1. Profilo basso fino al diploma


Nel mondo esistevano alcune verità immutabili.

Ad esempio: il sole sarebbe sorto ogni mattina e sarebbe tramontato ogni sera, a prescindere dal personale dramma di ciascuno; per poter vivere in modo dignitoso era necessario studiare sodo – possibilmente in un college della Ivy League – e trovare un buon lavoro; alcune persone amavano i cani e altre amavano i gatti; la verdura faceva schifo più o meno al settanta percento della popolazione mondiale...

E poi c'era l'eterno odio di Harry Thompson nei confronti della Pumpkin Lake Academy.

«Detesto tutto questo» gemette Harry, sconsolato, mentre tentava di annodare la cravatta della divisa. Non si sarebbe arreso, non l'avrebbe data vinta a quella stupita stoffa color cremisi. «Davvero. Lo detesto

Arricciò le labbra in una smorfia contrariata e sollevò lo sguardo sullo specchio da parete vicino alla scrivania.

Beh, poteva andare peggio. Se non altro, la sua faccia non era orribile.

Harry si passò una mano tra i capelli biondo cenere, tentando di domare i ciuffi scompigliati, poi aggiustò gli occhiali un po' storti sul naso. Per fortuna il suo viso era così pallido che la costellazione di lentiggini si notava a malapena. Non gli piacevano molto, lo facevano sembrare più piccolo.

Lanciò una laconica occhiata al blazer rosso, piegato con cura sul letto vicino a Christopher.

«Harry Thompson: il re del melodramma.» Il suo migliore amico ridacchiò. «Ripeterai il copione fino al diploma?»

Lui e Chris facevano spesso colazione insieme prima di andare alla Pumpkin Lake Academy, era una specie di tradizione. L'amico adesso era seduto con i gomiti puntellati sul materasso e le gambe penzoloni. La camicia della divisa era stropicciata, una delle falde era fuori dai pantaloni e i due lembi della cravatta sciolta giacevano ai lati del collo. Non ci provava nemmeno, a essere ordinato.

Sfoderò un sorrisetto divertito e lo fissò da sotto in su con i suoi caldi occhi color ambra. Con i capelli biondo rame e l'espressione bonacciona, sembrava un esemplare di labrador troppo cresciuto. Era alto, aveva le spalle larghe e nerborute e un fisico asciutto, modellato dall'attività fisica.

Se Christopher non fosse stato etero, in passato Harry ci avrebbe fatto più di un pensierino a luci rosse, ma era da molto tempo che lo vedeva soltanto come un amico. Per lui era come se Chris non avesse i genitali.

In prima media lo aveva beccato a limonare con una ragazza nel cortile della scuola e lui gli aveva confessato, con una certa concitazione, di essere quasi svenuto. Harry aveva risposto con: "Che sfigato". Da quel momento era diventato il suo migliore amico. Immaginare di baciarlo gli faceva rivoltare lo stomaco.

Harry lo studiò con un lungo sguardo colmo di disappunto. Riusciva a essere figo anche conciato in quella maniera.

Lui invece ci provava, ci provava davvero a darsi un tono, ma era così goffo e impacciato che finiva per combinare disastri: come, per esempio, rovesciarsi il caffè caldo sulla divisa inamidata. Tendeva a non ripescare volentieri quel ricordo, perché i suoi compagni di scuola lo avevano preso in giro una settimana intera.

Sospirò e riprese a litigare con il nodo della cravatta. «Saresti tra i più popolari, se non fossi sempre con me.» Quella frase non voleva sembrare triste, eppure assunse un'involontaria inflessione amara.

Chris fece una smorfia. «Con quell'ammasso di imbecilli?» Simulò un conato di vomito. «Preferisco la nostra band dei nerd.»

«Questa cazzo di cravatta...» borbottò Harry, corrugando le sopracciglia. Abbozzò un nodo raffazzonato, infilò la camicia dentro i pantaloni, poi sollevò lo sguardo e osservò Chris attraverso lo specchio.

Sapeva che l'amico lo pensava davvero: preferiva stare insieme a lui e Hannah, i due nerd per eccellenza della Pumpkin Lake Academy, invece di trascorrere il tempo con i figli di papà che li tormentavano da quattro lunghi anni. Però, se Chris non avesse frequentato loro due, avrebbe avuto la possibilità di vivere sereno. Gli dispiaceva per lui.

Harry storse le labbra per il fastidio, mentre pensava a quel gruppo di bulli. E, soprattutto, a un volto in particolare. Smise di lisciare il colletto e strinse le mani fino a far impallidire le nocche. Le sue iridi verde bottiglia si incupirono.

«Oh, no» esclamò Chris, allarmato. «Conosco quello sguardo. Lo so a chi stai pensando.»

«Taci» sbottò Harry. Si volse di scatto, si diresse verso il letto e agguantò il blazer. Lo indossò con un gesto secco. Mantenne il volto basso per evitare che l'altro gli leggesse l'espressione.

«Pensi che farà ancora quello che vuole?»

La domanda di Christopher lo colpì come una cinghiata sulla schiena e lo turbò più di quanto avesse immaginato.

Tuttavia, Harry lo ignorò. Prese il cellulare, che si trovava sopra un romanzo di fantascienza sul comodino, poi lo infilò nel suo zaino a quadretti rossi e bianchi.

«Sai...» Chris esitò un secondo. «Ho sempre trovato strano che tu non reagissi alle sue provocazioni o non denunciassi il suo comportamento ai prof. Non sei mai stato una persona passiva, Harry» insistette. Nel frattempo si era alzato. La borsa a tracolla, rattoppata in più punti, gli penzolava da un lato.

Harry girò la testa e lo guardò di traverso. «Che ridere, mi sto proprio sbellicando dalle risate.»

Chris comprese il doppio senso e avvampò. Si scompigliò la folta zazzera con un gesto nervoso. «Non intendevo quello.» Sbuffò. «E dai, lo sai cosa volevo dire.»

Harry avanzò verso la porta della propria camera.

«Ren Yoshikawa per me non esiste, non è mai esistito» disse lapidario. «Che mi sfotta pure.»

«Ma...» obiettò Chris dubbioso, mordendosi un labbro. «Quest'anno Ren è particolarmente aggressivo. È passato solo un mese dall'inizio della scuola e non fa che prenderti in giro. Forse se ne parlassi con i professori...»

Harry aprì l'uscio e superò la soglia. Dal piano di sotto proveniva il brusio della televisione accesa.

«Stai tranquillo. Non gli permetterò di avere potere su di me. Fingerò che non esista, sono diventato campione mondiale in questo.» Si fermò nel corridoio, gettò un'occhiata alle scale. «Ricorda. Il nostro motto è: profilo basso fino al diploma

Chris annuì. Posò una mano sulla sua spalla e la strinse. «Ci lasceremo alle spalle questa merda.»

Harry gli sorrise, anche se in cuor suo sapeva quanto i dispetti di Ren Yoshikawa stessero diventando sempre più pesanti da sostenere. Quell'anno, poi, sua sorella Rosie frequentava la prima superiore e lui aveva fatto di tutto per evitare che finisse sotto il suo mirino. I tentativi di proteggerla lo sfinivano, ma non voleva che lei avesse un brutto ricordo del liceo.

Scesero le scale in silenzio. Harry chiuse con forza le dita sulla cinghia dello zaino.

Se Ren fosse stato un perdente, un cretino qualunque, sarebbe stato più semplice. La sua cattiveria e la sua arroganza lo avrebbero infastidito meno.

Ma quel coglione era un dannato genio. E Harry lo detestava principalmente per quello. C'era una rivalità latente tra loro: per sua sfortuna, seguivano gli stessi corsi. Ren aveva a o b in tutte le materie.

Beh, in tutte tranne in una.

Harry curvò le labbra in un sorrisetto vittorioso, al pensiero.

Ren era una vera schiappa in chimica, corso in cui, di contro, Harry eccelleva senza nessuno sforzo. Da quando lo aveva superato anche in quella l'anno precedente, il ragazzo si era incattivito ancora di più.

Era davvero ironico che proprio il figlio del capo della Yoshikawa Pharma inc facesse schifo in chimica.

Posò il piede oltre l'ultimo gradino e si ritrovò nel piccolo ingresso. Alla destra si apriva un open space con la cucina e il minuscolo soggiorno. C'erano giocattoli, libri e pacchi di merendine sparsi un po' dappertutto. Il divano era seppellito da riviste e da alcuni indumenti appallottolati.

Rosie era seduta a tavola e stava smanettando con lo smartphone, mentre Alex, il più piccolo dei Thompson, guardava i cartoni animati alla tv e sgranocchiava i cereali innaffiati con del latte.

«Rosie» la chiamò Harry, affacciandosi al soggiorno. «Dobbiamo andare.»

«Mmh.» Lei annuì e il movimento della testa fece ondeggiare i boccoli biondi, ma non staccò lo sguardo dal cellulare.

Harry, impaziente, alzò gli occhi al cielo. Chris rise.

Dei passi veloci risuonarono per le scale. Harry e Christopher si voltarono.

La mamma di Harry raggiunse il piano di sotto, mentre finiva di abbottonare la divisa arancione del fast food in cui lavorava. I capelli biondo cenere, indomabili come quelli di Harry, erano spettinati e aveva uno sbaffo di rossetto sul labbro superiore.

Diede loro uno sguardo veloce, prima di fermarsi davanti allo specchio sopra il cassettone. Ripulì il rossetto sbavato con il pollice.

«Ciao, ragazzi» li salutò.

Chris si portò una mano alla fronte, mimando il saluto militare. «Buongiorno, signora.»

Lei gli sorrise attraverso il riflesso. «Quante volte devo dirti di chiamarmi Claire?» Poi si rivolse al figlio. «Zia Marge sta arrivando. Puoi badare ad Alex finché non è qui?»

Harry assottigliò le palpebre. Il fastidio si presentò come un prurito alla base del collo.

Non era la prima volta che sua madre usciva di casa prima di lui per andare al lavoro e gli chiedeva di fare da babysitter ai suoi fratelli. Da quando i suoi genitori avevano divorziato, le dava volentieri una mano.

La madre lo fissò con rimprovero, vanificando i suoi sforzi. «Non fare quella faccia» lo rimbrottò.

«Faremo tardi.» Il ragazzo si costrinse a usare un tono neutro, ma non era sicuro di aver nascosto bene l'irritazione. Arrivare in ritardo poteva costargli una nota. Voleva entrare alla Columbia e non era certo di essere ammesso con delle macchie sul curriculum.

Lei roteò gli occhi e scacciò l'aria con un gesto stizzito della mano. «Lo so che la scuola è importante, ma sembra che per te conti solo questo» si lamentò. «Vuoi diventare egocentrico come tuo padre?»

«Papà ci paga la scuola e gli alimenti, mamma» puntualizzò lui, scocciato.

La retta annuale della Pumpkin Lake Academy era molto alta. Senza il suo aiuto, Harry avrebbe dovuto frequentare l'High School pubblica. Anche se la sua vita scolastica era difficile, andare al liceo privato gli dava più punti per l'ammissione alla Columbia.

Lei affilò gli occhi, il volto accartocciato in un'espressione quasi sofferente. «Sei sempre dalla sua parte.»

Harry sbuffò. «Possiamo parlarne un'altra volta?»

Claire gli rifilò un'occhiata in tralice, ma non aggiunse altro. Lo superò, si diresse in cucina e scoccò un bacio volante agli altri due figli. Carezzò la testolina riccioluta di Alex, dopodiché raggiunse l'ingresso. Afferrò le chiavi dal cassettone e si girò verso Harry.

«Aspetta zia Marge.» Fu quello il suo saluto, prima di chiudersi il portoncino alle spalle.

Chris sospirò e si sedette sull'ultimo scalino. Sfilò il cellulare dalla tasca e poi, con uno sbadiglio, sbloccò lo schermo per avviare un videogioco.

Harry, esasperato, si girò verso Rosie. La sorella sembrava non avere alcuna intenzione di alzarsi dal tavolo: sgranocchiava dei cereali, mentre ridacchiava con lo sguardo incollato al telefono.

«Rosie, fila a finire di prepararti!» esclamò lui a voce alta. Aveva esaurito la sua dose quotidiana di pazienza e il giorno era appena iniziato.

Lei sobbalzò e lo guardò sgranando i grandi occhioni verdi da cerbiatta.

Poi, però, gli fece la linguaccia. «Non puoi darmi ordini.»

Harry digrignò i denti.

Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi. Harry sentiva sottopelle un pessimo presentimento.

***

Pumpkin Lake era una cittadina di quindicimila anime dello Stato di Washington. Immersa in un'opprimente foresta, era abbracciata da vette altissime e innevate. La vegetazione che la circondava si spalancava per accogliere uno specchio d'acqua cristallino, chiamato proprio Pumpkin Lake. Harry, Hannah e Christopher trascorrevano le loro estati al lago.

Il lago era testimone del mutare delle stagioni: in inverno, si trasformava in una pericolosa lastra di ghiaccio; in primavera, l'erba tenera lasciava spazio ai fiori; in estate, i raggi del sole danzavano sulla superficie increspata dalla brezza.

In quel periodo dell'anno, invece, le foglie degli alberi dipingevano di oro e rosso il terreno e il paesaggio circostante. Il lago accoglieva quei colori, rifulgendo come ambra, e donava un fascino decadente e malinconico alla cittadina.

Man mano che si avvicinava Halloween, le zucche venivano usate dappertutto come decorazione. Erano onnipresenti fuori dai locali, dentro i negozi e perfino sotto le verande delle case. La città si ricopriva letteralmente di arancione.

Pumpkin Lake era degna del nome che portava.

Harry, Chris e Rosie sfrecciavano sulle loro biciclette, nel tentativo di non arrivare troppo tardi per l'inizio delle lezioni. Mancava un quarto d'ora: se avessero pedalato con più decisione, forse sarebbero arrivati in anticipo.

Le tre bici correvano su una stradina pericolante, affiancata da file di alberi a perdita d'occhio. L'aria fresca di metà ottobre sferzava la faccia di Harry e si infiltrava al di sotto del suo blazer, che svolazzava e si gonfiava per via del vento.

Strizzò gli occhi, liquidi a causa del freddo, e strinse le mani sul manubrio. Mosse le gambe per pedalare più velocemente e superò Chris, battendolo nella loro gara: chi dei due fosse arrivato secondo, avrebbe offerto una pizza all'altro.

«Ehi, stronzo» gli urlò dietro l'amico. «Non vale!»

Harry scoppiò a ridere e tolse una mano dal manubrio per mostrargli il dito medio. «Zitto e incassa!»

Sentì Rosie ridacchiare divertita alle sue spalle.

Svoltarono a destra, nel punto in cui la via sfociava nella strada principale di Pumpkin Lake.

A quell'ora del mattino la città si risvegliava, stiracchiandosi sonnolenta. Le saracinesche dei negozi iniziavano ad alzarsi, il profumo di ciambelle e zucchero impregnava l'aria, e le persone tentavano di accaparrarsi i posti migliori nelle caffetterie.

Pedalarono ancora per qualche minuto, finché la Pumpkin Lake Academy non si stagliò davanti a loro.

Harry virò. Frenò bruscamente e strisciò le sneakers azzurre sul terriccio, sollevando uno sbuffo di polvere.

Il suo petto si alzava e si abbassava in affanno, mentre lui si asciugava il sudore dal collo con la mano. Allentò il nodo della cravatta e respirò a grandi boccate. Sentì Rosie e Chris frenare alle sue spalle.

Davanti a loro si snodava un lungo viale in cemento, circondato da un cortile e da alberi potati in modo quasi maniacale. L'erba verde scintillava come se fosse finta, persino i fiori ai lati del viale sembravano di plastica per via dei loro colori troppo accesi. A deturpare quella perfezione innaturale c'erano soltanto delle foglie arancioni depositate sul prato.

L'edificio della scuola, austero e immacolato, si ergeva dal terreno con imponenza. La facciata era in mattoni rossi, con un ampio porticato color crema davanti alle porte in legno massiccio. La bandiera americana campeggiava sopra il portico e si muoveva sinuosa grazie al vento.

Molti dei loro compagni erano ancora fuori dalle aule e alcuni chiacchieravano seduti su un muretto lì accanto. Il cicaleccio delle loro voci si amalgamava in modo piacevole.

Harry scese dalla bicicletta con un balzo, la spinse fino a raggiungere il parcheggio dedicato e la sistemò in uno degli spazi. Chris si accovacciò per legare la sua con la catena, mentre Rosie, che era stata più veloce, si stava già allontanando per raggiungere il suo gruppetto di amiche.

Chris si alzò in piedi e controllò il cellulare. «Hannah arriverà un po' in ritardo» lo avvisò, mentre leggeva un messaggio.

Lui annuì. Fece per sistemare lo zaino sulla spalla, quando venne distratto dal forte rumore di gomme che stridevano sull'asfalto.

Il frastuono della musica rock a tutto volume gli fece capire subito di chi si trattasse. Era quasi un sesto senso, un pizzicore alla nuca.

Chris sollevò allarmato lo sguardo dal cellulare e fissò un punto dietro l'amico con apprensione.

Harry serrò la mandibola.

Quando si voltò, vide un'Aston Martin Vantage decapottabile frenare lì vicino. La vernice rosso fiammante sfavillava sotto i raggi del sole.

Harry avrebbe potuto darle le spalle.

Avrebbe potuto allontanarsi per entrare a scuola ed evitare spiacevoli incontri.

Ma i suoi piedi non vollero saperne di collaborare. Le gambe rimasero piantate al suolo, gli occhi incollati all'esuberante automobile da ricconi.

Il suo sguardo si spostò dentro l'abitacolo, eppure Harry si ostinò a non puntarlo su quella figura che detestava così tanto.

Si limitò a fissare le sue lunghe dita strette sul volante, la linea decisa del polso. L'avambraccio era scoperto, perché la camicia e la manica della giacca erano arrotolate fino al gomito.

«Harry» gli sussurrò Chris. «Dovremmo andare, prima che si accorga di noi.»

Harry sapeva che aveva ragione.

C'era una ragazza sul posto del passeggero, se ne accorse soltanto adesso. Era una delle più ricche della scuola, Paige Qualcosa – non ricordava il cognome. La vide sporgersi verso Ren Yoshikawa e stampargli un bacio sulla guancia. La ragazza aprì la portiera della decapottabile e scese con eleganza dall'auto.

Era molto bella, il genere di ragazza irraggiungibile che probabilmente piaceva a tutti: fluenti capelli rossi lunghi fino alla vita, un seno prosperoso, gambe snelle e lineamenti artificiosi da bambola.

Guardò Harry e Chris come se fossero degli insetti disgustosi.

Passò loro accanto, dando una spallata a Harry e facendolo sbandare per un secondo.

«Sfigato» gli sibilò velenosa, mentre si allontanava.

Harry sospirò, fece per girarsi e andarsene con Chris, ma un movimento dentro l'automobile lo spinse a far scattare di nuovo lo sguardo in quella direzione.

Ren Yoshikawa lo stava fissando con quei glaciali occhi a mandorla, affilati, taglienti. C'era un abisso oscuro in quelle iridi nocciola, animate soltanto da una luce cattiva.

Piegò un lato delle labbra in un ghigno.

Aveva un viso pulito dai lineamenti sottili, morbidi e quasi androgini, che faceva a cazzotti con la sua personalità.

I capelli, divisi da una riga in mezzo, erano lunghi fino alle orecchie e gli ricadevano sul volto con naturalezza, rendendolo ancora più armonico e piacevole da osservare. Erano biondi, di un color oro simile al grano – di sicuro li tingeva. La brezza gli fece ondeggiare un ciuffo, che accarezzò il lobo dell'orecchio destro e svelò un orecchino a forma di cerchio.

La sua era una bellezza cruda, sfacciata e angelica, eppure... sbagliata.

Harry strinse le labbra in una linea sottile, ma non distolse lo sguardo da lui.

Voleva comunicargli che non l'avrebbe spezzato. Né ora né mai.

Ren dovette accorgersi della sua luce di sfida, perché sollevò per un attimo gli occhi al cielo e si portò una mano alle labbra, come se volesse nascondere il sogghigno divertito.

Poi aprì lo sportello e uscì dalla macchina. Tirò fuori il telecomando dalla tasca, premette il pulsante e i fari lampeggiarono seguiti da un bip.

Si voltò verso di lui. Era alto, il suo fisico era fasciato alla perfezione dalla divisa che gli sottolineava la figura smilza.

Il mezzo sorriso senza gioia rimase impigliato alle sue labbra.

Quella mattina c'era qualcosa di diverso. Harry non seppe dire cosa, né come lo avesse capito. Forse lo aveva percepito nella rigidità della sua mandibola, oppure nel bagliore sinistro dei suoi occhi. Sembrava furioso: sebbene all'esterno apparisse calmo, era come un vulcano pronto a eruttare.

Yoshikawa fece dei passi verso di lui.

«Ciao, nullità» lo salutò mellifluo, apostrofandolo con il solito insulto.

Il cortile era precipitato nel silenzio elettrico dell'attesa. Era come se i loro compagni pregustassero già lo spettacolo.

Harry si raggelò, non riuscì a fare neppure un passo. C'erano due forze opposte in lui. Una gli suggeriva di darsela a gambe, l'altra voleva afferrare quel coglione per la collottola e riempirgli la faccia di pugni fino a far sanguinare le nocche...

Chiuse le dita nel palmo, così forte da conficcare le unghie nella carne. Ma neppure quello fu capace di far svanire la tentazione che gli ribolliva sotto la pelle.

«Porca troia» esclamò Chris. Lo afferrò per la cinghia dello zaino e lo trascinò con sé. «Dobbiamo andarcene, dai, prima che faccia una delle sue stronzate.»

Lui esitò, ma alla fine si girò per seguire il suo migliore amico. Proprio in quell'istante, si sentì strattonare all'indietro.

Perse l'equilibrio e andò a sbattere contro qualcosa di caldo e solido. La sua mente, piombata nella confusione, registrò un intenso profumo fresco, quasi marino. Era buono, anche se piuttosto invadente.

Due mani lo afferrarono per le braccia, forti come tenaglie d'acciaio.

E Harry, a quel punto, capì.

Si divincolò con forza, mentre un'ondata di rabbia intensa e incandescente lo invadeva. La vista si annebbiò, il cuore prese a pompare sangue a ritmo serrato.

«Lasciami» sibilò.

Quando Christopher incrociò il suo sguardo, impallidì. Il suo volto, poi, si arrossò a chiazze. Doveva essere molto in collera.

«Lascialo andare, Yoshikawa, o chiamo gli insegnanti.»

Harry scosse il capo, non voleva che anche lui venisse preso di mira quel giorno. Ren, comunque, fece finta di non averlo sentito.

Risatine di scherno iniziarono a dipanarsi lungo il cortile, e una ventata di umiliazione scosse Harry.

Non devo reagire.

La Columbia è più importante di tutto.

«Nemmeno per idea.» Il respiro di Ren gli solleticò il collo in una carezza ipocrita.

Gli sfilò lo zaino dalle spalle, dopodiché gli diede una forte spinta. Per un attimo, una fitta di dolore gli riverberò lungo la schiena.

Harry non riuscì a mantenersi stabile sulle gambe. Strinse gli occhi, mentre imprecava e cadeva per terra. Sbatté i palmi, che bruciarono subito, e gli occhiali si storsero sul naso. L'impatto gli mozzò il respiro.

Fece appena in tempo a riaprire le palpebre, che vide il contenuto del suo zaino venire rovesciato sul terreno davanti a lui.

Sollevò lo sguardo e lo allacciò a quello di Ren. Quel fottuto ghigno soddisfatto gli incurvava ancora le labbra, intramontabile.

Harry avvertì il soverchiante impulso di cancellarglielo a suon di pugni. Strinse una manciata di polvere tra le dita per soffocare quel bisogno.

Yoshikawa gli mostrò il dito medio. «Coglione» lo insultò.

Un coro di risate, applausi e fischi accompagnò quella patetica scena. Il ragazzo si voltò e, dopo aver calpestato un libro di Harry, si allontanò. Si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni come se non fosse successo niente.

Christopher si accovacciò di fianco a Harry. Lo aiutò a rialzarsi sostenendolo per il polso.

«Cristo» imprecò. «Dobbiamo andare dalla preside, subito.»

Harry si alzò in piedi. Liberò il braccio dalla presa dell'amico, che lo guardò smarrito.

Il suo corpo era percorso da tremiti, ma gli occhi non abbandonarono neppure per un secondo la figura di Ren Yoshikawa. Avanzava, sicuro e arrogante come il re dell'universo, verso l'ingresso della scuola.

«No.»

«Ma...»

Harry si voltò verso di lui di scatto e lo fulminò con lo sguardo. «Ho detto no» esclamò con un tono che non ammetteva repliche.

Chris sollevò le mani in segno di resa. «Okay» capitolò. «Come vuoi.»

Mentre si affrettava a raccogliere quaderni e libri da terra, Harry pensò al suo pessimo presentimento.

Aveva ragione: quella giornata era destinata soltanto a peggiorare.

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