84. Prendere o lasciare?
♫ Marshmello x YUNGBLUD x blackbear - Tongue Tied ♫
Qualcosa si era smosso dentro di me.
O meglio, si era rotto.
Lui si era allontanato, scappando e preferendo ancora una volta voltare le spalle a tutto ciò che sarebbe potuto essere.
Nonostante mi sentissi ferita, abbandonai il bicchiere di vetro sul tavolo del ricevimento lasciando che il suo tintinnio fosse l'ultimo suono su cui focalizzarmi.
Non volevo perdere Dylan.
Scalciando e sgomitando in mezzo la folla di invitati correvo affannata, non mi sarebbe sfuggito.
Uscii dalla sala svoltando verso l'ala est dell'enorme palazzo. E lui era lì: statuario e inflessibile il suo corpo mi dava le spalle, pronto a scomparire nuovamente dal mio campo visivo.
«Dylan! Fermati!» stramazzai esasperata. Il ragazzo si bloccò all'istante, permettendomi di avvicinarmi ma senza mai darmi occasione di raggiungerlo. Si voltò quel tanto per raggelarmi con il suo sguardo arcigno.
«Cosa vuoi?» mi interpellò scocciato. Tendeva fiero la mascella come se non avesse timore di alcuna risposta. Puntava le pupille piccole e pungenti come aghi dritto verso i miei occhi colpendomi e bruciandomi viva allo stesso tempo. Frenai il mio moto lasciando una distanza di circa cinque metri tra di noi.
Le sue palpebre si mossero impercettibilmente come a segnare il confine immaginario che non avrei dovuto valicare.
«Io... tu... perché lo fai!?» mi ritrovai piena di rancore che neanche pensavo di provare.
«Faccio solo ciò che voglio! Puoi farlo tu, perché non io?» ribatté allargando le braccia, mentre scuoteva il capo con disappunto. Era lui quello che si stava comportando male! Perché allora sembrava ferito?
Quello sguardo... quello sguardo assente lo avrei retto fin quando sarebbe stato necessario! Era lui... era sempre dannatamente lui dietro quella maschera!
«Aggredire Sophia? Ignorare tutti per giorni, rispondere come se non te ne fregasse niente. Insultarci, maledirci, allontanarci. Credi che sia anche solo paragonabile a quello che faccio? Sei tu quello che se n'è andato, Dylan. Ti sei arreso nell'esatto momento in cui hai abbandonato il tavolo senza neanche avere il coraggio di guardarmi negli occhi, hai afferrato quella bottiglia e sei scomparso senza dirmi neanche dove. E pensi che ritornando dopo pochi minuti io ti aspetti a braccia aperte? Credi forse che sarò ferma per sempre? Perché se è così stai sbagliando di grosso.» Mossi qualche passo in avanti, tenendo la mano tesa all'altezza del cuore pronta per stritolare la corazza che indossavo, così da liberarmi di tutti i pesi accumulati.
«Mi hai mentito, Lilian.»
Sussurrò discostando lo sguardo greve.
«Per questo non so più cosa voglio da te.»
Il tono della sua voce era piatto, in contrasto con gli occhi in tempesta.
Si girò lasciandomi lì, pietrificata dall'incapacità di fare qualcosa. Fissavo il vuoto dove prima vi era il suo corpo, destandomi solo dopo aver udito uno scatto. Lo ritrovai in piedi poco distante con gli occhi puntati verso la maniglia d'argento che teneva stretta tra le sue dita affusolate.
Dylan era impassibile. «Lo sgabuzzino, ricordi? Sapevi perfettamente dove trovarmi, a dir la verità» annunciò freddamente prima di entrarci lasciando la porta incustodita alle sue spalle.
Deglutii dubbiosa. Che volesse che lo seguissi? Mossi qualche passo trafilata fino ad avere una visuale completa su quella piccola stanza. Occupata nella gran parte di volume da asciugami, scope e stoviglie, l'intonaco bianco rendeva l'illusione che lo spazio fosse più ampio.
Di primo acchito non riuscii a individuare Dylan, interrogandomi se quanto avessi visto non fosse stata che un'illusione. Mi rinsavii ben presto: era seduto per terra aldilà del pilone di tovaglie di seta. Aveva le gambe piegate verso di sé a fare da supporto al gomito del braccio che portava la bottiglia di alcol. La contemplò in contrasto con la flebile luce della lampadina verificandone il contenuto.
Dopo essermi guardata attorno circospetta mi feci spazio a mia volta richiudendo la porta alle mie spalle. Mi sedetti di fronte a lui, appoggiando le mie membra sul freddo granito e rasentando la schiena contro la parete opposta a quella cui lui aveva fatto affidamento. Le mie gambe e il mio vestito sfioravano il terreno segnandone contorni imprecisi.
«Sono ritornato di là per cercarti» confessò prima di tracannare il primo sorso di alcol. «Avevi promesso che quando il matrimonio sarebbe divenuto noioso avremmo trovato qualcosa da fare, come per esempio chiuderci in uno sgabuzzino.»
«Oh...» sussurrai incerta. Si ricordava davvero delle mie parole? Dylan mosse le mani in aria come per eliminare un pensiero dalla sua testa.
«Puoi anche andare via. Hai altro da fare, no?» Il moro mi mostrò i suoi occhi solamente per un attimo, il tempo di gelarmi il sangue nelle vene e sbuffare.
«Sei stato tu il primo a dire che posso fare ciò che voglio, perciò rimango qua.» Non sapevo spiegarmi neanche io il perché reagissi alle provocazioni, era ovvio che il suo obiettivo fosse quello di infastidirmi e scacciarmi, di trovare l'ennesima scusa. Scosse il capo in disaccordo.
«Certo che per essere uno che prima di quest'anno non toccava un goccio di alcool dai tempi dei liceo, ne stai ingurgitando parecchio.» Strinsi le braccia sotto il seno volgendo lo sguardo altrove, lontano da lui.
«Solo quando ci sei tu. Sentiti pure lusingata o responsabile di un mio probabile coma etilico, non mi importa» pronunciò acidamente come se si stesse prendendo gioco di me. Stava decisamente esagerando.
«Che strano, avrei giurato che quello sguardo di poco fa significasse esattamente il contrario. Ovvero, che di me qualcosa ti importa, altrimenti non mi avresti condotto qui, sbaglio forse?» Tirai indietro un lembo dello strascico, così da agevolare i miei movimenti. Mi avvicinai gattonando verso di lui. Dylan rimase sorpreso nel notare il mio repentino cambio di atteggiamento e il mio sorriso sornione.
Dopo aver appoggiato un palmo a un paio di centimetri dal suo corpo, gli strappai la bottiglia dalle mani. Incurvò un sopracciglio dubbioso, incapace di leggere i miei movimenti, eppure, in completa balìa di essi. Ripercorsi i miei stessi passi fino a ritornare al punto di partenza. Ingurgitai anche io quella brodaglia aspra e frizzante allo stesso tempo.
Strizzai gli occhi allontanando la bottiglia da me. Era più forte del previsto. Mi guadagnai una sua occhiata divertita, mentre si passava la lingua sulla fila di denti bianchi. «Che c'è? Credevi forse che ti avrei fermato? Se vuoi distruggerti non hai bisogno del mio permesso, l'ho capito tempo fa» lo provocai.
Per la prima volta, durante quella settimana, Dylan rise e lo fece veramente. Non era un semplice abbozzo, ma una vera risata fuoriuscita dalle sue labbra leggermente arrossate e gonfie. Era veramente il suo viso che si stava aprendo verso delle smorfie più dolci.
«Se non ti dispiace, allora, lasciami continuare con l'autodistruzione!» protestò il moro giocherellando con il nodo della sua cravatta, al fine di allargarla.
«Vieni a prendere ciò che vuoi, Dylan. Oppure lascia perdere, per sempre.»
Mi riservò un'occhiata di sfida come se stesse soppesando l'eventualità. Alzò un angolo della bocca prima di darsi lo slancio necessario per mettersi in piedi. Colmò la distanza in pochi passi, abbassandosi al mio livello fino a sfiorare con i polpastrelli il vetro lucido e satinato.
Gli lasciai la bottiglia direttamente tra le mani, mentre con il corpo mi spostavo per cedergli adeguato spazio per sistemarsi. Nonostante ciò, il mio profilo era in gran parte a contatto con quello di Dylan, il quale aveva trovato comodo flettere le ginocchia al petto e poggiare gli avambracci su di esse, in attesa. Sembrava costantemente in attesa di qualcosa.
Non aveva più gli occhi di chi si teneva qualcosa dentro. Sembrava decisamente più libero.
«Ho dato di matto. Mi dispiace. Vederti cercare compagnia in qualcun altro mi ha sorpreso. Sapevo di non essere stato tanto cortese, ma non credevo che avresti ripiegato su Bayles. Per questo ti ripeto che se non vuoi stare qui, puoi e devi andare via. Non hai nessun obbligo. Puoi veramente fare ciò che vuoi ed io non sono nessuno per affermare il contrario» confessò prima di buttare la testa all'indietro e prendere un profondo respiro. Aveva tutta l'aria di qualcuno che ne aveva pensate fin troppe e che si era lasciato convincere dall'idea che sarebbe sempre andato tutto male. Ma non era la realtà.
«Sei ancora convinto del fatto che tutti prima o poi vadano via?» domandai a bruciapelo osservandolo con la coda dell'occhio. Dylan incurvò un angolo della bocca annuendo.
«O vanno via loro, o vado via io. Il risultato non cambia. E credo di aver capito il problema di fondo quale sia. Me. E devo accettarlo, prima lo farò, prima starò meglio solo con me stesso.» Scosse la testa avventandosi nuovamente sulla bottiglia.
«Non tutti se ne vanno. Per esempio, io sono qui. È il posto dove appartengo.» Era ciò che pensavo davvero. Troppe volte non avevamo fatto che scappare e dividerci, magari avremmo dovuto solamente fermarci un attimo per prendere fiato.
Deglutì malinconico. «Lo sai meglio di me che delle volte è preferibile perderle prima... le persone. Quando non fa ancora male. Per evitare di soffrire, no? Lilian, ti prego... vattene, non capisco perché ti stai ostinando. È chiaro come il sole che non sia abbastanza per-» Dylan si spostò per potermi fissare dritto negli occhi e uccidermi dentro. Stava tremando. I suoi muscoli stavano cedendo a delle lacrime che presto sarebbero sgorgate. Era estremamente fragile e così dannatamente testardo.
Era come me.
«Non hai mai pensato di non aver lottato abbastanza? Di non aver detto abbastanza? Di non esserti arrabbiato abbastanza? Urlato abbastanza? Pianto abbastanza? Sfogato abbastanza? Non pensi che tutti se ne sono andati perché credono che tu non le voglia intorno? Non posso parlare per altri, ma è proprio questo ciò ferisce! Il tuo comportarti come se non ti importasse dell'altra persona! Come se la sua assenza fosse ordinaria amministrazione e che sarebbe stata facilmente rimpiazzabile!» Mi guadagnai una sua occhiata piena di recriminazione e malinconia. Scrollò le spalle incredulo dopo essersi umidificato le labbra.
«Lo pensi davvero? Tutto ciò che hai detto durante il viaggio: che dovrei essere felice smettendo di scappare o fare terra bruciata attorno a me? Perché io non so cosa fare. Non voglio illudermi di qualcosa che so di non meritare.» Distolse lo sguardo per poterlo posare sulle sue mani a contatto con il freddo vetro che stringeva prepotente, ormai quasi esausto. Muoveva le dita frenetico come per distrarsi dalla risposta che avrebbe presto invaso la sua mente.
«Tutti meritiamo di essere felici... anche tu.»
Dylan alzò un angolo della bocca con amarezza. L'emozione che potevo scorgere era niente di meno che bieca consapevolezza... di ciò che avrebbe voluto e di ciò non sarebbe mai riuscito a realizzare. E potevo sentirlo come faceva male anche solo immaginare di essere in una trappola creata dalla propria mente.
«Avevi la scusa perfetta per farmi sparire dalla tua vita. Ti ho dato tutte le motivazioni plausibili per odiarmi e scappare più lontano possibile senza mai guardarti indietro. Perché tutto ciò che hai detto su di me è assolutamente vero. Sono stato insensibile, uno stronzo di prima categoria, ti ho ignorato, trattato male, costretto a partecipare a questa farsa e allontanato ancora e ancora in tutti i modi. Avevi l'opportunità di lasciarti alla spalle il mio malessere, perché non l'hai colta al volo?» farfugliò inondato da tutte quelle emozioni negative.
«Sono pessimo. Sono davvero pessimo... io non lo merito, vedi? Quando ho scoperto la verità su Richard che mi hai tenuto nascosto, io sono come morto dentro. Alla mente mi sono ritornate tutte le cattive sensazioni e i problemi di fiducia che nutrivo prima di incontrarti. Come una doccia fredda mi sono ricordato che non esiste la felicità illimitata e che il sogno a occhi aperti prima o poi finisce. Non lo merito perché, invece di incanalare quel dolore in qualcosa di costruttivo, ho iniziato a respingerti. E non sei l'unica. Ho ferito Nathan, Emma, Sophia e chiunque abbia provato ad avvicinarsi a questo cumulo di cocci e macerie. È qualcosa che faccio di continuo, ancora e ancora e ancora. Ferisco tutti come in un vortice. Ho tanta di quella rabbia mista al dolore dentro di me che non finisce più. Mi sono autoconvinto di volerne rimanere fuori. Fuori dalle vostre vite e dal vostro cuore! So che sarebbe meglio per tutti se io rimanessi da solo, eppure, c'è qualcosa che mi tiene frenato dal fare le valigie e partire lontano. Ed eccomi qui, intento a voler trovare un modo per parlarti senza più farti stare male, mentre allo stesso tempo ti spingo via perché so di non meritarlo.» Dylan bevve nuovamente affogando i suoi dispiaceri. La bottiglia non aveva, però, più alcol che potesse abbeverare quella sete di autocommiserazione che stava cercando di placare.
«Perché lo fai?» Dylan mi guardò in maniera interrogativa. «Perché dici di non meritarlo? Sono io quella che si doveva far perdonare. È colpa mia se hai provato quelle sensazioni. Quando pensi certe cose sappi solo che lì fuori c'è un sacco di gente che ti vuole bene e che spera di sentirti dire che tu meriti tutta la felicità del mondo e che loro non vedono l'ora di donarti.» La mia voce risultò tremante. Stavo cercando di trovare delle risposte a delle azioni che un senso non avevano.
Dylan poggiò la bottiglia lateralmente alla sua figura, mentre si avvicinava per rispondere alla mia domanda. Ci separavano solo una manciata di centimetri e da quella distanza mi era possibile constatare come il suo cuore stesse pulsando veloce. Il petto non faceva che alzarsi a un ritmo incostante e turbolento.
«Guardami, sono un vero disastro. Un puzzle che non ha risoluzione e che continua a creare casini intorno a sé. Ti ho perdonata molto tempo fa. Se vogliamo essere precisi forse non sono mai stato veramente arrabbiato con te. Vederti in ospedale la prima volta mi ha scombussolato, ma chi non perdono è me stesso. E se tu fossi stata in auto con me? Se succedesse altro che non riuscissi a gestire? E se mi trovassi nei guai e ti dovessi trascinare a fondo? È molto più facile fingere che ti voglia lontano o che sia tu a scappare via, che vederti soffrire in futuro. Tutti vanno via... io andrò via, non sono abbastanza forte per restare, senza farti del male!» Dylan si voltò dall'altro lato inspirando profondamente per ricacciare indietro le lacrime. Mosse convulsivamente le mani per rilassarsi, stringendo i pugni e lisciandosi i capelli.
«In fondo, cosa c'è in me che potrebbe in qualche modo esserti d'aiuto? Guarda Nathan, per esempio! Persino i miei zii sono convinti che con una persona come lui al tuo fianco staresti sicuramente meglio. Anche come finto fidanzato sono pessimo!» Dylan alzò le braccia afferrandosi il volto tra le mani. Era completamente in balìa delle emozioni. Davanti ai miei occhi avevo un fragile ragazzo dalle iridi nocciola e il cuore pieno di paure.
Nathan non era Dylan e a me non sarebbe interessato avere nessun altro intorno, se non lui.
Porsi lo sguardo verso il battiscopa, notando il fiasco di vetro accanto ai suoi piedi. L'afferrai.
Incurante di ciò che mi aveva rivelato, la posizionai in mezzo ai nostri corpi con lo scopo di continuare il gioco che avevamo interrotto sulla spiaggia.
Non c'era niente di certo in quel mondo, se non che tutto sarebbe potuto cambiare in un attimo. Conscia dei rischi e delle possibili variabili, decisi che quello sarebbe stato il giorno in cui tutti i nostri problemi si sarebbero risolti.
Doveva decidere cosa fare della sua vita. E se far parte della mia.
Prendere o lasciare?
♣♣♣♣♣
Bang bang, cari Cursed!
Non vedo l'ora di stendervi tutti con la magia del prossimo capitolo, parola di streghetta. Preparate i cuscini su cui cadere!
Alla prossima, dalla vostra Red Witch,
Haineli ♥
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