86. Il tuo posto è qui
♫ Marshmello ft. Bastille - Happier ♫
Credevo che avremmo continuato in eterno se qualcuno non ci avesse interrotti. Rimanemmo interdetti e spauriti, l'uno avvinghiato al corpo dell'altra con le labbra che tutto chiedevano tranne che di fermarsi. Ma quella voce ci aveva obbligato.
Era certo: Nathan Kingstone sembrava adorare interromperci sul più bello.
Nell'imbarazzo generale mi scansai coprendomi la carne incandescente con le mani. Tirai lo scollo verso il petto pudica com'ero.
Dylan grugnì irritato sbattendo più volte le palpebre per capire a cosa fosse dovuto quell'improvviso distacco. Al contrario, Nathan, con le guance rosee e gli occhi pieni di sonno, non si scompose per nulla. Ci aveva colti in flagranti, ci aveva visto e quindi... dove era la sua reazione?
Dylan si tirò in avanti acciuffando i lembi della camicia così da far passare tutti i bottoni all'interno delle rispettive asole. Aveva le labbra traslucide e gonfie. Le mie mani tremanti stavano cercando di sistemare l'orlo dell'abito, ormai sgualcito e quasi lacero.
Incredibilmente l'aria si era raffreddata di colpo e tutto il calore accumulato si disperse.
«Nathan! Cosa ci fai qui? Cosa vuoi? Perché sei qui? Davvero, perché sei qui, ora?» Dylan chiese irritato nella voce. Quella retata non era stata per nulla di suo gradimento. Sembrava essere più preoccupato del fatto che fossimo stati interrotti, piuttosto che Nathan ci avesse scoperti.
Lo scrutai trattenendo il respiro in attesa di una risposta. Lui non sembrava per niente turbato, anzi, sbadigliò quando Dylan gli pose quelle domande a raffica.
«Cue lua tuortua» ci informò con una mano sulla bocca. Non aggiunse altro prima di indietreggiare e ritornare verso la sala. Ma come? Ma cosa?
«Nathan!» lo bloccai sull'uscio, incespicando nei miei stessi passi. «Allora, ecco, noi... cioè... Quindi, ecco. Non vorrei che tu avessi frainteso!» Cosa stavo facendo? Quanto sarei sembrata ridicola?
Muovevo convulsivamente le mani, ben conscia che avrei dovuto smetterla. Voltai il capo verso Dylan in cerca di man forte, ma non ricevetti nessuna occhiata di intensa. Lo ritrovai confuso mentre si passava una mano sul volto con un'espressione arcigna. "Perché ora? C'ero quasi..." continuava a bisbigliare tra sé e sé.
«Vi stavate baciando, Amy. Era anche l'ora. Avete fatto pace e sono contento. Io tuorno aul tauvulo chue hou sounno, speruando di noun fare incubui su di vuoi.» Non era riuscito a terminare la frase senza sbadigliare una seconda volta e, con quella terribile immagine a fare da sfondo ai miei pensieri, Nathan andò via, lasciando me e Dylan nel freddo sgabuzzino completamente soli.
Ero imbarazzata e costernata. Non volevo incrociare lo sguardo con quello di Dylan. La magia era stata spezzata e non rimaneva altro che il mio povero ego indifeso. Mi era piaciuto fin troppo, ma cosa sarebbe successo d'ora in avanti? Che avrei dovuto dirgli? "È stato bello, potresti per favore non spezzare il mio cuore, grazie?"
E, mentre i miei pensieri tuonavano uno dopo l'altro, un altro rumore, più gradevole di quanto fosse stato Nathan in quei due minuti, giunse alle mie orecchie: la risata cristallina di Dylan riempì il silenzio che si era impossessato della stanza, dandomi un motivo per rivolgergli parola.
«Perché ridi?» farfugliai provando a nascondermi dietro delle pile di tovaglie. Dylan, dall'alto del suo metro e ottanta, si appoggiò al muro con le spalle afferrandomi per un polso. Buttò la testa all'indietro ed io non potei far altro che ammirare lo spettacolo che mi si presentò davanti. Ciuffi ribelli ombreggiavano il suo volto che aveva perso colore per far spazio a un roseo sorriso di beatitudine. Lo stesso effetto, però, non era stato sortito dalle sua labbra che si mostravano ancora pulsanti e avide. Rimasi incantata a studiare le linee dure che segnavano la sua mandibola, contornate dai tanti nei che ammorbidivano i suoi tratti. E poi c'erano gli occhi... le iridi nocciola che mi fissavano insistentemente.
Un attimo, mi stava fissando?
Scossi il capo cercando di darmi un po' di contegno, prestando attenzione ad altro che non fosse targato O'Brien.
Dylan si discostò dal muro facendo leva sul suo braccio destro, al fine di avvicinarsi al mio corpo che aveva tenuto ostaggio.
«L'ha presa bene, Nathan! Chissà quanto siamo rimasti chiusi qui dentro...» si passò la lingua sulle labbra avido, «siamo arrivati al gran finale. Ho perso letteralmente la testa, qui, con te.» Dylan soffiò quelle parole a qualche centimetro dalla mia pelle. Raccolse un mio boccolo castano posandolo con delicatezza insieme ai ciuffi posteriori, probabilmente si era reso conto di aver rovinato un'acconciatura con i suoi, cioè, con i nostri... baci.
Il mio cuore non faceva altro che battere imperterrito. Era inutile negare: avevo adorato ogni istante di quella tresca clandestina. Non era il solo ad aver perso il lume della ragione.
«Direi che è tutta colpa tua. Se tu non mi avessi stuzzicato...» Dylan mi rivolse quelle parole con tono sornione e malizioso. Sbattei le palpebre incosciente per le parole che mi aveva appena rivolto.
«Come, scusa? Io ti ho cosa? Volevi sapere a tutti i costi se avessi voluto baciarti, non puoi lamentarti se poi quel qualcuno lo fa con piacere!» Ero adirata! Strattonai la mano che era intrecciata alla sua, senza sapere quando o come, ma ero ritornata a cingere il suo corpo.
«Quindi ti è piaciuto?» sussurrò retoricamente con altrettanta malizia. Provai a controbattere puntandogli un dito all'altezza del petto, ma la vista delle sue pupille lucide e quel sorriso sensuale mi fecero desistere.
Ero una stupida!
Mi morsi un labbro sovrappensiero, decidendomi di dargli le spalle di colpo. Non l'avrebbe avuta vinta lui, non avrebbe retto quel gioco da solo.
Non potevo batterlo, pertanto sarebbe stato meglio ritirarsi in un luogo dove non mi avrebbe vista arrossire nuovamente. Agganciò la mia vita da dietro facendo combaciare la schiena al suo petto ingalluzzito. Con le dita affusolate mi costrinse a voltarmi nella sua direzione. Premendo sulle mie guance gli fu facile scivolare in avanti, strusciando nuovamente le sue labbra contro le mie. Dopo qualche istante ne catturò uno tra i suoi incisivi tirandolo a sé desideroso.
Lasciò andare il soffice lembo di pelle rosea solo quando fu soddisfatto.
«Per la cronaca,» iniziò allentando la presa. «te lo stavi mordendo di nuovo. Ti ho già detto che non resisto quando lo fai, non tentarmi.» Sbiancai di colpo perdendo la sicurezza che avevo provato a reperire. Deglutii inebetita, voltandomi nella sua direzione e osservando i suoi movimenti indolenti.
«Che cosa dovrebbe significare?» bofonchiai con aria sommessa. Ero assetata e lui sembrava essere l'unica oasi da cui avrei voluto abbeverarmi.
Dylan mi mostrò nuovamente i suoi incisivi bagnati dalla saliva che fino a qualche istante prima si era depositata sulla mia bocca. Scrollò le spalle con fare innocente.
Il moro indietreggiò mantenendo il sorriso in volto.
«E ora dove vai?» proposi sfiduciata. Credeva che sarei stata una di quelle ragazze che sarebbero cadute al suo cospetto per avere un po' delle sue attenzioni? Indurii il volto per quell'infelice constatazione.
«Hai sentito Nathan? C'è la torta! Andiamo!» rise divertito fissando oltre il corridoio quella che si intravedeva come la sala principale. «Al dolce non si rinuncia mai!» aggiunse con uno sguardo più penetrante del previsto.
Non poteva davvero pensare a mangiare in un momento del genere. Anche se forse non era solo fame materiale.
Si avvicinò con un sol balzo e, quando alzai lo sguardo verso di lui, me lo ritrovai a pochi centimetri. Afferrò la mano che precedentemente avevo sottratto alla sua presa e con una mossa decisa se l'avvicinò alle labbra. Che volesse darmi il ben servito?
«Dopo di lei, madame» mormorò spazzando via i miei pensieri disfattisti. Come in un vecchio film a pellicola, Dylan venne promosso a perfetto cavaliere. Con un'estenuante lentezza mi baciò il dorso della mano senza mai interrompere il contatto visivo.
Accettai senza alcuna opposizione facendomi trascinare dal vortice di emozioni che avevamo e stavamo provando.
Mi lasciai guidare dal suo candore, mentre correvamo ridenti nel corridoio principale, lasciandoci alle spalle uno sgabuzzino custode di segreti. A rimbombare tra quelle mura di granito non c'erano solo i nostri passi, ma anche le nostre risate più genuine.
In quel tumulto, le nostre mani erano rimaste intrecciate per tutto il tempo.
***
Al ritorno dalla cerimonia, Lyanna intavolò con me una conversazione. Il matrimonio si era concluso molto più velocemente del previsto non appena la millefoglie venne servita. Avevo fatto bene ad ascoltare Dylan: al dolce non si rinunciava, mai. Era squisito.
Nessuno aveva fatto battute o commenti sulla nostra assenza, che scoprì successivamente di essere stata all'incirca di un'ora e mezza.
Eppure, gli sguardi di intesa tra le due cognate lasciavano ben poco all'immaginazione. Le madri dei miei due "ragazzi" non avevano fatto altro che puntare le loro lunghe ciglia alla ricerca di succulenti novità. Quello accadeva quando i propri figli smettevano di confidarsi con i genitori. Ne avevano il diritto e se ne arrogavano le capacità.
Che Nathan avesse parlato ed esposto il misfatto?
«Alla fine siamo rimasti in quattro! Ho seriamente pensato che fossimo noi il problema.» Margaret intervenne commentando quanto il matrimonio fosse stato stupendo, ma che noi giovani non avevamo apprezzato a pieno, dato che sembravamo essere stati assenti sia fisicamente che mentalmente. Non potei darle completamente torto.
«Mamma, te l'ho detto! Sono solo andato... andato... io...» Nathan si appoggiò alla parete dell'immenso ascensore condominiale. Dopo un breve attimo di lucidità richiuse gli occhi nuovamente: lo avremmo smosso non appena giunti all'ultimo piano, nostra destinazione.
Mi guardai intorno rendendomi conto di come fosse incredibile che anche i condomini avessero elevatori di quella portata. Ma, a differenza di quelli industriali, il tempo impiegato per giungere fino all'attico sembrava essere quadruplicato.
«Sì, Nate, ce lo hai detto quando sei tornato al tavolo. Hai avvisato i ragazzi del taglio della torta... ma a proposito, dove eravate finiti?» Lyanna indagò soppesando scrupolosamente le nostre reazioni sorridendo amabilmente. David, al contrario, aveva deciso di imitare il nipote appisolandosi contro la parete.
Margaret allungò il collo per poter ascoltare le nostre risposte. Chi sembrava farsi i fatti propri senza voglia di comunicare con il mondo esterno era solo Andrew: mirava il cognato e il figlio con occhio lucido. Anche a lui sarebbe piaciuto avere la dote di addormentarsi in qualsiasi situazione.
«Fuori!» urlai in preda al panico. Nathan sobbalzò strabuzzando gli occhi, mentre Dylan scoppiò in un colpo di tosse sospetto. Mi guadagnai una sua occhiata divertita. «Sì, insomma, non mi sentivo molto bene e ho chiesto a Dylan di accompagnarmi verso l'uscita. Non volevo rimanere sola, sa com'è...» sorrisi tiratamente aspettando con il fiato sospeso un qualche accenno da parte di Lyanna. La donna incurvò un sopracciglio circospetta, mentre scuoteva il capo. Non era soddisfatta.
«Era davvero affannata e tremante. Aveva persino i brividi a fior di pelle. Come posso spiegarmi... le sue guance avevano preso un color rubro intenso e la sua pelle bruciava al tatto. Aveva proprio bisogno di un po' d'aria. Potrebbe essere stato un principio di febbre, non credete anche voi?» Pronunciò Dylan mellifluo, direzionando la sua attenzione verso la sottoscritta. Mi aveva incastrata.
Nell'esatto momento in cui deglutii, il tintinnio di una campana ci indicò che eravamo giunti a destinazione. Le porte dell'ascensore si aprirono e, lentamente, ne uscimmo tutti. Per mia fortuna quelle ultime parole sembravano essere bastate alla famelica curiosità della signora O'Brien. Serrai le labbra per evitare di compromettere ancor di più la mia posizione.
«Margaret, Andrew, potete dormire nella camera accanto a quella che abbiamo preparato per Nathan al piano di sopra. In caso di problemi potete chiamare Kathrine, la domestica, non sapremmo cosa fare senza quella donna!» Lyanna ci salutò tutti prima di scomparire, insieme al marito, verso il salone e oltre. Direzione: stanza patronale.
All'inizio non ci avevo dato peso, ma quella casa era più immensa di quanto avessi potuto immaginare. Il pavimento lucido di granito nero brillava sotto la luce riflessa del lampadario di cristalli, che troneggiava appeso sopra le nostre teste. Un pianoforte a coda occupava l'ala sinistra dell'atrio, mentre passando per una porta alle nostre spalle sarebbe stato possibile accedere alla cucina e alla sala da pranzo. Avremmo sicuramente incontrato Kathrine e i pochi altri dipendenti se solo l'avessimo varcata.
Due rampe di scale si aprivano a ventaglio davanti a miei occhi. Portavano direttamente al piano superiore, di cui si vedeva solo il parapetto in marmo. Infine, ultima, ma non meno importante, l'imponente vetrata che si frapponeva tra noi e il resto della città. La vista era mozzafiato: lo skyline di Stanford si mostrava in tutti i suoi colori brillanti. Tanti piccoli puntini di luci a led intermittenti.
«Lilian, andiamo? Ti accompagno alla tua stanza.» Fu Dylan a richiamarmi per rimettermi in riga. Mi destai constatando come mi fossi avvicinata fin troppo al vetro, sfiorandolo con i polpastrelli. Eravamo rimasti da soli ancora una volta. Accennai un segno positivo con il capo lasciandomi guidare da lui per il corridoio poco illuminato del piano inferiore.
Per qualche ragione gli afferrai la mano senza alcuna remora. Avevo voglia di averlo con me, ancora un po' e assaporarne la sensazione fino a che mi sarebbe stato possibile. E il fatto che Dylan avesse stretto ancora di più la presa mi fece intuire che probabilmente anche lui era del mio stesso avviso. Lo miravo con la coda dell'occhio, silenziosamente, mentre il mio cuore diveniva sempre più assordante.
Solo una volta che fummo all'interno della camera da letto lasciai la presa. Non sarebbe stato giusto trattenerlo a me più del tempo necessario. Per entrambi, probabilmente.
Senza proferire più neanche una parola, mi sedetti ai piedi del letto, aspettando il momento in cui avremmo mosso i nostri patetici saluti, rimuginando su tutte le cose non dette e che magari avrei dovuto avere il coraggio di pronunciare, ma per le quali Dylan mi batté sul tempo.
«Non deve per forza essere qualcosa di male. Non torturarti. Sono convinto del fatto che ciò che abbiamo sentito e provato siano la dimostrazione che non sia stato uno sbaglio.» Mi voltai verso di lui, statuario, poggiato contro lo stipite della porta e più serio che mai. Aveva avvertito il mio disagio e la rigidità con la quale mi ero mossa negli ultimi istanti. Sapeva perfettamente come mi sarei potuta sentire, a freddo, dopo quello scambio di emozioni ed effusioni. Avevo paura di aver fatto la figura della sciocca sognatrice.
«Ho come la sensazione, in realtà, di aver rovinato tutto...» ammisi forse più a me stessa che a lui. Iniziai a torturarmi le dita portando più volte le unghie a strisciare sulla cute del mio palmo.
«Ehi, Lilian, no. Assolutamente non hai rovinato nulla. Ascoltami, Lilian, ehi...» Dylan si avvicinò a me facendosi spazio sul materasso. Afferrò il mio volto tra le mani soffici permettendomi di inquadrarlo. «È stato perfetto. Non dubitare neanche per un secondo che non lo sia stato. Lo volevo così tanto che credo di avertelo fatto capire. Anzi, ti chiedo scusa per averti messa in questa situazione. Ricordati solo che non sei costretta a fare nulla che tu non voglia e spero di non averti forzato. Penso, in verità, che non siamo mai stati così connessi. Possiamo ricominciare da qui, se me lo permetterai. Sono io lo stupido che deve chiederti scusa per aver rovinato tutto tra di noi... se non fosse stato per te mi sarei perso ancora una volta nei meandri della mia mente facendomi sfuggire la felicità che solo tu riesci a farmi provare.» Il moro sorrise dolcemente. Ricambiai alzando a mia volta gli angoli della bocca.
«Mi eri mancato davvero tanto» ammisi con la voce tremante. Dylan rimase sbigottito da quelle mie parole spontanee. Lo notai, seppur per un istante, come i suoi occhi luccicarono e le sue gote s'infiammarono.
«Non immagini neanche quanto» controbatté prima di scoccare un casto bacio sulla guancia e ponendosi ritto sulla schiena. Mi lasciò andare muovendo qualche passo verso l'uscio.
«Ti andrebbe di restare a dormire qui, con me?» domandai senza pensarci. Non volevo che andasse via. Avevamo raggiunto un nostro equilibrio. Ci eravamo baciati e ci era piaciuto. Cosa fare da quel momento in poi sarebbe dipeso solamente dalla nostra volontà.
Nell'ultimo periodo avevo iniziato lentamente ad abituarmi al suo distacco irreale, ma non ne potevo più. Non sapevo più che dire o che fare. Ma c'era una cosa di cui ero certa: Dylan aveva smosso i pezzi del mio cuore mandandomi di nuovo in confusione.
Era stato proprio come lo aveva definito: perfetto. Era stato dannatamente perfetto, per quello ero sicura non avrei più finto e non avrei mentito a me stessa.
Se si fosse ripresentata occasione lo avrei rifatto perché lo volevo. E lui voleva me. Eravamo attratti l'uno dall'altro scoprendolo nel modo più naturale possibile.
Perché la razionalità e i pensieri si accatastavano furenti quando di mezzo c'era il vortice della passionalità. Avrei potuto imparare a vivere aggrappandomi a ogni istante con le unghie e con i denti, sentendo fin dentro alle viscere quella voglia di lui come qualcosa a cui non avrei mai rinunciato.
Solo allora riuscii a comprendere quale era la forza che muoveva il mondo: la paura di privarsi di ciò che non sarebbe più ricapitato.
Mi sarei fatta guidare da forze più grandi di me, che non potevo controllare.
Sarebbe stato il caos.
Ed era così allettante.
«Resta con me, ti prego» ripetei sommessa quando Dylan inclinò il capo per scrutare le mie intenzioni. Era combattuto e furente. Sulle sue iridi lessi il desiderio di continuare, frenato dal senso di responsabilità che credeva di dover provare nei miei confronti. Sperai egoisticamente che scegliesse me.
Che i nostri destini avrebbero combaciato d'ora in avanti.
Mi coricai su un lato aspettando una sua decisione e, quando posai la testa sul cuscino, Dylan si mosse nella mia direzione copiando le mie mosse e facendo altrettanto: si sdraiò senza mai sottrarsi a quel contatto visivo. Eravamo l'uno di fronte l'altro e, per qualche ragione, sembrava essere la cosa più naturale del mondo.
«So cosa vuoi fare» commentò divertito Dylan, mentre con i polpastrelli si portò a sfiorare la pelle nuda del mio collo. Era un tocco delicato, ma allo stesso tempo più intimo di quanto potesse sembrare a un occhio esterno.
«Ah, sì?» sollecitai sfidandolo. Il ragazzo scosse impercettibilmente il capo accorgendosi di quanto fossi diventata insolente nell'arco di una giornata. Semplicemente avrei provato a lasciarmi andare, senza forzare le cose, avrei fatto ciò che volevo senza sentirmi in colpa.
«Vuoi usufruire dei miei servigi ancora una volta, non è vero?» Dylan incurvò le sopracciglia con aria innocente, mentre le sue labbra erano aperte in un sorriso malizioso che non aveva niente di ingenuo.
«Probabilmente è così» commentai guadagnandomi da parte sua un'occhiata di incredulità. Quella frase sembrò rinvigorirlo. Ci stavamo stuzzicando, ma a seguito di quelle parole si rese conto di qualcosa che aveva provato a ignorare per tutto quel tempo.
«Lilian...» interruppe il suo sfiorarmi alzandosi su un gomito e sovrastandomi dall'alto. «Ho sentito quando hai detto che non vuoi fare domanda per il posto da tirocinante. Ti prego, ripensaci. Non potevo dirtelo prima, ma non voglio che tu rimanga da sola in università. Non è il tuo posto quello, come vedi... il tuo posto è qui. Con me.» Il lenzuolo di seta scivolò via dalle mie dita.
«Adesso che ti ho ritrovata non scappare via. Ho bisogno che tu mi dica che ci penserai.» Dylan cambiò repentinamente la direzione del suo sguardo ritornando a sdraiarsi su un lato, il tutto sotto la mia attenta supervisione.
«Lo farò» pronunciai rincuorata, arrossendo. Mi aveva stupito, ma non c'era da meravigliarsi. Era pur sempre Dylan, imprevedibile nella sua intelligenza e acume.
Sospirò sollevato buttandosi supino e occupando la sua metà di letto. Seguii a ruota il suo movimento, ritrovandoci entrambi a fissare il soffitto senza che il silenzio pesasse su di noi.
«E comunque, sì...» aggiunse Dylan prima di voltarsi per darmi le spalle. Le curve spigolose nel suo corpo le notavo a malapena nella penombra.
«Sì, cosa?» reclamai divertita scrutando i lenti movimenti delle gambe che non volevano saperne di stare ferme.
«Sì è la risposta alla domanda che mi aveva rivolto Margot in spiaggia, ma a cui non avevo avuto possibilità di replica... almeno non finora. Ci tenevo a fartelo sapere.» Istintivamente mi morsi un labbro, ma lui non poteva saperlo.
«Dolce notte, Lil» si congedò poco prima di spegnere l'unico lume acceso nella stanza, faro che ci aveva indicato la via per ricongiungerci.
«Dolce notte, Dyl» gli augurai sistemandomi a mia volta senza più alcuna ombra a pesare sul cuore.
Allungando un braccio verso il centro del materasso mi scontrai con Dylan, ma nessuno dei due si retrasse.
Durante la notte le nostre dita non fecero altro che cercarsi e intrecciarsi reciprocamente, perché non c'era altro posto a cui appartenessero.
♣♣♣♣♣
Chi di voi licantropi attenti si ricorda quale era la domanda posta da Margot?
Per il resto, non c'è bisogno di dire altro... sono troppo dolci ♥
Anche se non sanno ancora tutta la verità!
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