90. Gelosia? (1/2)
I ritmi d'ufficio si erano rivelati più frenetici del previsto. Per la prima volta facevo i conti con il vero mondo del lavoro e lo consideravo una sfida tremendamente eccitante. Scadenze perentorie da rispettare, opportunità di mercato da vagliare e l'uso di protocolli innovativi per rispondere alle nuove esigenze di mercato.
Avvertivo il fremito e l'esuberanza del mio ego, venir placato dal mio senso di responsabilità, mentre revisionavo alcuni conti come un automa. Sottolineavo i passaggi delle transizioni, le leggi per gli accordi di commercio e qualsiasi cosa rilevassi importante ripetendo quell'operazione all'infinito finché non decisi di meritare una pausa.
Posai la matita sulla scrivania levando gli occhi stanchi verso l'alto. Fu solo allora, notificando l'assenza dei miei compagni, che mi resi conto di aver passato i tre quarti della pausa pranzo con il naso fra i libri contabili.
Saltai in aria raccogliendo i miei averi. Non potevo perdere un secondo di più: sarei passata dalla tavola calda dietro l'angolo per ordinare un panino al volo. Corsi trafilata nella lobby di attesa premendo freneticamente il pulsante di chiamata dell'ascensore.
«Lo sai, vero, che non arriverà prima?» Kobe stanziò al mio fianco spiazzandomi con quella esasperante verità.
«Nei film lo fanno di continuo e sembra funzionare!» mi difesi. Ero una ragazza cresciuta mangiando pizza davanti il televisore, cosa ne potevo sapere dei veri usi e costumi dei grattacieli?
Kobe rise pensando che fosse una battura. Incrinai le mie labbra credendo di dover rimanere composta ad aspettare, mentre scandivo il tempo picchiettando la suola contro il pavimento.
«Sei rimasta in ufficio per tutta l'ora di pausa?» tirò a indovinare il ragazzo. Mi voltai quel tanto per annuire senza mostrarmi disperata.
«La prossima volta ordina d'asporto. È il mio segreto!» sussurrò mostrandomi il suo candore.
«Sul serio? Pensavo fosse proibito introdurre cibo sul posto di lavoro o qualcosa del genere. Non vorrei che mi prendessero per una persona non professionale.» Scosse il capo compiaciuto per la mia estrema diligenza.
«Nessun problema. Hai detto di aver visto film in cui premono di continuo il tasto dell'ascensore, possibile che tu non ne abbia visto uno in cui mangiassero in ufficio? E poi credevo di averti mostrato l'ala ristoro alla fine del corridoio.» Nell'attimo in cui Kobe allungò una mano per indicarmi le stanze sopracitate, il campanello dell'elevatore trillò, segnando così il suo arrivo.
Il ragazzo mi fece segno di passare davanti.
Ringraziai silenziosamente, passando l'indice sul pannello di controllo. Forse in quei tredici minuti rimanenti sarei riuscita a compiere un miracolo.
«Senti, Amanda... mi dispiace.» Voltai il capo per inquadrare Kobe incuriosita e preoccupata.
«Cosa? Per quale motivo?» Il ragazzo all'improvviso si irrigidì come se avesse cambiato idea, tirandosi indietro. Si portò una mano al mento per darsi un certo tono, sfiorando con le dita la pelle ebano perfettamente levigata.
«Stephan mi ha raccontato di ciò che è accaduto a Richard. Ho saputo che sei stata la sua ragazza per un periodo... ecco, volevo dirti che mi dispiace per ciò che tu e la tua amica avete passato. Se penso a tutte le ragazze che-» Kobe serrò le mani in pugni ai lati del corpo.
Richard aveva compiuto delle azioni orribili durante l'adolescenza. Forse si sentiva colpevole per non essere riuscito a capire in tempo la sua vera natura, recriminando la loro tossica amicizia. Ma era solo un ragazzo, in fondo.
«Stai ripensando a tua sorella? Witney, giusto?» domandai per capire se la sua rabbia derivasse da ciò.
«Sì» annuì. «Richard la conobbe durante una delle mie feste di compleanno. Lei era poco più che una ragazzina. Solo qualche mese più tardi trovò il coraggio di dirmi che Richard l'avesse più volte importunata. Non è mai scesa nei dettagli anche perché lei ne sembra terrorizzata al solo parlarne. Così le abbiamo fatto cambiare scuola, numero di telefono e indetto un'ordinanza restrittiva nei suoi confronti. In tutti questi anni non abbiamo più avuto sue notizie e mi andava bene così. Eppure, in un certo senso sapere che lui fosse ancora a piede libero a compiere chissà che cosa mi ha sempre tormentato. Sono felice di sapere che abbia ricevuto ciò che meritava e che in qualche modo anche Dylan...» soffiò con un malinconia. «Che Dylan sia andato avanti...» Mi morsi un labbro ricordando come la sua vita fosse stata rovinata da quell'essere. Ma lui quanto ne sapeva del limite che aveva superato?
*Plin*
«... che sia andato avanti grazie a te.» Le ante dell'ascensore si aprirono in concomitanza delle sue illazioni. Spalancai le palpebre stupita, mentre il cuore scalpitava e perdevo di aderenza nelle parole. Cosa ne poteva sapere lui? Era davvero ciò che era accaduto?
Provai a emettere la mia risposta, ma il suo corpo superò la visuale sorridendo ai nuovi arrivati che attendevano al pian terreno l'arrivo dell'ascensore.
«Ragazzi, avete pranzato?» Voltai il capo dove puntavano gli occhi di Kobe. Dylan, Nathan, Cassidy e Stephan stanziavano a pochi passi. Li salutai agitando una mano e con gli occhi languidi.
«Sì, ma niente di appetitoso. Lil, ti stavamo aspettando, perché ci hai messo tanto? Ti ho preso un sandwich al salame e maionese, meglio mangiarlo caldo.» Dylan mi si avvicinò incurvando un angolo della bocca con fare irriverente. Mi afferrò un braccio trascinandomi di peso verso il piccolo abitacolo dal quale ero appena uscita. Gli altri, tranne Kobe, lo seguirono a ruota.
Il nostro responsabile tirò su con il naso mormorando di aver ragione. Sembrava così... sollevato.
L'osservai andar via, fino a che le ante di acciaio si richiusero davanti al mio naso.
Finalmente afferrai la busta di carta che Dylan stava sventolando da troppo tempo in mezzo ai nostri corpi. Ero frastornata e confusa dopo la conversazione con Kobe e lui sembrò percepirlo.
Grugnì svogliato e infastidito, come se si fosse pentito di quel gesto non riconosciuto con il giusto calore.
«Come sapevi che fosse il mio preferito?» indagai annusando l'aria.
«Ti dimentichi, forse, che ti conosco da quando portavi il pannolino. Lo facevi solo preparare ogni santo giorno a mia madre quando venivi a casa.» Nathan si sentì particolarmente offeso per non averlo preso in considerazione. Incrociò le braccia al petto.
«Mangi solo quello. La scelta non era poi così difficile. Ma se eri più interessata a passare il resto della pausa pranzo con qualcun altro, avresti potuto tranquillamente dirlo.» Dylan ignorò totalmente i miei occhi per prestare attenzione al soffitto. Stava persino assottigliando la vista e corrugando la fronte. Cosa stava pensando?
«Qui qualcuno è geloso» cantilenò Cassidy una volta che le ante dell'elevatore si spalancarono. Uscì di corsa ridacchiando, seguita a ruota da Nathan che aveva scrollato le spalle a quell'affermazione.
«Io direi che sia il momento di andare a fare delle fotocopie...» commentò Stephan imbarazzato.
Dylan si mosse all'improvviso borbottando tra sé e sé, lasciandomi indietro.
Scossi il capo apprezzando il bel gesto e ricaricando le energie.
Di ritorno in ufficio constatai un certo fermento. I ragazzi parlottavano fra loro e nessuno mancava di brio nella conversazione. Con mio sommo disappunto, notai Dylan e l'arpia dagli occhi di cristallo a stretto contatto.
Mi imposi di sorridere e, molto dignitosamente, mi misi a sedere afferrando l'ultimo malloppo di fogli che avrei dovuto esaminare in quella giornata. Nonostante la mia lettura approfondita, le mie iridi non facevano altro che guizzare verso la finestra, dove stavano intrattenendo una conversazione, fin troppo amichevole, Lisa e O'Brien.
«Rettifico, qui sono gelosi in due.» Cassidy mi passò davanti cantilenando una seconda volta e ondeggiando con la sua tipica andatura poco stabile, ma decisa.
«Non è affatto vero! Mi da solo fastidio vedere quella sottospecie di essere umano senza cuore accanto a qualcuno a cui tengo.» Parlai facendo bene attenzione affinché solo Cassidy potesse udirmi. La mora alloggiava accanto alla mia seduta e con il suo continuo annuire ero convinta che mi potesse capire, almeno fino a che non mi pose un braccio intorno alle spalle con fare traffichino.
«Si chiama gelosia, Amy. Ne sei affetta in una forma gravissima. Sai, ho letto che se continui ad avere quell'espressione arcigna le rughe si formano molto prima dei trent'anni. Dovresti stare attenta! E poi questo bel mostriciattolo verde accanto non ti si addice.» Il mio labbro superiore vibrò in maniera inaspettata, tanto che acquisì un'aria terrificante. Allontanai Cassidy scattando in piedi.
«Ti dimostro che non è così! Lui non lo sa cosa gli aspetta ed è mio dovere informalo!» Artigliai con le unghie il banco di Cassidy, la quale alzò le braccia in aria lasciando il campo libero a qualsiasi mia presa di posizione.
Arrivai alla scrivania di Dylan e dopo aver afferrato una penna gli lasciai un bigliettino che recitava "Ti aspetto davanti gli ascensori, è importante". Era il nostro modo di comunicare nell'ultimo periodo e credetti fosse il modo migliore per gestire la cosa e dimostrare a me stessa e a Cassidy che non c'era alcun secondo fine.
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