Parte 13
Silvio consegnò il giubbotto al guardaroba, con aria distratta. Nelle mani si rigirava il telefono, tentato di inviare a Rigel un altro messaggio. Sentì Malik, dietro di lui, spingerlo.
«Vorrei ballare, e non stare qui impalato. Nel caso non l'avessi notato stiamo impallando la fila per il guardaroba», gli disse il suo amico.
Lui gli rivolse un'occhiataccia, ma cominciò a camminare per avvicinarsi al bancone del bar. La musica aveva fatto venire voglia di ballare anche a lui, come già stava facendo chi si era riversato davanti al dj, ad agitare le braccia sulle note delle sue canzoni mixate.
Quel gay bar era uno dei primi che lui e Malik avevano visitato. Era stato consigliato a entrambi da un collega di università, e doveva ammettere che lo preferiva ad altri. Gli piaceva che non fosse mai troppo affollato, che il dj alternasse hit più moderne a pezzi classici, gli piacevano i drink, e, soprattutto, i bei ragazzi che lo frequentavano.
«La pianti di controllare il telefono? Sembra che tu sia fidanzato», lo riscosse il suo amico.
Silvio lo mise in tasca. «È che non capisco, questo Rigel sembra simpatico, ma dopo la buca della scorsa volta non mi ha più chiesto di uscire. Credo che dovrebbe farlo lui, no?»
«E io credo che hai preso quest'app troppo sul serio. Non devi usarla per fare conversazione, ma per concludere. Il tizio ti vuole vedere? Ok, lo vedi, Non ti vuole vedere? Lo pianti e passi al prossimo. Scrolla, scrolla».
«Tu sei sempre il solito, a me piace parlarci prima con le persone, anche se poi magari non dura».
Malik gli si avvicinò, gli disse all'orecchio: «Beh, forse il tizio con cui parli adesso è impegnato o è una donna».
«Ho visto le foto del suo corpo e ti assicuro che è uomo, e bello anche».
«Non hai visto la faccia, le foto potrebbe averle rubate». Malik accennò a un passo di danza. «Perché poi ne stiamo parlando adesso? Guarda quanti bei ragazzi qui». Ammiccò.
Silvio scoppiò a ridere. «Hai ragione tu. Divertiamoci, dai. Drink?»
Malik fece una giravolta. «Per me il solito».
Si diressero verso il bancone bar. Le luci colorate accarezzavano gli specchi alle pareti, creando prismi di luce che si muovevano al ritmo della musica. Silvio amava quel mondo di colori, quell'antro di libertà nascosto in un vicolo di una trafficata strada milanese, dove sapeva di poter essere se stesso, dove si sentiva al sicuro.
Non vedeva l'ora di perdersi nella musica con un drink tra le mani, di dimenticare la lezione di Filosofia della politica, di cui aveva capito poco, i titoli di giornale su sua madre, qualche volta lusinghieri altre volte al veleno. Si intrufolò tra la folla di chi si stava accalcando al bar. Davanti a lui, stava impalato un ragazzo con un giubbotto di jeans che non si decideva a ordinare. Il barista urlò: «Allora?», ma quello inclinò appena la testa, come se cercasse il nome di un cocktail che si rifiutava di lasciare la punta della sua lingua.
Malik era dietro di lui. «Che palle», sussurrò al suo orecchio.
Silvio toccò la spalla del ragazzo con il giubbotto di jeans. «Allora che aspetti? Vuoi ordinare?»
«Scusa, io...», cominciò quello, mentre si voltava.
Silvio non poteva credere ai suoi occhi. Davanti a lui con l'espressione più innocente che avesse mai visto, stava Damiano. La sorpresa venne presto sostituita da un fiotto di rabbia. Con che coraggio Damiano stava lì, con i suoi occhi azzurri, i suoi capelli biondi, i suoi vestiti sempre alla moda, quando non gli aveva mai risparmiato battute sul suo orientamento sessuale? Sentì le tempie pulsare e non riuscì a trattenersi: «Sempre così voi omofobi repressi». Gli piantò gli occhi addosso.
Quelli verdi di Damiano divennero lucidi. «Io... scusa», disse, e scappò via, sgomitando tra la folla che protestava. Silvio si sentì in colpa, sua madre non sarebbe stata contenta di lui in quel momento, ma durò un attimo. Gli bastò ripensare a quanto odiosi fossero Damiano e suo padre.
«Se questa scena l'avessi letta in un libro, avrei riso», disse Malik.
Silvio si voltò verso di lui. «Ma?», domandò ancora irritato.
«Ci sei andato giù pesante».
«A te non dà fastidio il modo in cui si comporta?»
«Sì, però, magari con un padre come il suo fingerei anche io». Malik gli passò avanti. «Ordino io, tu vai a smaltire la rabbia, se non non ci divertiamo».
Silvio lasciò campo libero al suo amico, si avvicinò alla pista da ballo e provò ad abbandonarsi alla musica, ma l'irritazione correva ancora tra le sue vene, così come le parole di Malik rimbombavano nella sua testa. Non aveva mai pensato che Damiano fosse qualcosa di diverso dal ragazzo etero e prepotente che conosceva né che potesse fingere per compiacere suo padre. Capì che lì dentro non sarebbe riuscito a calmarsi. In mancanza di un drink aveva bisogno di una sigaretta.
Si fece strada tra chi ballava, al guardaroba si guadagnò un'occhiata perplessa del buttafuori. Senza giubbotto l'aria fredda di inizio ottobre colpiva la pelle lasciata scoperta dalla maglietta a mezze maniche. Avrebbe dovuto indossarne una a maniche lunghe, ma per qualche ragione a lui sconosciuta il suo cervello ancora si rifiutava di capire che non viveva più a Roma.
Si lasciò alle spalle l'eco della musica e il chiacchiericcio di quei pochi che ancora facevano la fila per entrare. All'ingresso del vicolo, con la schiena contro la parete ricoperta di rampicanti lo vide. Damiano stava lì con gli occhi bassi, le mani in tasca, il petto che si sollevava e abbassava affannoso. Gli si strinse il cuore e si diede dello stupido. Qualunque fosse il problema di Damiano non erano affari suoi, ma non riuscì a tornare indietro o a ignorarlo.
Gli si avvicinò, ma l'altro non sollevò lo sguardo.
«Sigaretta?», gli domandò Silvio.
Lo vide mordersi le labbra, gli occhi ancora fissi sulle prime foglie ingiallite che ammantavano il vicolo.
«Tenterai di rollarla come quella notte alla villa per poi fallire miseramente?»
«Che ti ricordi della villa?»
Damiano si fece rosso, di scattò sollevò la testa e incrociò i suoi occhi. «Niente, quello che ricordi tu. Dovevamo fumare, ma poi hai tirato fuori il tabacco e lo hai fatto cadere sul letto, non trovavi più le cartine. Un disastro».
Silvio non capì perché Damiano lo stesse guardando in quel modo come se lo pregasse di fare qualcosa. Di credere alla sua storia? Di lasciarlo in pace? Non seppe dirlo. Sapeva però che quel paio di occhi acquamarina che adesso lo fissavano erano velati di malinconia, forse per colpa sua.
«Ascolta», cominciò, ma l'altro lo interruppe.
«Lo dirai a qualcuno?», domandò Damiano. Aveva indurito i tratti del volto, ma la voce tremante lo aveva tradito.
«Non siamo tutti delle merde».
«Come me, vuoi dire?»
Silvio odiò il senso di colpa che lo aveva assalito. Merda, non era colpa sua, e aveva tutto il diritto di essere arrabbiato. «Non so cosa vorresti sentirti dire. Forse sei abituato a chi ti dà sempre ragione».
Un lampo di rabbia illuminò gli occhi di Damiano. «Pensi che mio padre mi dia sempre ragione? Che volessi seguirlo qui a Milano? Che abbia avuto il suo permesso per venire qui stasera?», gli sputò in faccia, avvicinandosi a lui.
«Questo dovrebbe giustificarti?»
Damiano scosse le spalle, e si afflosciò ancora contro il muro, come se lo scoppio di rabbia lo avesse lasciato svuotato. «No. Io e te non ci piacciamo. I nostri genitori sono rivali. Tu sei tutto quello che io non ho il coraggio di essere. Contento così?»
«Grazie per l'onestà», disse Silvio, stupito. Quella serata lo stava confondendo. Si trovava di fronte un ragazzo diverso da quello che pensava di conoscere. «Sei gay, quindi?»
Damiano lo fulminò con lo sguardo. «Come hai fatto a diplomarti con il massimo dei voti? Non sei tanto sveglio».
«Vaffanculo», replicò lui, ma un sorriso increspò le sue labbra.
«O tua madre ti ha raccomandato?», lo incalzò Damiano.
«Finiscila. La vuoi la sigaretta?»
Damiano annuì. Silvio tirò fuori dalla tasca il tabacco e le cartine. «Stendi una mano, così preparo il tabacco, anche se credo verrà una schifezza».
Damiano fece come gli era stato detto. Silvio era concentrato sul tabacco, e non si accorse dello sguardo dell'altro che studiava il suo volto.
«Sta' fermo», lo ammonì Silvio. Sistemò il tabacco, prima dandogli una forma allungata e poi mettendolo nella cartina. Preparò due sigarette. Damiano socchiuse le labbra, e Silvio non poté fare a meno di guardare il modo in cui si piegavano, il punto in cui il colore rosato sfumava agli angoli della bocca. Sistemò la sigaretta tra le sue labbra e poi usò l'accendino.
Fumarono in silenzio, studiandosi, mentre le volute di fumo si mescolavano nell'aria umida, perdendosi nel vento che se le portava via, insieme all'eco della musica.
«Rientri?», gli domandò Silvio a un certo punto.
Damiano scosse la testa. «Era la prima volta che venivo qui».
«In questo locale o in generale in un locale gay?»
Damiano lo guardò ancora come se gli avesse fatto una domanda stupida, e lui non poté fare a meno di scoppiare a ridere.
«Tu devi andare, vero?», gli domandò Damiano, gli occhi delusi. Dietro la maschera del ragazzo prepotente, se si guardava meglio, non era difficile scorgere la sua vulnerabilità.
«Il mio amico mi aspetta», disse Silvio, nonostante una parte di lui volesse rimanere lì. A fare cosa poi? A osservare il modo in cui Damiano si portava la sigaretta alla bocca e il modo in cui le dita dell'altra mano tormentavano i bottoni del giubbotto? A sentire il suo profumo che sapeva di fresco? «Se vuoi parlare un po' di questo», indicò vagamente il locale, «possiamo farlo».
Damiano corrugò la fronte. «Davvero?»
Silvio annuì. Si scambiarono i numeri di telefono. Poi Silvio lo vide buttare la sigaretta sull'asfalto, schiacciarla con la suola delle sue sneaker e voltargli le spalle. Forse Damiano non lo avrebbe mai richiamato. Forse sarebbe stato meglio.
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