3. Convivenza forzata

Le pareti dell'ufficio della preside Martinez erano di un acceso giallo canarino.

Harry non sapeva perché, ma non riusciva a smettere di fissare quel muro dal colore tanto improbabile.

Era seduto da almeno dieci minuti su una scomoda poltrona. Alla sua sinistra troneggiava un grande schedario – probabilmente conteneva i fascicoli degli studenti. Sopra il mobile c'erano una miniatura della bandiera americana e dei raccoglitori.

Di fronte a lui c'era un'ampia scrivania in legno lucido, su cui sostavano un portatile dall'aria costosa, portaritratti con fotografie personali della preside e documenti accatastati alla rinfusa su delle pile. Gli angoli di alcuni fogli sfarfallavano a causa del venticello che entrava dalla finestra socchiusa.

Harry rabbrividì.

Il suo piede tamburellava nervosamente sul pavimento facendo saltellare il ginocchio. Si strofinò la mano lesa, che ormai mandava scariche di dolore a un'intermittenza fastidiosa. Una morsa di panico gli serrava lo stomaco. Gocce fredde gli imperlavano la fronte.

Cosa ho fatto?

Aveva la sensazione che la sua futura lettera di ammissione alla Columbia avesse preso fuoco.

Cosa avrebbe pensato sua mamma? Oddio, si sarebbe comportata come una drama queen per settimane. Quel pensiero era peggio dell'espulsione.

No.

Peggio dell'espulsione non c'era nulla. Gli sembrava di sentire la voce di Hermione Granger nelle orecchie.

Tamburellò il piede più velocemente, quasi volesse consumare la suola delle sneakers.

Suo padre, invece, cosa avrebbe pensato? Stava sborsando una fortuna per assicurargli l'istruzione migliore...

E lui aveva rovinato tutto. Lo avrebbe deluso. Proprio lui, Harry Thompson, che non deludeva mai nessuno, grazie alla sua media perfetta e ai premi vinti ai concorsi di scrittura.

Probabilmente aveva mandato a rotoli il suo futuro soltanto per prendere a pugni quello stronzo.

Cercò di ignorare la figura scomoda seduta sulla poltrona accanto alla propria, ma era difficile, perché calamitava tutta la sua attenzione.

«Dove hai imparato a tirare pugni, Thompson?»

Harry serrò le dita della mano infortunata. La pelle tirò sulle nocche arrossate e gonfie, mandandogli un lampo di dolore. Lo aiutò a mantenere attivo l'unico neurone provvisto di raziocinio.

«Hai un bel gancio. Non pensavo, sembri gracile» continuò Ren Yoshikawa, come se non si trovassero nell'ufficio della preside perché si erano azzuffati nella mensa scolastica.

La maledetta voce del ragazzo frantumò i suoi tentativi di restare lucido. Harry artigliò il bracciolo e si girò di scatto verso Ren.

Il ragazzo era seduto mollemente sulla poltrona, con la caviglia destra poggiata sul ginocchio sinistro. Faceva ondeggiare in modo pigro il piede, mentre con il dorso della mano si toccava la bocca ferita. Il sole pallido di ottobre si posava sul suo volto, ammorbidendone i tratti già delicati. Si leccò con la lingua il taglio sul labbro. Non lo guardava, i suoi occhi erano puntati davanti a sé, forse persi a contemplare le nuvole riflesse sul vetro.

Harry ripensò a quanto fosse stato soddisfacente spaccargli la faccia, a quanto lo avesse fatto sentire bene.

Quel bisogno ruggì di nuovo dentro di lui. Gli mandava in tilt il cervello che Yoshikawa fosse così calmo, in pace con il mondo, mentre lui bolliva come l'acqua di una pentola a pressione.

Erano in quella situazione per colpa sua, forse sarebbero stati sospesi o espulsi per colpa sua. E quel maledetto sembrava in villeggiatura.

«Se non la smetti di rivolgermi la parola» sibilò Harry «ti spacco le ossa. Una per una.»

Ren ridacchiò, una sottile ruga di espressione si disegnò sulla guancia. Gli lanciò un'occhiata penetrante da sotto le ciglia.

«Lo sapevo» osservò criptico, come se avesse risolto un problema di trigonometria.

Harry si accigliò. «Cosa?»

Yoshikawa fece spallucce. «Non è importante, nullità

Harry sentì la collera pizzicargli l'epidermide. Non ce la faceva più a zittire l'istinto, non dopo aver pregustato la libertà. Pertanto, si lasciò guidare da quella sensazione forte e allo stesso tempo spaventosa.

Tanto ormai cosa può accadere di peggio?

«Senti» sbottò, curvandosi verso di lui. «Siamo nell'ufficio della preside perché oggi hai deciso di rompermi le palle più del solito. Se hai intenzione di provocarmi ancora, dillo subito e ci leviamo il pensiero.» Aveva parlato senza quasi prendere fiato, mangiandosi le parole.

Ren sollevò un sopracciglio e sul suo volto si dipinse un'espressione scettica. Sfoderò un sorrisetto, ma non gli rispose.

Harry fu ancora più infastidito di prima. Tentò di contenere l'irritazione e poggiò la schiena contro la poltrona per sedersi meglio. Decise di averne abbastanza, così reclinò la testa all'indietro e chiuse le palpebre, incrociando le braccia al petto.

Attesero in silenzio ancora per alcuni attimi.

La porta dell'ufficio si aprì, poi si richiuse poco dopo. Harry spalancò di scatto le palpebre, il cuore gli pulsava nella gola.

La preside Martinez prese posto dietro la scrivania. Era una donna di circa settant'anni, ma il suo fisico, stretto in un tubino color panna, era ancora asciutto. A tradire l'età era la ragnatela di rughe sul viso smunto e un ciuffo grigio, che sbucava dai capelli vaporosi acconciati ad arte. Il suo profumo costoso aveva impregnato l'aria e la brezza lo trasportava fino a Harry.

Il ragazzo non mosse neppure un muscolo. Se non fosse stato per il battito del cuore, lo avrebbero scambiato per un cadavere.

La donna inforcò gli occhiali che, grazie a una catenina dorata, pendevano sul suo décolleté come una collana. Studiò i due ragazzi con un cipiglio impenetrabile. Solo un guizzo del labbro comunicò a Harry il suo rincrescimento.

«Yoshikawa, Thompson» esordì. «Il professor Giles mi ha raccontato quello che è successo in mensa.»

Il sudore iniziò a inumidire la nuca e la fronte di Harry. Voleva vomitare. Anzi, avrebbe di sicuro vomitato dopo quello spiacevole colloquio.

Guardò Ren di sottecchi, ma quello stronzo sembrava a suo agio: non c'era neppure una nube nelle sue iridi. L'unica macchia nel suo volto era la linea di sangue che gli tagliava a metà il labbro inferiore.

La preside dovette intercettare il suo sguardo. «Thompson, sei uno studente modello, hai sempre avuto un temperamento pacifico. Trovo difficile credere che tu abbia compiuto un gesto simile» fece una breve pausa, poi rilasciò un sospiro contrito. «Hai picchiato un tuo compagno di scuola. Lo hai anche ferito.»

Harry abbassò gli occhi sulle proprie mani strette in grembo. Era una cosa stupida da fare, ma cercò di camuffare la mano colpevole con l'altra.

Deglutì la saliva – anche se non ne aveva praticamente più.

Mi espellerà? Oh, per l'amor di Dio, perché non lo dice e basta? Così potrò andare in bagno e vomitare.

Mia madre mi ucciderà. Mio padre mi ripudierà.

Addio, Columbia.

«Sì, preside Martinez» confermò Ren, in tono soffice. «Mi ha preso a pugni e mi fa malissimo

Harry fece scattare la testa verso l'alto e lo fulminò con lo sguardo.

Gli occhi di Ren si allacciarono ai suoi. Solo per un secondo, sul volto del compagno apparve un ghigno malevolo.

Immaginò di strangolarlo.

«Yoshikawa, smettila con questa patetica pantomima» lo rimbeccò la preside, scacciando l'aria con un gesto rapido della mano. «Cosa mi dici dell'armadietto di Thompson? La signorina Hannah Moore ha detto che sei stato tu a imbrattarlo. Ha aggiunto che hai spinto il tuo compagno in cortile, prima delle lezioni, e che lo hai provocato per tutto il giorno» gli fece notare. «Anche se queste non sono attenuanti. La violenza non è tollerata.»

Ren ammutolì di colpo e l'aria soddisfatta scivolò via dalla sua faccia.

Harry se ne compiacque. Nonostante fosse nei guai fino al collo, gli bastò vedere Ren Yoshikawa impallidire per sentirsi meglio.

La preside trasse un profondo respiro.

«Dovrei sospendervi» dichiarò, tagliente. «Tutti e due» precisò.

Quelle parole si abbatterono su Harry come una ghigliottina. Un guizzo di terrore lo congelò. Percepì le lacrime affiorare agli occhi.

Era finita. Doveva abbandonare i suoi sogni. Una sospensione durante l'ultimo anno era peggio di una condanna a morte. Poteva scordarsi la Columbia e tutti i suoi sogni.

Stavolta, anche Ren ebbe il buonsenso di stare zitto.

«Tuttavia» proseguì la preside Martinez, «siete tra i migliori studenti della Pumpkin Lake Academy, i vostri voti sono eccellenti. La sospensione vi rovinerebbe la carriera e non sarebbe una soluzione educativa.»

Eh?

Harry osservò la donna come se le fosse cresciuto un terzo occhio sulla fronte. Dischiuse le labbra, incredulo.

«S-sta dicendo sul serio?» mormorò, asciugandosi il collo con i polpastrelli.

Lei annuì appena. «Dal momento che non andate d'accordo, affrontare insieme una punizione potrebbe aiutarvi ad appianare le vostre... divergenze, per così dire.»

Harry si irrigidì. «Ci saranno note sul curriculum?» ebbe il coraggio di chiedere.

«Non per il momento, no.» La preside assottigliò le palpebre. «Ma dovrete scontare una punizione da qui alla fine dell'anno scolastico.»

«Di cosa si tratta?» domandò Ren. Ora la sua voce aveva un'inflessione seria, sembrava impaziente di scoprire quello che la preside aveva in serbo per loro.

«Ogni mercoledì e venerdì pomeriggio entrambi vi tratterrete a scuola, oltre l'orario delle lezioni. Sarà vostro compito pulire gli spogliatoi maschili della squadra di football.» La donna intrecciò le mani sulla scrivania e li guardò da sopra le lenti degli occhiali. «Se uno di voi dovesse assentarsi senza una giustificazione valida, verrete sospesi. Incaricherò un inserviente per controllarvi» sciorinò lapidaria. «Ora andate.» Indicò la porta con un elegante cenno del mento.

Harry si alzò piano. Tremava come un pinscher infreddolito, in parte per l'agitazione, in parte per la rabbia. Non vedeva l'ora di uscire da quella stanza, che diventava ogni attimo più stretta, più soffocante.

Non era stato espulso, né sospeso. Per ora.

Lui e Ren oltrepassarono l'uscio dell'ufficio. Si allontanarono in perfetto silenzio dal bancone della segreteria, dietro il quale il segretario ticchettava sulla tastiera del computer.

Svoltarono nel corridoio deserto inondato dalla luce pomeridiana e, prima di scendere le scale, Harry si fermò.

Chiuse le dita a pugno lungo i fianchi, prese dei respiri profondi, ma non riuscì a calmarsi. Il cervello lavorava a mille, assalito da vampate di collera.

È colpa sua.

Era solo colpa di Ren Yoshikawa se il suo futuro era stato in pericolo. Ciò per cui aveva lavorato duramente, sacrificando pomeriggi e notti, era stato sul punto di svanire come sabbia al vento.

Ren continuò a camminare, distanziandolo di qualche passo. Harry puntò gli occhi colmi di risentimento sulla sua schiena.

Si sentiva derubato, anche se le cose si erano sistemate. Quasi.

«Yoshikawa» ringhiò.

Lui non si fermò, fingendo di non averlo sentito. Harry lo raggiunse con una rapida falcata, gli strinse il polso e lo costrinse a girarsi.

Gli occhi affilati di Ren erano intrisi di fastidio, ma la sua espressione rimase granitica.

Quando tentò di divincolarsi con uno strattone, Harry rafforzò la presa.

Ren sbuffò, annoiato. «Che vuoi, nullità

«Presentati ogni mercoledì e venerdì pomeriggio di fronte allo spogliatoio» lo ammonì Harry.

«Altrimenti?» lo sfotté l'altro con arroganza.

Non ne poteva davvero più di lui, lo disgustava l'idea di trascorrere tutto quel tempo in sua compagnia.

Harry perse le staffe per la seconda volta nella stessa giornata.

Gli lasciò il polso e, con il volto deformato dalla rabbia, gli premette i palmi sul petto. Lo spintonò all'indietro.

Ren barcollò, ma rimase stabile sulle gambe. Lo guardò, in attesa, senza dire niente.

«Ti odio» sputò Harry con veemenza. «Odio tutto di te. Mi hai fatto quasi sospendere!»

Ren sogghignò e si indicò il taglio sul labbro. «Ti sei fatto quasi sospendere» lo corresse. «Il pugno me l'hai dato tu.»

Harry si coprì il volto con le mani, soffocando un lamento di frustrazione. «Mi esasperi, dico sul serio.»

Non si accorse che il suo compagno si era avvicinato, finché non percepì il suo respiro caldo infrangersi sulle dita. Rimase immobile, ancora scosso da quel turbine di emozioni negative, e non tolse le mani dal viso. Non aveva voglia di guardarlo, né di sottostare ai suoi giochetti perversi.

Perché non se ne va?

Avrebbe potuto farlo lui, certo, ma non voleva dargliela vinta. Perciò rimase fermo, nascondendo il volto come un imbecille, e aspettò che Ren si allontanasse per primo.

Poi avvertì il calore del suo corpo a poca distanza dal proprio.

L'odioso profumo di Ren gli colpì le narici come un cazzotto. L'aria attorno a lui sembrò pervasa da scintille di elettricità.

«Lo sapevo» gli sussurrò Ren all'orecchio. «Lo sapevo, nullità, che ti avrei strappato quell'aria da bravo ragazzo.»

Harry abbassò le mani soltanto quando il fiato di Ren non gli solleticò più le dita.

***

C'erano volute all'incirca quarantotto ore per smaltire la collera.

In quel lasso di tempo aveva anche plottato la trama di una nuova storia: il protagonista, un impavido guerriero spaziale, era in lotta con un perfido lord che all'apparenza non poteva tirare le cuoia. Nella scaletta, minuziosamente tratteggiata, il baldo eroe ammazzava cinquanta volte il nemico. Era stato molto facile immaginare se stesso nei panni del protagonista e Ren in quelli dell'antagonista.

Quando sua madre aveva saputo ciò che era successo a scuola, aveva dato di matto. Lo aveva punito, proibendogli di uscire con Hannah e Chris per almeno un mese.

Prima di informare l'ex marito, che viveva in Inghilterra, aveva bofonchiato "Adesso penserà che sono un genitore incapace" e frasi di quel tipo, camminando per tutta la casa con il cellulare in mano.

Harry pensava che sua madre amasse ancora suo padre. Ma si guardava bene dal dirglielo.

Quella sera, dopo la scuola, aveva il turno al lavoro.

Il locale si trovava sulla via principale di Pumpkin Lake, molto facile da raggiungere. Era un classico diner. Il pavimento era nero e bianco, e gli sgabelli in acciaio di fronte al bancone erano rossi, così come le poltroncine imbottite attorno ai tavoli. Poster Pop art tappezzavano le pareti e ampie vetrate si affacciavano sulla strada. L'ambiente era conviviale, allegro, semplice.

Era frequentato perlopiù dai giovani, soprattutto dai ragazzi del liceo pubblico e da alcuni studenti della Pumpkin Lake Academy, perlomeno da quelli che si accontentavano di un panino e di un caffè annacquato.

Dopo due giorni di calma apparente, Harry aveva creduto di essere salvo.

Beh, non aveva fatto i conti con il karma.

Mentre preparava il caffè sentì la porta aprirsi.

Masticò un'imprecazione tra i denti, quando vide Ren e la sua nuova ragazza oltrepassare la soglia. Per sua sfortuna, lui e i suoi amici frequentavano abitualmente il diner.

Solo che quel giorno era diverso: se prima Ren si limitava a qualche frecciatina, adesso Harry non sapeva cosa aspettarsi da lui.

«Vuole uccidermi, non c'è altra spiegazione» sibilò, sbattendo con ferocia la brocca del caffè sul bancone.

Christopher, seduto sullo sgabello vicino ad Hannah, sollevò gli occhi dal piatto di patatine. «Chi?» bofonchiò.

Harry alzò gli occhi al soffitto. «Indovina.»

Hannah si voltò. «Ah» sussurrò allarmata.

«Io non vado a prendere il suo ordine. Gli ficcherei un hamburger in gola e non mi pare il caso...» Harry fece una smorfia.

«Sembra l'inizio di un hate to love» scherzò Christopher.

Harry rabbrividì. «Che schifo» borbottò. «Non dire mai più una cosa del genere.»

Chris sghignazzò, poi si voltò per sbirciare e indicò l'esterno del locale con il pollice.

«Sta arrivando anche Nate, Harry.»

Harry smise di lanciare occhiatacce a Ren e alla sua nuova fidanzata. Fece scattare lo sguardo verso il suo migliore amico.

«C-osa?» balbettò. «N-Nate?»

«S-sì» lo scimmiottò Christopher. Hannah gli diede una gomitata.

Ma Harry aveva smesso di ascoltare e aveva allungato il collo per scrutare l'ingresso. Aveva le palpitazioni e si sentiva ardere dappertutto, come se avesse la febbre. Era di sicuro arrossito, maledizione, e soltanto perché Christopher l'aveva nominato.

Quanto era patetico...

Nate era il migliore amico di Ren, ma, a differenza sua, era un ragazzo gentile. Non aveva mai partecipato al bullismo contro di lui e, anzi, lo aveva difeso in più di un'occasione.

Ovviamente era anche bellissimo: capitano della squadra di football del liceo, aveva un fisico modellato dagli allenamenti e le mani grandi, un dettaglio che Harry apprezzava parecchio in un ragazzo.

Nate aprì la porta ed entrò nel diner. Harry non riuscì più a staccargli gli occhi di dosso, come se il ragazzo avesse inghiottito le luci del locale.

Indossava una camicia a quadri sopra una maglietta nera e dei jeans strappati sul ginocchio. Intrufolò le dita nodose nella zazzera castana, ravviandola con un gesto distratto, e i muscoli del braccio guizzarono per quel movimento. Harry sentì la faccia scottare e strinse il manico della brocca con forza, ignorando la risata di Christopher.

Quando Nate notò Ren e Paige, sfoderò un sorriso illegale in ottantaquattro Paesi. Harry gli guardò con avidità le gambe e il sedere tonico, mentre lui si avvicinava al tavolo dell'amico.

Hannah gli allungò un fazzoletto. «Tieni.»

Harry portò lo sguardo su di lei, confuso. «Eh?»

«Così ti asciughi la bava.»

Christopher scoppiò a ridere.

«Piantala, non sei divertente» sbottò lui, allontanandole la mano con un colpetto.

«Scommetto che adesso andrai a prendere l'ordine al tavolo di Yoshikawa, eh?» Chris poggiò il gomito sul bancone e fece sprofondare la guancia sul palmo, scoccando un'occhiata divertita a Harry.

Hannah cercò di camuffare una risata con un colpo di tosse, poi si sedette meglio sullo sgabello e si sporse verso Harry. Portò la mano aperta a un lato della bocca, come se non volesse essere sentita da orecchie indiscrete.

«Sai, gira un pettegolezzo su di lui a scuola» gli sussurrò in tono cospiratorio.

«E dovrebbe importarmene qualcosa di uno stupido pettegolezzo?» Harry inarcò le sopracciglia.

Lei ridacchiò. «Beh, credo proprio che questo pettegolezzo ti piacerà.»

«Sentiamo.» Harry sospirò, rassegnato. Tanto Hannah gliel'avrebbe detto comunque, anche se lui non era affatto curioso.

No, non lo era per nulla.

Neppure un po'.

Una luce maliziosa baluginò nelle iridi dell'amica.

«Si vocifera che Nate sia bisessuale.»

Harry spalancò le palpebre. Raccolse tutto il proprio contegno per evitare di mostrare entusiasmo.

Il bocciolo della speranza si schiuse nel suo petto. Lo aveva sempre ammirato da lontano, perché credeva che lui fosse eterosessuale, ma quella scoperta ribaltava le carte in tavola: se il pettegolezzo era vero, aveva una chance.

Fece saettare lo sguardo verso il tavolo di Nate, nella speranza di perdersi in quegli incredibili occhi blu.

Invece dei suoi occhi, però, intercettò quelli a mandorla di Ren.

La sua nemesi gli indirizzò un sorriso, ma era un sorriso fasullo. Una mezzaluna sinistra su un volto perfetto.

Harry serrò le labbra in un trattino sottilissimo.

Il fastidio fu immediato, quasi tangibile; iniziò come una scintilla, per poi divampare come un fuoco indomabile.

Spinto da quelle fiamme, Harry tirò fuori dalla tasca il block-notes per le prenotazioni.

«Vado a prendere il loro ordine.»

Chris emise un fischio. «Il potere dell'amore.»

Il potere dell'odio, piuttosto.

Si era sempre tenuto lontano da Ren, ma da quando gli aveva dato un pugno era cambiato qualcosa in lui, anche se non sapeva dire con esattezza cosa.

Forse adesso era consapevole di poterlo battere, a scuola e in generale.

Arrivò al loro tavolo.

Ren era seduto scomposto sul divanetto, con un braccio sulla spalliera e le gambe divaricate. Indossava una felpa grigio scuro con il cappuccio e dei jeans neri aderenti. Paige, seduta di fronte a lui e accanto a Nate, faceva scorrere la home di Tik Tok sull'iPhone. I capelli sciolti sulle spalle erano luminosi e alcuni ciuffi incorniciavano il viso truccato alla perfezione.

Nate, invece, guardava fuori dalla vetrata, canticchiando la hit riprodotta dalla radio del locale. Era adorabilmente stonato, considerò Harry.

Si imbambolò a osservare i raggi del sole che gli accarezzavano il profilo e la gobba del naso. I suoi capelli, sotto la luce, assumevano calde sfumature rossicce che ricordavano l'autunno.

«Thompson, fisserai il mio amico ancora per molto? Non ti pagano per questo.» La voce petulante di Ren frantumò l'incantesimo.

Harry avvampò, trasalì e il block-notes quasi gli scivolò dalle mani. Abbassò lo sguardo sul foglio. Le scritte delle precedenti ordinazioni divennero un ammasso di lettere confuse.

Merda.

La fiamma dentro di lui si spense, come se qualcuno ci avesse soffiato sopra. Il coraggio lo abbandonò.

Si schiarì la gola. «C-cosa prendete?» farfugliò. Dai, fottuti neuroni, mettetevi in moto. Odiò da morire sentirsi in imbarazzo davanti a Ren e, soprattutto, davanti a Nate.

«Decidi tu per me, Ren» disse la ragazza di Yoshikawa. Non si scomodò neppure ad alzare gli occhi dal cellulare.

«Non lo so» replicò lui in tono annoiato. «Thompson, cosa ci suggerisci? Saprai fare qualcosa, a parte fissare Nate.»

Le dita di Harry strinsero forte il block-notes. Sollevò lo sguardo e lo conficcò nel suo.

«Ti sconsiglio l'hamburger, Yoshikawa. Potrebbe fare una brutta fine.» Potrei spappolartelo in faccia, ad esempio.

Ren annuì piano, picchiettandosi il mento con l'indice, e si stampò sul viso un'espressione condiscendente. «Allora porta un Roastbeef Sandwich. Per Paige un panino e una Coca light.»

Paige non batté ciglio.

«Una Coca light?» chiese Harry per sicurezza.

Paige sollevò lo sguardo annoiato su di lui. «Sei sordo, nullità?» Schioccò le dita. «Sei ancora qui? Veloce, su.»

«Io potrei avere un hamburger, invece?» Nate la interruppe. Il suo tono era gentile e fece arrossire Harry, che si sentì un vero imbranato.

Tu puoi avere tutto.

Harry gli sorrise, timido. «Certo.» Il cuore gli batté forte, mentre appuntava il suo ordine.

Ren fece schioccare la lingua sul palato.

Lui lo ignorò e continuò a sorridere a Nate, che lo ricambiava. Le labbra del ragazzo sembravano davvero morbide, arricciate in quel modo, e mostravano dei denti bianchissimi.

Dio, è bellissimo. E potrebbe essere bisessuale.

«Arrivo subito.»

Ancora su di giri, la sua testa navigava nella nebbia e il suo corpo sembrava fluttuare come se non gli appartenesse più.

Harry si volse e fece per incamminarsi, quando le sue gambe incontrarono un ostacolo. Inciampò, si sbilanciò in avanti e il block-notes gli scivolò dalle mani. Cadde in ginocchio con i palmi premuti sul pavimento.

Il locale piombò nel silenzio.

Harry desiderò ardentemente buttarsi in una voragine.

Si sistemò gli occhiali, si accovacciò e fece per rialzarsi.

«Ops.»

Ancora inginocchiato, si girò di scatto verso Ren. La sua gamba tesa sporgeva dal divanetto.

Harry contò mentalmente fino a mille, per evitare di compiere un gesto sconsiderato come quello di due giorni prima. Il lavoro gli serviva, non poteva perderlo.

Intercettò Christopher e Hannah: si erano allontanati dal bancone e adesso erano a una spanna da lui.

«Tutto bene?» chiese Christopher.

«Ti sei fatto male?» domandò Hannah, la voce carica di apprensione.

«Sto bene.»

Nate lanciò un'occhiata di rimprovero all'amico, dopodiché si alzò e recuperò il block-notes dal pavimento. Si avvicinò a Harry, occupando tutto il suo campo visivo, e glielo porse.

«Tieni.»

Harry si sollevò in piedi, ma tenne lo sguardo basso. Allungò la mano e afferrò il blocchetto di fogli. Sentiva il sangue affiorare alle guance e, di nuovo, l'umiliazione gli bruciò sulla pelle.

«Ehm, grazie» sussurrò. Voleva sparire a causa di quella figuraccia.

È sempre colpa sua.

«Figurati» rispose Nate. «Se posso darti un consiglio...»

«Sì?»

L'altro guardò Ren, che adesso era girato di spalle, e sospirò. «So cosa è successo a scuola. Lascialo perdere, okay? A volte si comporta come un bambino.»

Harry infilò il block-notes nella tasca. Avrebbe voluto chiedergli come facesse a essere suo amico, ma si morse la lingua giusto in tempo.

«Vado a lavorare» si limitò a commentare.

Prima di tornare dietro il bancone, si volse verso Ren. Lui tamburellò le dita sulla spalliera e piegò la testa di lato, sorridendogli serafico.

Harry cercò di racimolare tutta l'irritazione e di condensarla nello sguardo.

È guerra.

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