Parte 8

Silvio aprì gli occhi. Si portò una mano sulla fronte e se la massaggiò, nel tentativo di scacciare il cerchio che gli stringeva la testa. Non funzionò. In bocca sentiva il gusto di un'arancia andata a male. Si tirò indietro i riccioli, e provò a combattere contro la luce che inondava la stanza e che veniva dalla vetrata sulla sinistra.

Scorse le chiome degli alberi ondeggiare. Gli alberi. Sì, dovevano essere quelli del giardinetto su cui si affacciava il salottino del suo monolocale, ma non li ricordava così alti né ricordava che il divano fosse così comodo e morbido. Accarezzò la coperta. Raso, seta? Di certo non il cotone del copri-divano che Malik aveva insistito a sistemare nell'appartamento.

Voltò il capo verso il comodino. La lampada dal vetro satinato e il legno lucido, i tappeti a terra. Tutto era troppo lussuoso per appartenere al bilocale vicino all'università. Tentò di richiamare alla mente gli eventi della notte appena trascorsa. La festa, la villa. Ok, ma che ci faceva in quella stanza?

Gli venne in mente il quinto bicchiere di punch prima che Malik uscisse in giardino con la sua nuova conquista. Poi Damiano, la sorpresa di vederlo lì. Damiano gli si era avvicinato, ma da quel punto in poi tutto diventava nero, come uno schermo a cui venisse meno la connessione.

Allungò ancora la mano. Sentì qualcuno muoversi, e quando si voltò si trovò il viso di Damiano a pochi centimetri. Il cuore gli saltò in gola. Che ci faceva Damiano lì? Vicino a lui? Nello stesso letto?

No, no, no, cominciò a ripetersi freneticamente. Si mise a sedere, si tastò il corpo, e tirò un sospiro di sollievo. Era vestito, e anche Damiano lo era. Non era successo niente, naturalmente. Cosa poteva mai accadere tra lui e il figlio del rivale politico di sua madre, che per di più gli aveva reso odioso il liceo con le sue battute?

Vide Damiano aprire gli occhi lentamente, l'azzurro delle sue iridi fare capolino mentre le palpebre si sollevavano. Se solo la sbronza non lo stesse letteralmente uccidendo, avrebbe potuto dirgli qualcosa di sarcastico e irriverente, magari anche fargli credere che loro due... chissà come avrebbe reagito. Poi si diede dello stupido. Non valeva neanche la pena. Doveva solo alzarsi e andarsene al più presto.

Damiano si passò le mani sul volto, poi piantò i suoi occhi nei suoi. Silvio lo vide arrossire, e non riuscì a resistere alla tentazione di domandargli: «Che ci fai qui con me?»

Damiano si mise a sedere. «Io, beh io...», balbettò.

Silvio scosse la testa. «Lascia perdere». Si alzò, nonostante la sbronza avesse cominciato a dargli un leggero senso di nausea. Vide il tabacco e le cartine sul letto. Doveva essere quello il motivo per cui Damiano era lì con lui: in un attacco di generosità o, più probabilmente per colpa dell'alcol, doveva avergli offerto una sigaretta rollata. Se questi erano gli effetti del punch, non ne avrebbe bevuto mai più.

Si affacciò alla vetrata, si accorse che dava su un balcone da cui partiva una rampa di scale che portava in giardino. Lo spiazzo verde era un campo di battaglia: bicchieri di carta, bottiglie di birra, neanche avesse ospitato un festival musicale. Raccolse il giubbotto di Damiano e lo lanciò verso di lui. «Prendi». Trattenne a stento una risata quando vide che il giubbotto era finito a terra, perché Damiano non aveva avuto i riflessi abbastanza pronti per afferrarlo.

«Sei tu che l'hai lanciato male», sibilò l'altro per tutta risposta.

«Guarda che...», cominciò lui, ma un urlo e poi uno scalpiccio lo misero in allarme. Il rumore di passi si faceva sempre più vicino e il vociare più acuto. Non ebbe il tempo di dire nulla. In un momento vide la maniglia della porta abbassarsi, senza che però la porta si aprisse. Allora una cascata di pugni si abbatté su di essa.

«Aprite, chi c'è?», domandò una voce maschile. Non c'era bisogno di vedere l'uomo in faccia per capire che fosse infuriato.

«Che succede?», domandò Damiano, ancora incapace di mettere in ordine gli ultimi eventi.

«Siamo gli ultimi rimasti qui. Ce ne dobbiamo andare». Diede un ultimo sguardo al tabacco e alle cartine, non aveva il tempo di prenderli. «Allora, ti muovi?», domandò esasperato a Damiano.

Non aspettò una risposta. Aprì la porta-finestra e corse lungo le scale del balcone. Il cancello del giardino era aperto. Lo raggiunse di corsa, anche se a ogni passo le tempie pulsavano come se volessero esplodere. Maledetto punch, pensò ancora.

Corse a perdifiato fino alla fine della strada, quando le villette a schiera finivano e si apriva un incrocio. A giudicare dal traffico e dalle saracinesche dei negozi sollevati, la gente si era alzata da un pezzo. Di Malik ovviamente non c'era traccia, e ora a lui sarebbe toccato tornare a casa con i mezzi pubblici. Damiano sembrava stravolto allo stesso modo.

Silvio individuò la fermata dell'autobus e la raggiunse. Non capiva perché l'altro continuasse a seguirlo.

«Beh, vorrei dire che è stato bello, ma...», esordì.

«Idem», replicò Damiano, il volto arrossato per la corsa.

«Tuo padre sarebbe contento di te», non poté evitare di dire. Contro quei due aveva più di un sassolino nella scarpa da cui liberarsi.

«Tua madre di certo lo è di te, a lei non importa che la gente non faccia un cazzo e si sballi dalla mattina alla sera», sibilò Damiano, ripescando dalla memoria uno dei tanti slogan che suo padre amava ripetere.

«A lei non importa neanche se dormo con un uomo».

Damiano contrasse le mascelle. «Che vorresti dire? Guarda che tra noi non è successo niente». Gli andò vicino, si guardò attorno come se qualcuno potesse spiare la loro conversazione. «A me piacciono le ragazze».

Silvio tentò ancora di ricordare gli eventi della scorsa notte, anche questa volta senza successo. «Certo che non è successo niente. Io i ragazzini come te neanche li guardo».

«Bene», sibilò l'altro.

«Spero di non rivederti mai più», disse Silvio. Spostò lo sguardo sul cartellone con gli orari degli autobus, ma Damiano lo prese per un braccio per attirare ancora la sua attenzione.

«Mio padre vincerà le elezioni, e appena mi diplomo vado a studiare all'estero».

Un sorriso ironico increspò le labbra di Silvio. «Sempre se riesci a farti promuovere».

«Tu...», cominciò il suo rivale, ma qualsiasi cosa volesse dire, Silvio non la sentì.

L'autobus era arrivato in quel momento, e lui vi salì con un balzo. «Addio», sillabò attraverso il finestrino, mentre si godeva l'espressione irritata dell'altro.

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