Parte 5
Damiano mordicchiò il tappo della penna blu. L'inchiostro stava finendo e gli ultimi scarabocchi sul suo quaderno non erano che segni sbiaditi. La professoressa di Italiano, una donna sulla cinquantina dall'aspetto giovanile, continuava a sorridergli. Credeva, in questo modo, di incoraggiarlo ad aprirsi e di farlo sentire accettato dall'intera classe e dal corpo docente. Se solo avesse saputo che in quel momento Damiano stava disegnando la caricatura del suo volto...
«L'estetica di Gabriele D'Annunzio», aveva esordito la professoressa, poi aveva continuato, ma Damiano non l'aveva più ascoltata.
Fingeva di prendere appunti, ma in realtà rivolgeva occhiate furtive alla finestra, alle chiome dei pini smosse dal vento fresco di settembre, al suo compagno di banco, cercando di cogliere uno sguardo complice. Niente. Il ragazzo che gli sedeva affianco era assorbito dalla spiegazione o forse fingeva.
Con un moto di rabbia impercettibile, Damiano affondò ancora i denti nel tappo di plastica. Odiava che suo padre lo avesse obbligato a seguirlo a Milano e che sua madre non si fosse opposta. Odiava aver cambiato scuola, casa, compagni, e la sua rabbia non lo aiutava a concentrarsi e a raggiungere i risultati che suo padre si aspettava da lui. I prossimi mesi si annunciavano come un incubo. Gli si strinse lo stomaco al pensiero che lui stesso aveva contribuito a rendere uno schifo i giorni di scuola dei suoi ex compagni del liceo romano. Poi ricacciò indietro il senso di colpa da dove era venuto. Non era facile per nessuno, neanche per lui, nonostante quello che gli altri pensassero.
«La metrica delle sue poesie...», continuò la professoressa, e a Damiano parve un insopportabile cicaleccio.
Rischiava di esplodere. Si alzò con troppa foga, a giudicare dagli sguardi perplessi che si era guadagnato e dallo stridio che la sedia aveva prodotto a causa del suo movimento brusco.
«Ci sono problemi?», domandò la professoressa senza perdere il suo tono amichevole.
«Ho bisogno del bagno», pregò lui. La donna gli fece un senso di assenso, e Damiano ne approfittò per uscire dalla classe.
Nel corridoio gli parve di non poter respirare. I muri erano dipinti di bianco fino all'altezza delle porte, poi il bianco – diventato sporco nel corso degli anni – lasciava spazio al color tortora. Non c'erano versi di poesie appesi alle pareti come nel suo vecchio liceo, c'erano solo lunghi corridoi, armadietti e bacheche di cui lui non si era curato di studiare il contenuto. I suoi passi rimbombarono. A quell'ora non erano molti quelli che ottenevano il permesso di andare in bagno, l'evasione di massa dalle classi si verificava a metà mattina, e mancava ancora un po'.
Damiano entrò in bagno e si rifugiò in un cubicolo. Non gli importava di sentire l'odore di urina, che sembrava sempre aleggiare nei bagni nonostante lo sforzo di pulirli, né di quello altrettanto persistente della nicotina. Avrei bisogno di una canna, pensò, ma l'idea che l'odore gli rimanesse addosso e che suo padre lo scoprisse lo atterriva. Suo padre avrebbe dato di matto, ne era sicuro. Aveva già scontato la sua punizione con questo trasferimento. Tra un po' compiva diciotto anni, e suo padre gli aveva rovinato la festa del diciottesimo con la sua bella trovata. Sua madre aveva cercato di consolarlo, gli aveva detto che avrebbero organizzato una festa nel fine settimana in modo tale da farla a Roma e invitare i suoi vecchi compagni. Damiano ci credeva poco. La rabbia tornò ad accendere la sua pelle.
Cercò freneticamente la sigaretta nella tasca dei jeans e l'accendino. Quando li trovò si accorse che la mano gli tremava. La sigaretta riuscì ad accenderla solo dopo tre tentativi, ma almeno alla prima boccata di fumo gli parve di tornare a respirare. Aspirò avidamente le boccate successive, si perse a osservare le volute di fumo risalire e poi rimanere sospese, come se l'aria in quel cubicolo fosse troppo densa.
Di solito a Roma fumava sempre in compagnia. Rimpiangeva i vecchi compagni, il senso di sicurezza che gli dava far parte di qualcosa, di un microcosmo che aveva le sue regole. Lui le seguiva, anche se non le condivideva tutte. Le seguiva perché non voleva sentirsi diverso, perché non sapeva neanche lui bene chi era e da cosa dovesse difendersi.
Udì un cigolio. Trattenne il fiato, ma poi realizzò che erano altri ragazzi. Inspirò l'ultima boccata di fumo e poi buttò la sigaretta nel water, osservò il puntino rosso spegnersi. Rimase in attesa, l'orecchio teso. Aspettava che gli altri facessero quello che dovevano e se ne andassero. Non aveva voglia di incrociarli né di fare amicizia.
«Lo avete visto quello nuovo?», domandò uno dei ragazzi. Damiano non riconobbe la voce, forse faceva parte di un'altra sezione.
«Mi sembra un asociale», rispose un altro.
«Non parlare così, lo sai di chi è figlio? E se le pareti avessero orecchie?», scherzò il suo amico.
Damiano odiò le loro risate. Per un momento vagheggiò di uscire dal cubicolo e godersi le loro facce imbarazzate, ma ci rinunciò.
«Comunque quello piace a mia sorella, quindi potrei ritrovarmelo pure in famiglia».
«Che sfiga».
Damiano alzò gli occhi al cielo. Suo padre già gli aveva chiesto se il suo fascino avesse colpito nel nuovo istituto, con quel sorriso che gli arricciava il viso tondo e che secondo lui doveva ispirare simpatia. Damiano lo odiava. Posò la mano sulla porta, perché si era stancato di rimanere là impalato. La professoressa presto avrebbe mandato qualcuno a cercarlo. Si era accorto di ricevere un'attenzione particolare: chi votava per suo padre lo aveva preso in simpatia, chi votava per Priscilla lo guardava con sospetto. Il risultato non cambiava: nessuno si interessava a lui per quello che era.
«Che ci frega», disse ancora uno dei ragazzi, «non vedo l'ora che sia sabato, quella stronza di matematica mi dà il tormento».
«Mica ci fai arrivare fino lì per poi farci cacciare?», domandò un altro.
Una risata riecheggiò nel bagno. «Mi ringrazierai per la vita. Conosco uno della facoltà di Ingegneria. Ha organizzato una festa nella villa di suo padre, quello famoso, quell'ingegnere civile che è uscito spesso in televisione. La festa è solo per gli universitari, ma te lo immagini quante ragazze? Oh, comunque noi siamo maggiorenni, che cazzo ci andiamo a fare alle feste dei poppanti? Il mio amico mi ha detto che per entrare ci vuole la parola d'ordine, e per vostra fortuna io la so».
«Sarebbe?»
«La battaglia di Canne».
Damiano udì ancora una risata, poi lo scroscio dell'acqua e finalmente lo scalpiccio di passi che si allontanava. Idioti, pensò, quando anche lui uscì dal bagno.
Tornò in classe e riprese a seguire le lezioni, stampandosi in faccia l'espressione più concentrata di cui era capace, la stessa che usava quando suo padre gli parlava dei grandi progetti che aveva per lui e per il paese. Soltanto quando suonò l'ultima campanella riuscì a liberarsi del peso che l'opprimeva.
Si fece strada tra la calca di chi agognava la libertà, proprio come lui. Scese in fretta i gradini, oltrepassò il portone, ma ebbe una brutta sorpresa. Le nuvole si erano addensate e scurite. Temporale in arrivo, e lui non aveva neanche l'ombrello. Ovviamente.
Fece alcuni passi fino a fermarsi sotto un balcone. Ne approfittò per controllare il telefono. Niente messaggi dai suoi amici. Controllò Instagram. Fabio, suo compagno di scorribande romane, si riprendeva mentre entrava in classe e rimpiangeva Ibiza. Anche Damiano rimpiangeva l'isola, il mare, il sole, i locali. Tra i ricordi, però, si faceva strada il senso di inadeguatezza, la recita che metteva in piedi per fingere di essere come Fabio, come gli altri. Continuò a scorrere la sua timeline e nel frattempo prese a camminare, rassegnato a raggiungere la fermata del tram a piedi e sotto la pioggia. Nessuno dei suoi amici lo aveva taggato. Lui continuava a cercare un messaggio qualsiasi, ma niente. Non badava al rumore del traffico che si faceva più intenso man mano che si avvicinava alla strada principale.
Il suono di una brusca frenata e di un clacson, che sembrò perforargli i timpani, lo riscosse. Sollevò gli occhi dallo schermo. Come un idiota era sceso dal marciapiede senza rendersene conto. L'autista allungò il braccio fuori dal finestrino e alzò il dito medio in un gesto inequivocabile.
«Fanculo», mormorò tra i denti Damiano. Risalì in fretta sul marciapiede, mise in tasca il telefono, il cui silenzio era la prova dei rapporti superficiali che aveva stretto con i suoi compagni. Fu scosso da un brivido. Si passò una mano tra i capelli. Fradici. Vaffanculo, pensò ancora. Poi trovò riparo sotto un balcone, mentre sentiva i pantaloni e le scarpe inzuppate di acqua e fango.
Lo sguardo si spostò sul traffico, sulle auto, sulla fermata della metro che sembrava troppo lontana, sui motorini che facevano slalom tra le auto. Strinse gli occhi.
Non è possibile, pensò, mentre gli occhi si incatenavano a un motorino che conosceva bene. Lo aveva visto tante volte davanti al liceo e alla pizzeria di Cesare a Roma. Ricordava la sfumatura di verde oliva della carrozzeria, il casco decorato con un personaggio di un anime che lui non conosceva. Chi sceglieva colori del genere? Poteva essere solo Silvio.
Lo seguì con gli occhi fino a quando non venne risucchiato da una traversa. Strinse i pugni. Non lo sopportava. Non sopportava il suo modo di fare, la sua sicurezza. Tutto di lui lo irritava. O forse no. Forse irritare non era la parola esatta, ma lui non aveva ancora il coraggio di cercare quella giusta.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top