Parte 6
La poltrona di pelle color cognac del ristorante era comoda, soprattutto dopo cinque ore di scuola e altro tempo sul tram. Damiano aveva avuto il tempo di farsi una doccia e cambiarsi prima che suo padre passasse a prenderlo a casa per andare a pranzo fuori.
Riccardo aveva scelto un ristorante con terrazza panoramica che dominava la zona di Porta Nuova e i grattacieli di quel quartiere avveniristico. Dal tavolo per due si scorgevano le acque della piscina sulla terrazza, ingrigite dal temporale, e i palazzi svettanti tra cui Damiano aveva individuato quello che ospitava il loro appartamento di cinque vani. Non riusciva ancora a chiamarla casa. Ci trascorreva la maggior parte del tempo da solo, perché sua madre scendeva spesso a Roma a sbrigare questioni pratiche e suo padre, beh, suo padre non era mai stato molto presente, e con quest'idea di candidarsi a premier la situazione non era migliorata.
I faretti a incasso del soffitto e i lampadari, parallelepipedi dorati, inguantavano l'ambiente di una luce calda. Eppure la sala, benché confortevole, appariva a Damiano dannatamente professionale, come se potesse essere il perfetto teatro di una cena di lavoro, ma non di famiglia. Suo padre gli versò da bere. Acqua minerale, naturalmente. Nonostante i diciotto anni fossero dietro l'angolo, non gli offriva mai del vino.
Il cameriere servì un antipasto di frutti di mare aromatizzai allo zenzero. In cuor suo Damiano languiva per un hamburger.
«So che ti mancano tua madre e i tuoi amici, ma presto riusciremo a creare una nostra routine anche qui», esordì suo padre. «Sai quanto sia importante per me l'idea di una famiglia unita, non potevo lasciarti lì».
«Certo che lo so», replicò Damiano, senza riuscire a nascondere il suo sarcasmo. Affondò il coltello nella carne callosa del pesce. Se ci credi tanto perché non riusciamo a sederci alla stessa tavola meno di tre volte al mese?, avrebbe voluto urlargli, ma soffocò le parole.
Suo padre corrugò la fronte. «Ci credo davvero, ma capisco il tuo nervosismo. Cerco di trasmetterti qualcosa di buono, che vada oltre i video demenziali che guardi sui social. Oggi è sempre più difficile metter su una famiglia come la nostra, una famiglia vera, un padre, una madre e dei figli. Avrei voluto averne di più», disse con rammarico.
Damiano ingoiò un altro commento sarcastico. Non bastava lui a soffrire? Quanti altri sfortunati avrebbe voluto mettere al mondo?
Riccardo si bagnò le labbra con il vino bianco, come se si trovasse a un comizio e dovesse prepararsi a un lungo discorso. Poi continuò: «Famiglia e lavoro, questi sono i valori che cerco di trasmetterti. Di fannulloni ne abbiano anche troppi al giorno d'oggi, dappertutto. Io per diventare imprenditore ho lavorato duro, i giovani di oggi vorrebbero tutto servito su un piatto d'argento».
«Papà», lo interruppe lui, per mettere fine al suo monologo. Non gli venne niente altro di meglio che domandargli: «Sapevi che il figlio di Priscilla vive qui?»
«Sì, fa l'università qui, d'altronde con quei bei voti presi al diploma... Perché, ti ha dato fastidio? Vi siete incontrati?», domandò, le mascelle contratte, come se l'idea lo infastidisse oltremodo.
Damiano scosse la testa. Una piccola parte di lui avrebbe voluto dirgli di sì, solo per vendicarsi di Silvio. Sapeva che suo padre quando ci si metteva poteva rendere la vita impossibile a molti.
«Bene, come lo hai ignorato a Roma lo ignorerai qui». Fece un cenno al cameriere che arrivò a portare via i piatti. Poi un sorriso increspò le sue labbra, ma a Damiano parve più un ghigno. «Anche se non fosse figlio di Priscilla non farei i salti di gioia se lo frequentassi. Tua madre mi direbbe che sono esagerato, lo so. Ma sapessi che mi fanno vedere i miei collaboratori su di lui... mi hanno mostrato il suo profilo Instagram l'altro giorno: amici con i capelli color dell'arcobaleno, lui con i tatuaggi e foto in cui bacia a destra e sinistra altri ragazzi. Io sono per il vivi e lascia vivere, ma certe cose devono essere fatte con discrezione, soprattutto se non sono naturali». Scosse la testa infastidito.
Damiano non sapeva perché, ma gli si era chiuso lo stomaco e, quando arrivarono le linguine, gli era del tutto passata la fame. Voleva a tutti i costi cambiare argomento prima che suo padre gli chiedesse la sua opinione. Gli venne in mente la conversazione che aveva origliato nel bagno della scuola. L'ingegnere civile di cui avevano parlato quei ragazzi doveva essere lo stesso che frequentava spesso la sua casa a Roma, per via dei rapporti di politica e amicizia con suo padre.
«Questo sabato ci sarebbe una festa», gli disse.
Il malumore si dissolse dagli occhi dell'uomo. «Vacci, sì. Visto? Ti avevo detto che ti saresti fatto dei nuovi amici. Qualche ragazza all'orizzonte?»
«Forse», mentì lui, e riuscì persino a sorridere.
Alla festa, in realtà, voleva andarci per combattere la noia e il senso di vuoto che provava ogni volta che fissava lo schermo del suo telefono: notifiche zero. Sperava anche di trovare dell'alcol e, perché no, qualcosa di più pesante per scrollarsi di dosso il senso di oppressione che lo attanagliava. L'eccitazione di fare qualcosa di proibito e la paura di essere scoperto lo attraversavano in egual modo. Non che fosse la prima volta che mentiva a suo padre. Forse era la cosa che tra tutte gli riusciva meglio.
Quando cominciò a prepararsi quel sabato sera, suo padre se ne era già andato, impegnato come al solito con una cena di lavoro. Sua madre, invece, gli aveva già dato la buona notte per telefono, convinta che lui si sarebbe presto infilato sotto le coperte.
Damiano scelse un paio di jeans chiari con qualche strappo, che suo padre tanto odiava, una tshirt e un giubbotto in tessuto. Sperò che un look casual fosse adatto, essere guardato come un intruso era l'ultima cosa che voleva. Avvicinò il volto allo specchio fino a quando il suo alito caldo non si condensò sulla superficie lucida, si passò una mano sul viso. Niente barba. Forse avrebbe dovuto farsela crescere? Lo avrebbero capito gli altri che non aveva ancora diciotto anni? Beh, tecnicamente mancava solo una settimana, quindi non doveva poi fare molta differenza.
Chiamò un taxi, come suo padre gli aveva consigliato di fare. Il motorino lo aveva lasciato a Roma, e i suoi genitori erano stati d'accordo sul non farglielo avere fino a che non avesse ottenuto voti scolastici discreti.
Non appena suo padre lo aveva lasciato solo, Damiano era corso nel suo studio e spulciando la sua agenda aveva facilmente trovato l'indirizzo della villa del suo amico. Poi lo aveva fotografato con il telefono e una volta salito sul taxi lo aveva comunicato all'autista. Più l'auto si avvicinava alla meta, più lui si sentiva come un ladro, come qualcuno che stesse per fare qualcosa di proibito. Spesso si sentiva in quel modo quando osava fare ciò che davvero gli piaceva e che, ironia della sorte, non coincideva mai con quello che la sua famiglia voleva per lui.
L'auto svoltò in una traversa, lunga quanto una via principale, e Damiano si stupì di come spesso i quartieri a Milano potessero racchiudere più anime e volti. Davanti ai suoi occhi sfilarono alte siepi che proteggevano una serie di ville a schiera.
«Mi ripete il numero civico?», domandò l'autista, riscuotendolo dalle sue riflessioni.
Damiano glielo disse, e sentì il cuore accelerare. Erano vicini. L'auto si fermò, e a lui non rimase altro da fare che pagare e scendere. Ebbe la tentazione di richiamare l'auto, di agitare la mano fino a quando il tassista non lo avesse visto e non fosse tornato indietro, ma poi si fece coraggio.
Il cancello della villa era aperto, e da lì si scorgevano tanto le luci del giardino quanto quelle delle stanze che occupavano i due piani dell'edificio.
Damiano si avvicinò al ragazzo davanti al cancello. Lo vide spostare il peso del corpo da un piede all'altro, impaziente, come se non gli piacesse il ruolo di guardiano che gli avevano affibbiato. Damiano fece un respiro profondo. C'era sempre la possibilità di aver sbagliato indirizzo e che i ragazzi avessero cambiato la parola d'ordine. Al diavolo, si disse. Che gli costava provare?
«Che cerchi?», domandò il ragazzo davanti al cancello, una sigaretta tra le dita e un cocktail nell'altra mano.
«La Battaglia di Canne», rispose lui tutto d'un fiato.
Il ragazzo gli fece cenno di entrare, e Damiano non attese oltre. Sentì sul volto il vento fresco di una sera dal cielo limpido, ma umida. Il fruscio degli alberi e il brusio degli invitati accompagnava i suoi passi. Scorse le siepi e gli alberi che schermavano il cancello per offrire agli abitanti della villa la massima riservatezza. Sulla sinistra vi era un gazebo bianco, tra un cespuglio di rose ormai sfiorite e un gruppo di ragazze con bicchieri in mano e la voglia di ballare. Dall'interno della casa proveniva il suono flebile di una canzone dance anni novanta. Meglio del trap di oggi, pensò Damiano.
Si lasciò presto alle spalle il giardino illuminato dai lampioni, la cui luce ondeggiava sullo specchio d'acqua della piscina. Le finestre illuminate lo attiravano come la luce della luna e del sole attirano le falene. Rischiava anche lui di bruciarsi, proprio come le farfalle notturne che scambiano per naturale la luce ingannevole e bruciante delle lampadine.
Varcò la porta-finestra del salone. Nel giardino il suono flebile della musica veniva interrotto da accessi di risate squillanti, all'interno la musica vibrava martellante e copriva il suono delle chiacchiere e della risate. La prima cosa che attirò la sua attenzione furono le pareti color salmone, un paio di anfore antiche su un mobile e i divanetti tappezzati di seta gialla su cui una coppia stava dando spettacolo. Fece alcuni passi in avanti per mescolarsi agli ospiti. Afferrò anche un cocktail, uno dei tanto disseminati sui mobili di pregio della stanza. Gli occhi avidi passarono in rassegna l'ambiente: un gruppetto tentava di accendere il camino di ardesia nera senza successo, più per ubriachezza che per incompetenza, un altro ballava al centro della stanza, a piedi nudi su un tappeto orientale dalle tinte pastello. Damiano immaginava che tra poco si sarebbero scatenati, magari saltando anche sull'altro divano in fondo alla stanza, color rosa cipria.
Nessuno aveva badato a lui, neanche i compagni di liceo che aveva individuato in un angolo, sotto una serie di quadri dalle cornici dorate. Si sentì un intruso, come spesso gli capitava tanto a scuola quanto a casa. Si bagnò le labbra per darsi un po' di coraggio. Il punch sapeva di frutta e tequila, scese rapido nella gola e gli bruciò lo stomaco, mandando in fumo anche un paio di freni inibitori.
Una ragazza gli posò una mano sulla spalla. I capelli, sistemati in una cascata di treccine, incorniciavano un volto regolare illuminato da un paio di occhi allungati.
«Balliamo?», gli domandò lei con un tono allegro.
Damiano si lasciò trasportare, ma quando lei posò le labbra sulla sua guancia e domandò: «Andiamo fuori?», lui l'allontanò. Suo padre non c'era, e non doveva fingere che gli piacessero le ragazze, almeno per quella sera.
Si avvicinò al tavolo, posto sotto un'arcata, su cui faceva bella mostra di sé la caraffa con il punch. Si riempì ancora il bicchiere e notò che da quella postazione poteva vedere meglio gli invitati che affollavano il salone. Puntò gli occhi sui ragazzi. Erano tutti più grandi di lui, qualcuno poteva avere anche venticinque anni. Merda, erano belli, dannatamente belli, e lui avrebbe avuto una gran voglia di toccarli. Avrebbe voluto che qualcuno lo prendesse per mano e lo invitasse a ballare, che gli facesse sentire contro il suo corpo il calore della loro pelle. Scolò il secondo bicchiere. Era sul punto di mescolarsi tra gli altri, per capire se potesse strappare una sigaretta a qualcuno, quando sentì la gola di nuovo secca. Lo riconobbe subito. Riconobbe i riccioli scuri che ondeggiavano a ritmo di musica, la corporatura agile, più muscolosa della sua, che in uno scontro fisico avrebbe potuto avere la meglio. Deglutì a fatica. Ancora lui. Ancora Silvio tra i piedi. Che aveva fatto di male per ritrovateselo ovunque? Persino a Milano?
Non ci pensò neanche e riempì il terzo bicchiere. Non riusciva a staccare gli occhi da quel ragazzo, dal modo in cui ballava con altri ragazzi come lui, dal modo in cui le mani si posavano sui fianchi, le labbra sul volto. Damiano, soprattutto, non riusciva a smettere di guardare il modo in cui sembrava felice, libero.
Scolò il quarto bicchiere e scese in pista, proprio vicino alle anfore antiche, proprio vicino a Silvio.
«Che cazzo...», mormorò Silvio, quando i loro occhi si incrociarono. «Ma che diavolo fai qui?», gli domandò come se fosse rassegnato a espiare una colpa che non gli apparteneva..
«Scusa io...», cominciò lui, poi le parole gli morirono in gola. Non riusciva a parlare con quel paio di occhi piantati addosso che lo stavano fulminando. Non era la prima volta che quelle iridi smeraldo lo guardavano con disprezzo e ironia. Damiano vide un'ombra di stupore dipingersi sul suo viso. Avrebbe voluto andarsene, ma la sorpresa e l'irritazione lo tenevano piantato lì.
«E tu cosa fai qui?», domandò stupidamente.
«Non sono affari tuoi. Io il liceo l'ho finito. Con successo», puntualizzò sarcastico Silvio. «Chissà cosa direbbe tuo padre dei giovani che si ubriacano alle feste. Aspetta, lo disse una volta in un'intervista. Imbecilli, li ha chiamati, no?»
Damiano si morse le labbra. L'unica cosa buona di aver lasciato Roma era la certezza di non vedere più Silvio, e invece... Eccolo lì a ricordargli la politica, i discorsi di suo padre. A ricordargli, soprattutto, il senso di elettricità che gli correva sotto pelle quando pensava a quelli come lui, quelli che avevano deciso di essere liberi, nonostante tutto.
«Quello che dice mio padre lo so meglio di te», sibilò.
«Immagino», replicò Silvio. Il suo sguardo si spostò sul fondo della sala, sui ragazzi più giovani che si erano infiltrati alla festa. «Fai il liceo qui, adesso? Che c'è non vi invitano alle feste e dovete rovinare le nostre?»
«Non sono cazzi tuoi».
«Ecco una cosa su cui ci troviamo d'accordo». Silvio strinse il bicchiere che aveva in mano, già pronto a riempirselo ancora. «Buona fortuna con i tuoi studi», disse, prima di mescolarsi agli altri per raggiungere il tavolo degli alcolici.
Damiano lo seguì. Non per stargli vicino, ma solo perché voleva bere ancora. Lo perse di vista, fu trascinato da un'altra ragazza a ballare, poi riuscì a tornare, dopo un paio di canzoni, alla brocca che conteneva l'agognato punch. Forse avrebbe avuto bisogno anche di fumare qualcosa, giusto per dimenticare l'umiliazione che gli era stata inflitta.
«Scusa», sgomitò.
Silvio lo fulminò con lo sguardo, aveva fatto cadere del punch sulla tavola. Damiano gli era abbastanza vicino da guardare bene le iridi color smeraldo che non si erano mai piegate davanti a lui, sempre sfrontate e fiere. E lui lo invidiava per questo. Lo ammirava anche.
«Se non mi sopporti vattene», gli disse.
Silvio gli sbuffò in faccia, e Damiano sentì l'odore dell'alcol. Era sicuro che insieme avessero consumato più bicchieri di quanto fosse lecito per mantenersi sobri.
«Col cavolo che me ne vado, l'universitario qui sono io», replicò Silvio, avvicinandosi.
Si muovevano entrambi al ritmo di musica, scoordinati, ma vicini. Damiano sentì il calore del corpo di Silvio. Avrebbe dovuto allontanarlo, e forse se Silvio fosse stato sobrio l'avrebbe fatto lui stesso. Continuarono a muoversi, i bicchieri vuoti tra le mani. Silvio afferrò quello di Damiano e nel farlo sforò le sue dita. Lo posò su un mobile alle loro spalle.
«Non voglio rischiare che tu me lo rompa in testa», disse.
Damiano si guardò attorno. Dov'erano i suoi compagni di liceo? Avrebbero potuto vederlo? Ma era stanco e troppo ubriaco per continuare a mantenere la sua recita. Le luci si spensero.
«Che succede?», gridò uno degli invitati.
«Momento romantico», gridò un altro, «usate i telefoni».
Qualcuno protestò, altri, invece, accesero i cellulari, che come piccole lucciole inondarono la stanza.
«Chi ha inventato il romanticismo?», bofonchiò Silvio, contrariato.
Damiano si morse le labbra. Quello era il momento di fare ciò che segretamente desiderava. Afferrò Silvio per una mano, e quello non si sottrasse. Ballarono vicini, una canzone dalle note più lente si diffuse nella stanza. Damiano sentì il cuore galoppare nel petto, un vuoto allo stomaco, diverso da quelli che lo attanagliavano quando fingeva con gli altri e doveva sopportare i discorsi di suo padre. Avvicinò la fronte a quella di Silvio fino a sfiorarla. In quel momento non gli importava più di nulla, non gli importava che Silvio avrebbe potuto ridere di lui né che l'indomani avrebbe potuto raccontarlo a tutti, magari con una bella storia su Instagram. Era l'alcol che guidava i suoi movimenti, insieme alla fame che lo divorava. Posò la mano sul petto di Silvio, sentì che anche il suo cuore correva veloce.
Quando Silvio lo attrasse a sé con una spinta decisa e una mano affondata nella sua schiena, sussultò. Sentì il fiato di Silvio sulla sua guancia, poi lo sentì muoversi lentamente vicino all'angolo delle labbra, poi avvenne. Le loro bocche si incontrarono. Sapevano entrambi di alcol e frutta.
Damiano aveva baciato in passato. Aveva baciato le ragazze a Ibiza e a Roma davanti a Fabio e agli altri suoi amici. Non aveva mai avvertito la sensazione che adesso si stava infilando sotto la sua pelle, centimetro dopo centimetro. Il cuore non gli si era mai gonfiato in quel modo né lo stomaco si era attorcigliato su se stesso, togliendogli il fiato. Infilò, timidamente, le mani sotto la maglietta di Silvio, e quello glielo lasciò fare. La pelle gli parve bollente. Schiuse le sue labbra e inclinò la testa per permettere all'altro di avere un migliore accesso. Silvio non si fece pregare. Approfondì il bacio, lo esplorò con la lingua, fino a fargli sentire le ginocchia deboli. Poi, all'improvviso, quando ancora le note della canzone vibravano insieme al suo cuore, non sentì più le labbra dell'altro sulle sue. Era tutto finito. Si preparò ad affrontare una battuta pungente, lo scherno che si meritava almeno in parte per aver fatto lo stronzo durante gli ultimi anni di liceo. Ma tutto quello che sentì furono ancora le labbra morbide di Silvio posarsi sulla sua guancia, poi risalire fino al lobo dell'orecchio.
«Andiamo a fumarci qualcosa?», domandò Silvio.
«In giardino?», replicò lui deluso.
«Di sopra».
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