson cerca con la mano la guancia di James per dargli uno sbuffo affettuoso, come per calmarlo.
«Sta tranquillo.»

Poi mi lancia un'occhiata rapida dall'alto al basso, infine torna sull'amico.

«Ora dobbiamo andare. Torniamo a casa.»

James però non gli dà minimamente retta e si allontana.

«James! Hanno detto che Will sta meglio.» insisto io.

«Io resto qui, voi tornate.» lo sentiamo dire prima di svaccarsi nuovamente sulla sedia.

«Resto anche io.» esclamo senza pensarci due volte.

Jackson sbuffa.
«Come volete. Io ora vado, vengo domani mattina a vedere se sua madre ha bisogno di qualcosa.»

Salutiamo Jackson, mentre la signora Cooper viene scortata dal dottore dentro alla stanza del figlio. È tardi, l'orario delle visite è terminato, perciò noi restiamo nella sala d'attesa.
James si regge testa con la mano, sembra particolarmente stanco, io invece controllo il cellulare per vedere se mia madre ha scritto.

«Dovete andare, non potete stare qui.» ci informa la mamma di Will quando torna fuori per fare un'altra telefonata.

Davanti alla nostra resistenza però, si decide a spiegarsi meglio.

«William sta bene, gli ho appena parlato. Uscirà domani, andate.»

«Io resto qui.» bofonchia James, incurante della parole della donna.

«No. Tu vai a casa, dormi, ti riposi e domani sera sei da noi.»

Sembra un ordine quello della mamma di William. Il suo atteggiamento così dispotico verso James mi lascia confusa.

«Avanti, andate.»

«Ma non ce lo fanno neanche vedere?» si lamenta lui.

«No. Lo vedi domani.»

«Ma che cazzo di clinica di merda è questa? Voglio parlare con qualcuno.»

James si alza in piedi con uno scatto, è il doppio della madre di Will che però lo rimette al suo posto con un'occhiataccia.

«James, per cortesia. Non fare le tue solite scenate. Will avrà bisogno di te domani. Ho un viaggio di lavoro che non posso più rimandare.»

Ah ecco

Lui si trascina i capelli all'indietro con la mano, poi mi rivolge una smorfia infastidita.

«Andiamo.» aggiunge senza neanche salutarla.

«Quella donna lo sa?»

«Cosa?»

Lo vedo accendere l'ennesima sigaretta.

«Che hai una tua famiglia, James. Che non puoi stare sempre dietro a Will.» spiego con fermezza, quando siamo già in strada.

«Che cazzo stai dicendo?»

Lui sbuffa, mentre io mi scaldo le braccia scoperte sfregandovi sopra le mani.

«Hai capito benissimo. Parlo di tuo fratello.»

«Sta zitta.» mi fredda senza neanche riflettere.

Con una mano tiene la sigaretta con l'altra prende a toccarsi il collo, il suo sguardo all'improvviso cambia, si fa più arrendevole. «Lo so.» bisbiglia infine, con voce amara.

«Se lo sai, allora non hai più scuse.» taglio corto cominciando a camminare lungo il marciapiede.

«Dove vai?» chiede inarcando un sopracciglio.

«Chiamo mia madre.»

James fa un tiro, poi un altro ancora, rapidamente, infine si libera della sigaretta e mi rivolge un cenno.

«Muoviti, ti accompagno io.»


É inutile negarlo, mi sento strana. Non so in che misura io abbia causato del male a Will e forse è proprio questo che mi rende così irrequieta. Ho quasi il rifiuto al pensiero di tornare a casa. Mi faccio piccola nel sedile del passeggero, non fiato per tutta la durata del tragitto.

«Che serata del cazzo.» commenta James abbassando il finestrino.

«Per favore, fa freddo. Resisti dieci minuti senza fumare, grazie.» lo rimprovero sottovoce.

Lui si volta a fulminarmi con lo sguardo, poi però fa risalire il finestrino e torniamo a stare in silenzio fino a quando non giungiamo davanti a casa mia.

Sono troppo scossa per pensare a come mia madre che si accorgerà della macchina di James e mi sgriderà in otto lingue diverse.

«Che hai?» chiede lui con aria corrucciata, prima che io posi la mano sulla maniglia.

Di certo non mi aspettavo la sua domanda. Non so perché lo faccio, ma chino la testa timidamente, lasciando che le ciocche mi scivolino a fiotti sulle guance, per nascondermi il viso.

«Cosa c'è?» lo sento insistere con voce più profonda e decisa, questa volta.

Vengo risvegliata da un sussulto quando le sue dita si intrecciano ai miei capelli sottili, per infilzarmeli dietro all'orecchio.
Con il pollice mi sfiora lo zigomo.
Il gesto è così delicato da darmi i brividi. Così piacevole da indurmi a chiudere gli occhi per godermi quel contatto così soffice.

Poi però la mano si allontana formando un pugno, come si fosse appena pentito di ciò che ha fatto.
Lo sento schiarirsi la voce.

«È meglio se...»

Sì è meglio se me ne vado mi dico guardandolo massaggiarsi il fianco.

«James se ti fa male...»

Lui si irrigidisce e pianta gli quelle iridi fredde avanti a sé.

«Per favore, June.»

«Sicuro che non ti...»

«Esci da qui.»

Non me lo faccio ripetere ancora, apro la portiera e mi lancio fuori, ma prima di richiuderla, gli rivolgo un'ultima occhiata.
Lo vedo tirare fuori il cellulare per digitare qualcosa.

«Torna a casa, hai bisogno di farti una bella dormita. Sei distrutto.»

James annuisce sì, ma non ha l'aria di uno che mi darà ascolto.

«E puoi chiamarmi se vuoi.»

Lui in tutta risposta corruga la fronte, osservandomi di traverso.
«Perché?»

«Beh... Vorrei sapere che sei a casa. E al sicuro.»

Solleva un angolo della bocca, curvando le labbra in un sorriso debole.

E ovviamente James non mi ha mai chiamata quella notte.

JAMES POV

Quando arrivo al club uno degli scagnozzi di Austin mi aspetta sul retro per consegnarmi i miei soldi.
E sarebbe anche una bella somma se la vendessi tutta, invece che far sparire metà della roba tra le ragazze e me stesso.
Intasco la grossa busta piena di contanti, poi entro.
Non sono propriamente dell'umore per divertirmi, ma forse è questo il senso. Alcune ragazze ridacchiano quando mi vedono passare, sono in tuta e non ho l'aria di uno che sia lì per festeggiare. Eppure mi basta ricambiare qualche occhiata che queste sembrano smettere immediatamente di far caso al mio abbigliamento, ma iniziano a bramare quello che c'è sotto ai miei vestiti.
Io però non sono dell'umore per scopare.

La visione del viso cianotico di William mi perseguita, non riesco a levarmelo dalla testa. Ne ho viste tante di cose spaventose, ma ogni volta che la paura prende il sopravvento, è come la prima volta. Sarei dovuto restare lì con lui e non andare dietro a quella ragazzina. Il mio istinto protettivo nei confronti di William mi suggeriva di non farla avvicinare troppo a lui, ma alla fine io ho fatto lo stesso errore.

La voce di Jess, una delle ragazze del locale, mi richiama.

«Edward.»

La fulmino con lo sguardo, spazzando via quella sensazione opprimente al petto.

«Volevo dire... Jamie.»

Lei poi fa esattamente ciò che fa con tutti: mi porta le mani al collo come per ammansirmi, poi rende più esplicite le sue intenzioni quando le muove sul bordo della mia felpa sollevandomela appena sull'addome, in cerca di pelle scoperta.
Io non sono un santo e di sicuro non mi nascondo dietro a falsi moralismi, il perbenismo non fa per me e non mi tiro indietro davanti a nulla, ma... ho le mie regole.

«Che vuoi fare?» domando conoscendo
già la risposta.

«Quello che vuoi.»

Le sue mani mi offendono, anche perché le sue attenzioni sono tutto fuorché disinteressate.

«Non pago per scopare. Lo sai.»

«E che vuoi allora?» domanda Jess, quasi sollevata.

«Ho avuto una serata di merda.»esordisco nella speranza di mettere a tacere il mio cervello il prima possibile.

«Andiamo.» mi invita facendomi strada nel locale affollato.

«Perché fai ancora questo lavoro di merda?» le chiedo senza troppi complimenti.

«Lo sai perché. Mia madre fa l'infermiera nella vostra scuola da stronzi e la sottopagano. Per lei mantenere da sola tre figli, non è affatto facile.»

Arriviamo nella sala privata dove solitamente le ragazze intrattengono i clienti con i loro spettacoli. Mi siedo abbandonandomi completamente sullo schienale del divano, mentre lei si appoggia con le spalle al palo metallico.

«Quel coglione di tuo padre non può mandarvi dei soldi, com'è giusto che sia?»

Jess si risistema il vestitino sulle cosce, lo abbassa leggermente all'altezza del seno esibendo le sue forme, poi torna a parlare come se niente fosse.

«A dirla tutta siamo già felici che se ne sia andato e abbia smesso di picchiare mia madre. Non so perché, di punto in bianco, un giorno è sparito.» esclama poi sollevando gli occhi a lato, come per pensarci su.

Già. Lo so io perché.
Mi hanno sempre insegnato che alcune cose sono categoricamente sbagliate.
Rubare, fare del male al prossimo, mentire, ingannare, la lista è lunga.
Eppure è stato proprio grazie a tutte queste cose che ho salvato il culo alla sua famiglia. Minacciare un vecchio alcolizzato non ha nulla di eroico, anzi, ma in questo caso il fine ha giustificato i mezzi, dato che è servito a far sì che quell'uomo la lasciasse in pace.

«Perché non ti porti più gli occhiali, Jessica?» domando disinfettando il cellulare con una salvietta.

«Non vogliono che metto gli occhiali quando lavoro.»

«Sei carina però quando li hai.»

La vedo sgranare gli occhi neri.

«Cazzo James! Mia madre ha buttato tanti di quei soldi per la terapia, ci ho messo tre anni a dimenticarti! Per favore non fare così ora.»

«Okay, scusa. Vuoi?»

Le indico lo schermo del mio cellulare da cui ho appena fatto sparire della polvere. Lei fa cenno di no con la testa.

«Vuoi scopare?» domando poi.

Perché si sa, la coerenza è sopravvalutata.

«No tu?» domanda confusa.

Scrollo il capo.

«No. Non sono qui per questo. Tieni.»

Estraggo dalla tasca la busta stracolma di banconote da cinquecento dollari che mi hanno lasciato poco fa.

«Hai detto che non paghi le ragazze!»

«Ti bastano per la retta universitaria?»

Lei comincia a sbattere le palpebre con aria smarrita.

«Quanti sono James?»

«Non lo so.»

La storia di William non ha fatto altro che ricordarmi dei miei brutti momenti e di quanto io mi senta in debito con le persone che mi hanno aiutato.

«Oddio sono troppi. Non posso accettarlo. Non dopo quello che hai fatto per la mamma.» mormora lei con voce indecisa.

«L'ho solo aiutata ad ottenere il lavoro che voleva e dovresti farlo anche tu. Trova un lavoro che renda felice tua madre.»

E sì, lei è uguale a tutte le altre.
Non lo sopportano quando mi comporto così, perché poi non riescono ad odiarmi come vorrebbero, quando le scarico senza chiamarle mai più.

«Okay, i soldi li prendo e ti ringrazio, però... è meglio se te ne vai.»

Le faccio ancora uno strano effetto dopo anni, non lo so il perché.
Ma in qualche modo mi sento un po' meglio dopo averla aiutata.
Sua madre mi ha salvato la vita, non credo ci sia somma di denaro che possa ripagarla per quello che ha fatto.

Jess mi da un bacio a stampo sulle labbra, resta fissarmi per qualche istante, infine mi caccia.

«Dio, vattene.» dice come se fosse combattuta sul saltarmi addosso o meno.

Ma ripensandoci... amarle tutte allo stesso modo, è come non amarne nessuna.

Esco dal prive' nel quale lavorano le ragazze e mi addentro nel locale.
C'è tanta gente, ma man mano che mi avvicino al retro, la calca si dirada.
In lontananza sento una voce famigliare, la riconosco subito, appartiene ad J.J. Austin in persona, l'uomo a capo di tutta questa baracca.
È un po' che non vedo i suoi figli, ma questa sera c'è lui.
Il primo marito di mia madre.

Lei ci ha fatto due figli con lui, poi una sera è uscita, ha conosciuto Jordan e ha tradito quell'uomo senza alcuna remora.
E il frutto di quel tradimento eccolo qua, se ne va a spasso per il suo locale come se nulla fosse. Non c'è neanche da chiederselo, il perché questa gente mi odia.

Ho la nausea a guardarlo in faccia.
Se penso che Jordan è stato il migliore dei suoi mariti... è tutto dire

Tiro su la felpa sul viso, non voglio mi veda. O forse sì?

«Te ne vai in giro come un ladro?»

Fermo la mia camminata all'istante.

«Nel mio locale?»

Mi guardo intorno, poi mi avvicino alla sua faccia già tinta dall'alcool.

«Possiamo parlare?»

«Ah, vuoi parlare adesso.»

«Sì, senza quei due coglioni.»

Annuisce senza replicare, forse perché anche lui condivide il mio pensiero riguardante i suoi figli. Mi conduce nel suo piccolo ufficio, dove il mio sguardo cade dritto sulle foto di Tom e Ethan Austin da bambini, esibite sulla scrivania. Stringo i pugni. Se penso che hanno seguito la ragazzina fino a casa...

«Tua madre come sta?»

L'uomo mi trascina via dai miei pensieri mentre mi accascio sulla sedia che scricchiola sotto al mio peso. Questi sono pieni di soldi, eppure questo posto resta fatiscente.

«Dimmelo tu.» sostengo il suo sguardo.

«Non la vedo da più di un anno.» bofonchia cominciando ad armeggiare con il lucchetto di un vecchio armadio metallico.

«Le hai detto che sei stato in riformatorio?»

Sollevo gli occhi al soffitto, lui intanto si munisce di taglierino per aprire delle grosse buste contenenti quantitativi esorbitanti di droga.

«Non fare quella faccia. E ricordatelo, ogni volta che mi stai davanti.»

«Cosa?»

«Che se sei qui è grazie a me. Me la fossi scopata io tua madre quella notte, a quest'ora non ci saresti.»

Deglutisco il groppone, ma lo schifo che mi lasciano addosso le sue parole, purtroppo, non riesco a scacciarlo via.

«Ma eri troppo impegnato con i tuoi affari.»

«I miei affari ti hanno mantenuto in vita finora, se fosse stato per Hunter, a quest'ora staresti sotto un ponte insieme a quel ritardato di tuo fratello.»

Non ci penso su, scatto in piedi strappandogli la lama dalle mani per puntargliela alla gola.
L'uomo indietreggia verso la parete scrostata, mentre lo presso sempre di più. Mi basterebbe piantare la punta metallica nella carne, per vedere la sua pelle zampillare di rosso. Digrigno i denti, lui intanto resta teso con le mani in alto. I secondi trascorrono e il mio non agire lo porta ad una conclusione sola.

Sogghigna. «La volta buona in cui sarai in grado di farlo, avrò paura. Ma fino ad allora.. sei zero per me.»

La voglia di ammazzarlo ce l'ho sempre avuta, non è nulla di nuovo. Solo che... Non sono qui per questo oggi, devo darmi una calmata.

«Devo parlarti.» sillabo prima di lanciare la lama sulla scrivania.

Deglutisco, poi torno a sedermi.
Lui mi guarda con aria di disprezzo.
Pensa di avermi in pugno.

«Che c'è, vuoi chiedermi di saldare il debito? Di smettere di vendere?»

Si risistema la giacca, neanche fosse un vero uomo d'affari. Indossa dei vestiti all'apparenza eleganti ma di bassa fattura, indice di mancanza di buon gusto.

«Vuoi chiedermi di pagarle l'affitto?» continua poi ad istigarmi.

«O di trovarti un lavoro? Sei quasi maggiorenne, Edward.»

Lo guardo in cagnesco.

«Che ho detto di male? Qui c'è del lavoro anche per te, se vuoi. Lo sai.»

Non rispondo alle provocazioni, perché è quello che sta facendo. Sta provando a provocarmi.

«Cosa vuoi in cambio della pistola?»

La mia richiesta lo sorprende. Solleva entrambi i sopraccigli ramati, prima di cominciare ad assumere un'aria pensierosa.

«Abbiamo già fatto affari una volta e non è andata bene...»

«Li hai fatti con lui.» ringhio tra i denti serrati.

«Ma lui ora non c'è più.»

Pronuncia quella frase poi innalza gli occhi chiari piantandoli nei miei. Sta aspettando una reazione da parte mia.

«Questo non lo so, dovresti dirmelo tu.»

«Perché rivuoi la pistola? È al sicuro con me.» devia il discorso, ricordandomi il motivo per cui sono qui.

«Non è mia. Ho bisogno di restituirla.» spiego fissandolo negli occhi.

Lui si siede e torna ad appropriarsi del taglierino.

«Sai...Ho sempre pensavo fossi tagliato per questa vita.»

Conficca la lama nella busta aprendola lentamente.

«Ma forse mi sbagliavo. Vuoi uccidere qualcuno ma non hai né la pistola, né le palle per farlo. E cosa fai? Ne rubi una e convinci gli altri a farlo.»

La botta che ho preso contro lo spigolo da Connell mi fa un male fottuto.

«Non è proprio andata così.» mi lamento.

«Che sia stato il tuo amico a chiamarci o meno, non cambia... il lavoro sporco non l'hai fatto tu. Sei pulito. Eppure non ci dormi la notte. Strano, eh?»

Lo guardo manovrare quella polvere scura davanti ai miei occhi. Mi odia sì, ma si fida ciecamente di me. Mi basterebbe una chiamata per avere la polizia qui dentro, ma tanto lui sa che non lo farei mai. E se lui si fida di me, io non mi fido di lui.

«L'avete fatto fuori o no?» chiedo impaziente.

«Di chi è la pistola?»

«Non posso dirtelo.»

«E io non posso dartela.» mi rifila una risposta ovvia, i connotati del suo viso si deformano in una smorfia arcigna.

«E se ti dicessi di chi è...»

«Tu dimmelo. Poi ci penso io a sistemare le cose.» ribatte rapido.
Non vedeva l'ora di arrivare a questo punto.

«Voglio prima assicurarmi che tu non gli faccia niente.» specifico io.

«Siamo in troppi a sapere di questa storia.»

Mi si raggela il sangue.

Per quanto odi il padre di Taylor, non farei mai una cosa del genere. Non metterei mai a repentaglio la sicurezza della sua famiglia o di Taylor.
Purtroppo so cosa potrebbe arrivare a fare quest'uomo, pur di salvarsi il culo.
Per denaro ha fatto le cose peggiori, e mi ha fatto fare le cose peggiori. Sennò non sarei neanche qui. E lui non sarebbe il boss arricchito che è, grazie a droga, prostituzione e lotte clandestine.

«Me lo dirai quando te la sentirai. Ora festeggiamo.»

Rompe un'altra busta con un coltellino poi mi guarda.

«Verranno dei miei amici questa sera.»

«Che amici?» mi irrigidisco.

Non mi piacciono i suoi amici.
Conosce gente importante disposta a pagare per qualsiasi cosa.

«Sta tranquillo..» sogghigna.
«Assaggia, scegli.»

Vorrei odiarlo, perché è il mio odio che si merita. Per come ha tradito e abbandonato mia madre, per come mi trattato in tutti questi anni... ma come faccio? Mi tiene in pugno. Prima i farmaci, ora la droga. Non posso odiarlo. Sarebbe come odiare qualcuno che ti butta giù a fondo, ma poi ti tende una mano per farti risalire a galla.
Non puoi rifiutare quell'aiuto.
Hai un disperato bisogno di uscire da lì.
E io ho bisogno di evadere dalla mia mente e non pensare.

Mi sento ancora stordito per la serata trascorsa, con lo stomaco sottosopra.
Se fossi stato con Will, non sarebbe successo quello che è accaduto.

Per cosa poi? Per stare tutta la sera dietro a quella fottuta ragazzina.
Con qualsiasi altra sarebbe bastata una scopata di mezz'ora e sarei tornato da
Will, ma lei si sta prendendo troppo.
Troppo tempo. Troppo spazio.

«Puoi prenderne quanta ne vuoi.»

Lo guardo diffidente.

«Ti ho sempre trattato come un figlio, no?»

Mi si apre voragine sotto i piedi e io ho l'intenzione di cascarci con tutto me stesso.

🍓

Apro gli occhi.
Ho trascorso la nottata su un divano duro e poco confortevole.
Ho la schiena a pezzi e probabilmente ho riposato un paio d'ore, non lo so.
Quello che so è che sono ancora al locale e ho due ragazze addosso. Mi divincolo a fatica dalle loro gambe attorcigliate alle mie.
Non lavorano qui, non credo di averle mai viste.
Una dorme con la faccia piantata sul mio torace nudo, le ciocche femminili mi stanno appicciate sul petto e il rossetto sbavato sulla mia pelle.

L'altra mi è ancora avvinghiata al braccio, mentre le sue cosce mi avvolgono il fianco, sento le sue parti intime completamente esposte addosso a me.
Non mi ricordo le loro facce, così cerco con gli occhi dei dettagli sui loro corpi. Degli indizi che mi aiutino a ricordare cos'è accaduto ieri notte.
Una ha un tatuaggio sul seno, l'altra ha un piercing... ah.
Forse ricordo qualcosa.
O forse no. Meglio così.

Mi strofino gli occhi. Poi scendo con lo sguardo al mio corpo.
Indosso i boxer, nient'altro.
Cerco i miei vestiti sparsi per la saletta, intanto afferro il mio telefono abbandonato su un tavolino.
Dio, ho davvero bisogno di una doccia.
Sono un miscuglio di profumi sconosciuti, questi mi si tatuano addosso fino a quando non li lavo via. E li odio.
Lì per lì ne godo, desidero mescolarmi con le persone fisicamente, con la pelle e con il corpo, nella speranza di non sentire più niente. Forse perché è il modo migliore per cancellare me stesso, mentre la mente è completamente spenta.
Mi immergo nel fango, fino a non vedere più la luce in superficie, con l'unico intento di toccare il fondo, affinché il giorno dopo vi sia la risalita, un nuovo inizio. 
Ma questo non succede mai.
È solo un fottuto inganno.

Ho un messaggio sul cellulare.
Non me n'ero neanche accorto.

dimmi solo che stai bene

Con il pollice sfioro lo schermo, come a volerlo accarezzare.
È di ieri sera.
Non le ho risposto.
Forse è stato meglio così.
Le avrei solo detto una bugia.

«Ma che ore sono?»
chiedo a Jax quando rispondo alla sua chiamata.

«Will è uscito dall'ospedale, è già a casa.»

«Merda. Sono già le tre e mezza?»bofonchio continuando a cercare i miei vestiti in quella saletta fredda e sporca di vizio.

«Sta bene quindi?»

«Sì James, ma tu dove cazzo sei? Hai saltato scuola.»

«Passo da casa e....Vado a casa, mi faccio una doccia e...»

Mi strofino la fronte, poi i capelli arruffati. Ma quando mi tasto il fianco, mi rendo conto sanguinare ancora un po'.

«Cazzo.»

«Abbiamo allenamento tra mezz'ora James, quello non lo puoi saltare. La partita di domenica è importante, lo sai che...»

«Sì sì...»

Così chiudo la telefonata con Jackson, mi vesto e torno a casa.
Sotto alla doccia mi accorgo che la ferita è ancora pulsante.
E inevitabilmente ci ripenso.
Ancora non riesco a capire cosa ci ricava quella ragazzina a fingere di preoccuparsi per me.


«Sei in ritardo.»

Il coach mi accoglie negli spogliatoi con la faccia incazzata e una bella dose di acidità.

«Lo so.» ribatto lanciando il borsone sulla panca.

«Lo so? Che cazzo sai?»

Se c'è uno che ci gode a trattarci di merda, quello è proprio lui, l'allenatore di football.

«Mi dispiace, va bene?»

In realtà non mi dispiace di aver fatto ritardo, anzi, non me ne frega un cazzo, ma lo conosco... solo se me ne sto buono, la smette di assillarmi.

«Dove diavolo eri?»

«Ho ritardato dieci minuti non mi sembra il caso di farne un dramma...»

«Ieri hai saltato l'allenamento. Mi stai ascoltando?»

«Sì coach.»

«Che cazzo ti è successo?»

Mi guardo intorno, siamo in pochi. La maggior parte dei ragazzi è già sul campo.

«Non stavo bene.»

«Non stavo bene...?!» mi prende in giro arcuando la voce. «Smettila di pensare solo a drogarti e scopare!»

Brian Hood sogghigna dall'altra parte dello spogliatoio.

«Che cazzo hai da ridere tu?» lo aggredisco con voce furente.

«Fa bene a ridere. Hood torna ad essere capitano, ho bisogno di una persona con la testa sulle spalle. Tu sei inaffidabile.»

Il coach si risistema il suo stupido cappellino dopo aver detto quella cazzata. Incrocia le braccia al petto e mi guarda dal basso.

«E tutto questo perché ho saltato un allenamento?»

«Già. La partita di domenica è importante.»

Ma mandare tutto a puttane è la mia specialità e lui lo sa fin troppo bene.

Mi sfilo la t-shirt, poi i pantaloni. Vorrei cambiarmi in pace ma lo stronzo ha deciso di assillarmi fino allo sfinimento oggi.

«Hunter ti voglio al massimo, ci sarà la stampa e se perdiamo, giuro che se mi fai fare una figura di merda, te la faccio ricordare a vita.»

Non controbatto, ma lo ignoro proseguendo a cambiarmi.

«Sai perché mi fai incazzare?»

«Devo seriamente rispondere?»

«Perché hai talento e avresti un futuro, se non fosse per quel cervello fottuto che ti ritrovi!»

Sbuffo.

«Perciò no cazzate prima delle partite.»

Ruoto gli occhi infastidito, mentre lui non molla la presa.

«Hai capito?»

«Sì.»

«Stai dormendo la notte?»

«Sì.»

Mi punta un dito contro.

«Sì il cazzo. Perché mi racconti palle? Guarda che occhi hai. Torna in carreggiata o ti faccio fuori dalla squadra.»

Trattengo il fiato.

«E nessun college ti vorrà. Sopratutto dopo il riformatorio, ricordatelo.»

Lo vedo curiosare all'interno del mio borsone senza permesso.

«E questa non fa parte della tua dieta.»

Tira fuori una busta di carta contenente  una ciambella che ho preso passando dal bar.
La butta nel cestino dei rifiuti sotto ai miei occhi affamati.

«Ma non ho fatto colazione.»

«Vai a sputare sangue facendo cinquanta minuti di riscaldamento, è quella la tua colazione.»

Okay su questo ha ragione, devo sforzarmi di più.

«Non ci sarà futuro. Né per te, né per quei falliti dei tuoi amici, hai capito?»

«Sì.»

«I ragazzi sono già i campo, vestiti e datti una cazzo di mossa.»

Il coach se ne va dopo avermi procurato un mal di testa insopportabile.
Vedo Brian Hood gongolare contro gli armadietti. Lo incenerisco con un'occhiata dura.

«Non ridi mai, che cazzo hai da ridere adesso?»

«Sembri resuscitato dal mondo dei morti.» dice lui.

«Bella battuta del cazzo, se fatta da te.» lo rimbecco.

«Nottataccia?»

Il suo interessamento mi fa venire voglia di spaccargli la faccia.

«Vattene a fanculo.»

Brian Hood può fottersi, ho altro a cui pensare ora.
Ho dormito due ore, come lo affronto un allenamento senza mangiare un cazzo?
Fortuna che ho sempre qualcosa con me. Mi calo giù due pillole poi ingollo un po' d'acqua dalla bottiglietta.

«Non hai sentito cosa ti ha detto? No sesso e no droghe prima delle partite impegnato, ma tu devi rovinarti la vita per forza, vero?»

«Questa stupida regola del cazzo non l'ho mai rispettata, eppure gioco meglio di te. Come la vogliamo mettere Hood?»

Lui scrolla il capo.

«E fatti i cazzi i tuoi.» aggiungo guardandolo di sottecchi.

«Senti perché non la finisci? A differenza tua, mi interessa vincere domenica. Già che non puoi fare a meno di bruciarti il cervello, almeno tienilo nei pantaloni se riesci.» lo sento dire con il suo tono di superiorità.

«Mai fatto. Ma sai, mi era difficile dato la tua ragazza non riusciva a resistere due giorni senza fottermi.»

Lo smeraldo incastonato nelle sue iridi s'infiamma, Brian compie uno scatto nella mia direzione, ma due ragazzi accorrono per trattenerlo prima che mi si butti addosso.

«Non a scuola.» lo ammonisco.

«E dove?» chiede lui ancora accaldato per lo scatto rabbioso.

«Fuori.»


Dopo l'allenamento sono distrutto. Mi sento svenire e ho dei giramenti di testa notevoli. Esco fuori nel parcheggio per andare a recuperare l'auto, il pomeriggio è particolarmente cupo, saranno le quattro di pomeriggio ma sembra che stia già per calare la sera. Tiro su il cappuccio della felpa e raggiungo la macchina.
Una sagoma però mi sorprende alle spalle.

«Sei inquietate cazzo.» sputo prima che Brian mi spinga contro la carrozzeria.

L'avevo previsto qualche secondo prima che atterrasse sul mio viso, il pugno, eppure gliel'ho lasciato fare.

«Lo sapevi!» lo sento stridere con voce rotta.

Gli concedo un colpo solo, poi passo a difendermi come posso, di certo non devo contrattaccare.
Alzo un dito a scuola e mi mettono di nuovo dentro. E il parcheggio della scuola purtroppo, non è esente da questa regola.

«Sapevi che l'amavo.» prosegue lui, rimbalzando all'indietro quando lo spintono via.

Lo guardo passarsi le mani tra capelli scuri, i bicipiti tatuati si contraggono durante quel gesto.
Il colpo che mi ha appena sferrato brucia intensamente, avrò un occhio livido a breve, ma quello che se la passa male per davvero è lui.
Che merda l'amore.

Scivolo a terra con le spalle alla macchina, lui resta in piedi a guardarmi con il fiato corto e gli occhi stretti a due fessure.

«Senti te la sei levata di torno, alla fine ti ho fatto un favore, no?»

«Sei un bastardo. Non te n'è mai fregato un cazzo di Ari.» mi urla addosso.

«E quindi?»

«E quindi dovevi scopartela per forza?»

«É a lei che non è mai fregato un cazzo di te, svegliati.»

Lo vedo mettersi le mani sui fianchi, poi china la testa.

«Dimmi solo una cosa.»

Annuisco svogliatamente, invitandolo a proseguire.

«Che cosa sa June?»

Corrugo la fronte, ma non sono affatto sorpreso da quella domanda.

«Niente.»

Mi tende una mano.
La fisso diffidente per qualche secondo, poi decido di accettare il suo aiuto a rialzarmi.

«Le dirai qualcosa?» chiede quando sono in piedi di fronte a lui.

«No.»




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ve lo aspettavate? 👀

ricordatevi di stellinare ♥️

ci vediamo nel prossimo capitolo

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