60. Brama molesta (1/2)

5 Seconds of Summer - Youngblood 

Con Richard avevo finto che fosse tutto nella norma, come se le crepe che Dylan aveva creato non esistessero. Sapevo di essere stata una delle peggiori versioni di me stessa, ma non riuscivo a capacitarmi delle sue parole pungenti.

Sbattei le palpebre ritornando al presente, quando le luci della Mercedes scomparvero dalla mia visuale. Ero finalmente sola.

Sospirai rumorosamente rovistando nel fondo della borsa ricercando la ferraglia. Salii le scale fino al mio appartamento notando come in realtà dal moschettone mancasse una delle tante chiavi che utilizzavo abitualmente: quella dell'ufficio di Lynch.

I miei muscoli erano ancora in tensione e il mio cervello esausto.

Che l'avessi persa quando ero scappata via da lui?

Continuava prepotente a invadere i miei pensieri. Sembrava averne preso il monopolio e il senso di colpa mi attanagliava da quel pomeriggio.

Che fosse vero che io non amassi Richard? Che le mie fossero solo speranze vane per qualcosa che credevo di provare? Che mi facessi manipolare con così tanta facilità perché avevo paura di accettare la realtà?

Ricacciai indietro le lacrime. Non era il momento di lasciarsi andare. Aprii la porta del mio appartamento notando Emma riposare sul divano. La tv accesa era il sottofondo preferito dei suoi sogni. Probabilmente non si era neanche accorta dell'ora tarda. Rimasi in silenzio per evitare di destarla, ma a interrompere quel momento ci pensò la suoneria del mio cellulare.

Cercai il telefono il più velocemente possibile. Volevo smorzare quel rumore molesto, ma mi bloccai non appena lessi il nome di Dylan sul display.

Che avrei dovuto fare?

«Rispondi, no?» Emma mi richiamò. Si era svegliata e la colpa era solo sua. La notai con la coda dell'occhio stropicciarsi il viso e stiracchiarsi svogliatamente. Scostai con il pollice la cornetta verde per accettare la chiamata.

«Cosa vuoi ancora, Dylan?» ricalcai incredula.

C'era altro da dirci?

«Lilian? Non credevo mi avresti risposto, in realtà.» Deglutii nervosa il nodo che mi si era formato in gola. Provai a dissimulare dinanzi a Emma, coprendo con una mano il microfono del cellulare.

«È solo Dylan» la rassicurai pur di evitare una domanda scomoda. Accennò un segno positivo con il capo scrutandomi con i suoi occhioni azzurri dietro le lunghe ciglia. Mi voltai per evitare che dal mio volto trasparissero le emozioni negative che provavo in quell'istante.

«Cosa c'è?» ripetei secca e riducendo al minimo il volume della mia voce. Doveva per forza esserci qualcosa, non Richard, sperai.

«Si tratta di Nathan...»

«Cosa è successo? Che gli hai fatto?» mi allarmai dimenticando di modulare il tono pacato che avevo avuto fino all'istante prima. Emma sobbalzò a sua volta.

«Io? Nulla. È ubriaco marcio e mi ha chiesto di te... ovviamente se puoi, altrimenti non c'è problema, credo non si ricorderà nulla domani mattina.» Abbassai le palpebre pensando al mio migliore amico lasciato a soffrire in una pozza di vomito, perché Dylan non sarebbe stato capace di prendersi cura di lui.

«Arrivo.» Una sola parola e niente più. Chiusi la chiamata affondando le mani tra i capelli. Era stata forse la scelta più giusta e stupida di tutta la mia vita.

Riposi il telefono in borsa preparandomi nuovamente ad affrontare il freddo californiano. Aguzzai la vista alla ricerca delle chiavi dell'auto di Emma. Erano alloggiate sul tavolino: le afferrai al volo.

«Amanda, che succede? Potrei parlarti prima che tu vada?» La voce flebile di Emma sembrava quasi che stesse per esaurirsi. Avrei tanto voluto avere quel tempo, poiché erano giorni che non aveva fatto altro che ripetermi di voler un momento in mia compagnia. Così come Margot, eppure, non ero riuscita a concederlo a nessuna delle due. Dylan mi stava prosciugando fino all'ultima goccia di lucidità ed energia.

«Torno presto Em, promesso, poi parleremo. Nathan sta male, ha bisogno di me, non vorrei che...» I suoi occhi si spensero fissando il vuoto posto tra me e il televisore. Annuì sconfitta.

Se avessi avuto il dono dell'ubiquità non avrei esitato un solo istante, ma purtroppo per me ero solo una semplice umana.

***

Giunsi a casa Kingstone prima di quanto previsto. Avevo premuto sull'acceleratore senza neanche accorgermene. Bussai incassando un pugno dopo l'altro contro la spessa porta d'ingresso. Avevo ignorato il campanello, poiché non in vena di ascoltare una delle melodie polifoniche impostate dal padrone di casa. Utilizzare la mia forza contro l'oggetto blindato sembrava darmi un po' di pace: testimoni erano le mie nocche arrossate. Avrei continuato fin tanto sarebbe stato necessario.

Avvertii lo scoccare della serratura pochi istanti dopo: Dylan si presentò ai miei occhi lasciandomi un congruo spazio per potergli passare di fianco. Ignorai il suo sguardo cupo, scansandolo per poter raggiungere il retro della casa. Non avevamo pronunciato neanche una parola e francamente non sapevo se fosse il caso.

Mi diressi dritta verso la camera di Nathan spalancandone la porta e gettandomi su di lui per controllare il suo battito. Quando avvertii il suo respiro contro le mie dita, mi tranquillizzai immediatamente. Arricciai il naso a causa della puzza intensa di alcol, mentre trovavo alloggio contro il materasso con la schiena. Buttai la testa all'indietro e abbassai le palpebre, provando a scuoterlo e richiamandolo così che avesse potuto comunicarmi il perché avesse richiesto la mia presenza al suo fianco. Ma fu tutto inutile.

Durante la mia permanenza nella stanza avevo notato come sul comodino fossero stati appoggiati una confezione di burro d'arachidi e un pacchetto di patatine. Incurvai un sopracciglio alquanto confusa.

«Non vorrai mica stare tutta la notte lì per terra?» indagò Dylan appoggiato contro lo stipite della porta da chissà quanto tempo. Aveva le braccia conserte aspettando un mio cenno, mentre mi osservava con stizza e disappunto. Sul suo volto regnava un cipiglio che non lasciava dubbi sulla sua irritazione.

«E se anche fosse? A te cosa importa? O anche questo deve passare prima sotto il tuo veto?» ringhiai.

«Potresti trovare un letto in questa casa e aspettare che si svegli, tanto per dire.» Aveva ignorato i miei commenti. Dylan mosse qualche passo solo per noi sedersi in mezzo alla stanza. Iniziò a fissarmi e il suo sguardo bruciava la mia pelle più di quanto volessi dare a vedere. Era fastidioso averlo vicino sapendo tutto ciò che ci eravamo urlati e rimproverati.

«Lo sai che le camere per gli ospiti hanno bisogno di essere sistemate. Dove trovo una coperta e un cuscino che non sappiano di naftalina?» domandai retorica guardandolo torvo. I suoi consigli futili e non richiesti poteva anche tenerli per sé.

«Ho due cuscini e anche qualche coperta in camera, se può servirti» scandì mellifluo le parole non staccando neanche un attimo i suoi occhi scuri dai miei. Le mani stavano iniziando a prudermi a causa di quel suo modo insistente di fissarmi. «Potrei persino prestarti qualcosa da indossare.» Accennai una risposta positiva con il capo seppur con una remora: che fosse gentile solo per poi attaccarmi?

Lanciai un'ultima occhiata a Nathan prima di darmi lo slancio e sollevarmi dal parquet. Sembrava dormire così beatamente, se non fosse stato per i rantoli e l'odore pungente di alcol che emanava. In quel momento lo invidiai, avrei preferito mille volte essere al suo posto, incosciente tra le braccia di Morfeo.

«Andiamo a prendere ciò che serve.» Per ultima cosa controllai la temperatura di Nathan passandogli una mano sulla fronte. Aveva la pelle imperlata di sudore, ma per il resto sembrava tutto nella norma. Gli aggiustai i ciuffi ribelli, che si erano tra di loro appiccicati, prima di uscire dalla stanza. Dylan mi aveva aspettato paziente sull'uscio, studiandomi con il suo sguardo vigile.

Constatai, mio malgrado, che il moro se l'era cavata bene quella volta.

«Dopo di lei» mi fece eco accompagnato da una riverenza. Scossi il capo irritata più che mai, superandolo per accedere al corridoio. Sapevo bene quale fosse la sua stanza, non sarebbe stato necessario accompagnarmici.

Impilai un paio di passi, quando la voce di Dylan proruppe alle mie spalle. «Allora, riguardo a prima...» iniziò. Sapevo che doveva esserci un secondo fine nel suo starmi addosso.

«Vuoi per caso chiedere scusa per i tuoi comportamenti meschini e poco ragionevoli? Va bene, scuse accettate» stroncai sul nascere qualsiasi altra possibilità di parola. Imbracciai le mie stesse mani per ostentare sicurezza, nonostante la mia voce fosse stata tremante.

«In realtà, volevo chiederti se avessi pensato a tutto ciò che ci eravamo detti. Non sono bravo con le parole, ma-» Dylan si morse un labbro: era lui quello rigido e capace di gestire quel tipo di situazioni. Io ero solo una ragazzina troppo fragile per riuscire a controbattere senza perdere le staffe.

«Insultare la mia relazione e i miei sentimenti con una schiera di parolacce mi farà certamente affermare che tu abbia ragione» sputai a denti stretti, mettendo un passo nella sua direzione. Lo squadrai torva per qualche istante, volevo essere minacciosa quanto bastasse per togliergli quel sorrisino sarcastico sul volto.

Ero furiosa a causa di tutto ciò che le sue labbra arrossate avevano pronunciato sul mio conto. E che non riuscivo a fare a meno di fissare.



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