Parte 4

Le voci degli ospiti del talk show si accavallarono. Silvio non ne poteva più di quel brusio. Seduto sul divano del bilocale che aveva affittato con Malik, il libro sulle ginocchia, tentava almeno da un quarto d'ora di farsi entrare in testa i concetti di Informatica, il primo degli esami del suo piano di studio, senza risultato. Sarebbe stato meglio andare in camera sua, ma il divano era comodo e il salottino si affacciava su un giardinetto che lo rendeva più fresco. Nonostante fosse metà settembre, l'aria era ancora abbastanza calda da rendergli insopportabile studiare chiuso nella sua stanza.

«Non puoi spegnerlo?», domandò a Malik, che se ne stava semi sdraiato sull'altra estremità del divano.

«Che bona tua madre», disse lui per tutta risposta, lo sguardo fisso su Priscilla, che, vestita in un teilleur color carta da zucchero, contraeva le mascelle per non farsi scappare qualche parola inopportuna.

Silvio lo fulminò con lo sguardo, e il suo amico si decise a spegnere la TV.

«Scusa, scusa, ma è la verità».

Silvio sbuffò, poi tentò di rileggere per l'ennesima volta l'ultimo paragrafo. Sentì il piede di Malik affondare nel suo fianco. «Che vuoi?»

«Tua madre è una tosta, e aveva ragione lei prima: in questo paese si creano polemiche inutili su ogni cosa ogni santo giorno per non affrontare i problemi più seri».

«Non so come faccia a rimanere calma quando partecipa a quei programmi. A me quel Riccardo fa venir voglia di spaccare lo schermo, e invece lei lo ascolta, attenta, e cerca pure di rispondergli razionalmente».

«Sei preoccupato?»

«Un po', beh posso ancora sperare che la sua nomina a candidata premier non venga mai ufficializzata. Figurati, tu ricordi l'ultima volta che una donna è stata candidata per uno dei maggiori partiti del paese?»

Vide Malik scuotere la testa. C'era altro che avrebbe voluto dirgli, ma parlare dei suoi timori ad alta voce significava farli diventare più reali. Per lui era sempre stato così: le parole lo affascinavano, non erano solo suoni che si portava via il vento, erano pesanti, diamanti o macigni, erano la dichiarazione di una realtà da cui non si poteva più sfuggire. Aveva paura di dire che temeva la scelta di sua madre, di vederla così esposta agli avversari politici e ai loro seguaci più beceri. Priscilla lo aveva cresciuto da sola, suo padre si era volatilizzato dopo il primo anno, e Silvio non lo ricordava neanche. Lo aveva rivisto nel corso degli anni, ma per lui non era più stato suo padre. Lui e Priscilla, invece, erano una squadra. Era sicuro del suo amore, tanto che quando le aveva detto di essere gay, non aveva avuto paura di una sua reazione scomposta neanche per un secondo. Non aveva mai provato con lei l'ansia e la fatica che lo opprimevano quando doveva dirlo ancora e ancora a chi non lo conosceva. A proposito, sono gay, diceva, e aspettava la reazione.

«Vorrei che avesse continuato a fare l'avvocato», si lasciò sfuggire.

«Può dare una mano a sistemare le cose, invece». Malik si alzò e si diresse verso il frigo per prendere una bibita fresca.

Silvio lo seguì con lo sguardo. Dal divano si vedeva la cucina, il tavolo bianco, le sedie gialle, i primi piatti sporchi nel lavello che nessuno dei due aveva avuto voglia di lavare.

«La fai facile», mormorò tra sé e sé. Era orgoglioso di sua madre, ma anche preoccupato delle conseguenze delle sue scelte sulla vita di entrambi. A Mykonos, ad esempio, era stato attento a non postare su Instagram le foto che documentavano le sue notti di divertimento, perché aveva capito presto come funzionava la macchina del fango e la pretestuosità della stampa e dei partiti politici avversari. Era già abbastanza dover leggere gli sporadici commenti omofobi di chi si fermava sul suo profilo per sputare odio e sentenze. Qualcosa gli diceva che se sua madre si fosse candidata ufficialmente quei commenti sarebbero aumentati. Gli sarebbe toccato chiudere Instagram, e non per fare il superficiale, ma qualche volta era più efficace di Grindr per rimorchiare.

«Ehi», Malik richiamò la sua attenzione.

Silvio fece appena in tempo ad afferrare la bottiglietta gelata che il suo amico gli aveva lanciato. «Sei scemo?»

«Basta farti le paranoie. Pensiamo piuttosto alla festa che ci aspetta questo fine settimana», disse Malik, e con un balzo si sistemò sul bracciolo del divano. Silvio vide nei suoi occhi la stessa eccitazione che lo aveva pervaso quando solo due mesi prima avevano organizzato il viaggio dopo gli esami di Maturità.

«Non dovresti studiare?»

Un sorriso malizioso increspò le labbra dell'altro. «Non nei week-end. Sarà una festa epica». Avvicinò la sua bottiglia a quella di Silvio e con un sonoro tintinnio sancì la fine di ogni discorso serio.

Il mattino dopo Silvio fu svegliato dal suo telefono. Ancora assonnato aprì i messaggi.

Mamma: Sono a Milano per lavoro. Hai tempo per una pausa pranzo con me? Devo parlarti.

Silvio: Ok.

Mamma: Non scordarti di scrivermi l'indirizzo. A presto.

Lui aggiunse un'emoji, e invece di rigirarsi nel letto decise di alzarsi e prepararsi per l'ultimo giorno di lezioni della settimana. Alla Bicocca ci arrivava a piedi, per mangiare sceglieva i punti di ristoro convenzionati e poi si portava il pranzo nel quartiere universitario. Gli piaceva sedersi vicino alla fontane, osservare il via vai dei colleghi carichi di libri e speranze che sfilava sotto i suoi occhi. Qualche volta ordinava un trancio di pizza e gli sembrava per un momento di essere tornato a Roma, al liceo soffocante, alle risatine dei compagni, ma anche alle strade su cui si affacciavano pezzi di storia e di vita, alle pietre che sembravano parlare, piangere e ridere, al bianco luminoso dei monumenti immersi nella luce abbacinante che Milano non avrebbe mai avuto.

Scrisse a sua madre l'indirizzo dove si sarebbero incontrati. Era un locale che vendeva kebab poco lontano dall'edificio della sua facoltà. Era nervoso, proprio perché già sospettava cosa sua madre gli avrebbe detto. La vide arrivare, il passo leggero, il fisico flessuoso ed esile. Indossava una tuta da ginnastica e un paio di sneaker. Bisognava scrutarla da vicino per capire che non era una delle tante studentesse in cerca di un ristorante.

«Davvero? Kebab?», gli domandò, sollevandosi gli occhiali da sole sulla testa.

«Hai detto tu che volevi un posto tranquillo, dove vendono la pizza è un casino».

Lei lo scrutò. «Spero che tu non stia mangiando tutti i giorni pizza, kebab e tramezzini».

Silvio sollevò la mano poi si baciò il dito indice. «Giuro di no».

La risata di sua madre esplose cristallina. «Entriamo», lo incoraggiò, mentre gli passava una mano sulla schiena.

Presero posto a un tavolo appartato dalle sedie rosse. Il profumo della carne solleticava l'appetito di entrambi. Silvio notò che sua madre si era fatta seria, e che il cielo al di fuori del locale si era scurito. «Spara», le disse. Voleva mettere fine alla tensione che lo aveva attanagliato negli ultimi giorni.

«È ufficiale: sono la nuova candidata premier della coalizione di centro-sinistra per le elezioni di marzo».

Tra loro calò il silenzio. Il cameriere portò le ordinazioni, ma nessuno dei due si decideva a mangiare.

«Allora?», domandò sua madre impaziente.

«Non sono sorpreso», si morse le labbra, «sei sicura, ma'?»

Priscilla allungò una mano sul tavolo per stringere quella di suo figlio. Il contatto durò qualche secondo, poi lui, imbarazzato, si ritrasse. Non voleva spegnere il suo entusiasmo, ma le preoccupazioni che lo avevano assillato negli ultimi tempi lo invasero nuovamente. Ripensò a certi titoli di giornale, a certi commenti sui social, alla faccia tronfia di Riccardo, l'avversario di sua madre. Non c'era da stupirsi che con un padre così Damiano fosse cresciuto come un idiota. Scacciò via il pensiero di lui. Era passato, tutto passato, si ripeteva. Se solo sua madre non si fosse messa in testa di salvare il mondo...

«So come la pensi», lo riscosse lei. «Ci vedremo poco, sarò esposta a molte critiche e di conseguenza lo sarai anche tu».

«Non è per me che sono preoccupato», la interruppe lui.

«Sarebbe normale che lo fossi, non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi».

«Non mi piace la politica, mamma. So che vuoi dare il tuo contributo a questa "bella" società, ma potevi farlo anche come avvocato. Tutte quelle cause pro bono non erano abbastanza?»

Priscilla si morse le labbra. I nonni di Silvio, che aveva lasciato in Puglia, le avevano fatto lo stesso discorso. Avevano anche tentato di dissuaderla dall'intraprendere la relazione con il padre di Silvio, ma lei non li aveva ascoltati. «Ci credo davvero nella possibilità di creare un paese migliore. I dati sul lavoro nero e lo sfruttamento mi stringono il cuore, e quelli sulle discriminazioni...»

Silvio si irrigidì. «No, mamma. Se è per me che lo fai, non devi. Io me la cavo, e se questo paese diventa una merda contro quelli come me, me ne vado».

«E quelli che non possono andarsene?», lo spiazzò lei. Aveva ragione.

Silvio la vide portarsi alle labbra il bicchiere di acqua minerale.

«Lo so che in teoria questa cosa riguarda solo me, ma non sono tanto stupida da non capire che sarai coinvolto anche tu in qualche modo. Tuttavia, il tuo appoggio per me è fondamentale».

Questa volta fu Silvio ad allungare la mano sul tavolo per incontrare le sue dita. «Ce l'hai, sempre. Solo... sarai prudente?»

«Certo. Ho una schiera di assistenti che si occupa di me. Tu non devi far altro che studiare e divertirti».

«Sulla seconda cosa posso darti la mia parola».

«Silvio!», lo riprese lei con aria fintamente scandalizzata.

Finirono di mangiare in fretta. Le lezioni stavano per ricominciare e c'era un treno che aspettava Priscilla pronto a partire tra un'ora. Silvio era orgoglioso di lei. L'amava e l'ammirava, eppure da qualche parte dentro di sé credeva che sarebbe stato tutto inutile. Sei un'illusa, pensava. Sei un'illusa, perché questo paese non cambierà mai, è come un treno a vapore che arranca sui binari, mentre accanto sfrecciano rapidi i bolidi ad alta velocità.

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