53. Stagista
♫ CARYS - Bad Boy ♫
Tic-Tac.
Pestavo la suola dello stivale prepotente contro il pavimento della cabina passeggeri da un tempo oramai indefinito. Mi sentivo impaziente, febbricitante e snervata dalla possibilità che potesse rivelarsi tutto un grosso sbaglio e che nulla di buono sarebbe derivato dall'essere me. Tirai su la manica del mio completo per tracciare il percorso compiuto dalla lancetta dei secondi. Il mio respiro aveva iniziato ad accorciarsi.
«Che ti prende?» Dylan mi scrutava dall'alto con una tranquillità invidiabile. Sapevo che non avrebbe mai potuto capire il mio disappunto, lo leggevo dal suo sguardo divertito e dalla punta di sbigottimento nei suoi occhi. L'averlo così vicino, inoltre, non aiutava per nulla: mi faceva sentire sotto esame ancor prima che fosse necessario. Sfiancai la gonna a vita alta sulle estremità superiori trattenendo il fiato. Dovevo sembrare più sicura di me.
«È il mio primo giorno. Non so come comportarmi, cosa pensare e mi imbarazza fortemente ricordare che i tuoi pensino a noi... come... come una coppia.» L'erede delle Industries si frappose fra me e le ante di metallo di quell'ascensore, afferrandomi per le spalle e costringendomi ad alzare il mento verso di lui.
«Andrà tutto bene. Firmerai le carte e poi ce ne andremo. Passeranno al massimo un paio di orette, nulla di più. Comportati come meglio credi, io ti appoggerò e qualsiasi cosa farai sono certo sarà la più consona al contesto. Sei più sicura, adesso?» Il suo sorriso aveva delle proprietà calmanti a me ignote. Dentro di me adoravo la parte di Dylan più matura, perché quando voleva sapeva tirar fuori il meglio dalle persone che lo circondavano. Stoppai il mio frenetico ticchettare all'istante.
Le porte scorrevoli di quella scatola per sardine si aprirono, producendo il caratteristico *Din*. Dylan si spostò di lato facendomi passare innanzi.
«Benvenuti al cinquantesimo piano delle "O'Brien Corp." miss Peterson e signor O'Brien, è un piacere rivederla. Vi stavamo giustappunto attendendo.» Quella che credetti fosse il capo delle pubbliche relazioni ci accolse appena fuori l'abitacolo dell'angusto ascensore. Non avevo fatto in tempo neanche a orientarmi che fui scortata verso uno degli innumerevoli corridoi che si diramavano per tutta la pianta.
In pochi metri mi ricordai il perché avessi sempre desiderato essere una socia della compagnia. Sembrava di essere nel paradiso azionario. Avevo scorto almeno una decina di uffici e aree comuni, schermi piatti che aleggiavano sulle pareti come se fossero quadri e ovviamente la tappezzeria più moderna che si potesse desiderare. Ogni lavoratore aveva il proprio ruolo e lo svolgeva con il sorriso stampato in volto. A fare da sfondo, inoltre, ai vari traguardi delle Industries, c'erano grafici, menzioni e dépliant in ogni angolo che fosse possibile scorgere. Il logo della società era persino inciso su delle matite!
«Mi scusi, come possiamo chiamarla?» domandai quando mi accorsi che la donna non aveva smesso un secondo di parlare facendo cadere il suo discorso proprio durante gli elogi al personale altamente qualificato. Era asiatica, il taglio degli occhi a mandorla non poteva che confermarmelo, oltre che una carnagione molto pallida a fare da contrasto ai sottili capelli corvini. Era estremamente posata, precisa e aveva un'ottima parlantina. Quando si voltò nella mia direzione mi sorrise meccanicamente.
«Hyna Toshiro. Capo reparto per le comunicazioni interpersonali e addetta alla pubblica utilità» fece un inchino ritornando all'attacco elencando i conti, le banche, il profitto annuo della società e persino le più recenti transizioni andate a buon fine.
Osservai Dylan con la coda dell'occhio, magari avrei colto in lui un po' di remore e timore, come quello che stavo provando io in quel momento. I suoi lineamenti, però, mi confidavano un certo menefreghismo per le parole che ci stava riservando Hyna. Quel giro turistico era stato messo appunto solo per me: Dylan conosceva quei nomi e quei numeri alla perfezione. La donna non emetteva un suono alle battute moleste di Dylan, forgiata da chissà quanti anni di conoscenza. Tutto ciò che le importava era terminare il suo lavoro al meglio.
Dopo all'incirca venti minuti ci fermammo in un piccolo spazio in comune, che dava direttamente sul portone d'ufficio dei grandi capi. Sulla targhetta era inciso il nome del padre di Dylan: David O'Brien. Era a pochi metri da me, separati solo da un paio di centimetri di compensato e mogano.
«Aspettatemi qui, prego. Appena i direttori saranno disponibili, vi chiamerò.» Hyna ci sorrise meccanicamente fiondandosi dentro la grande stanza. Doveva per forza essere enorme.
Girai in tondo scrutando al meglio l'ala di quel palazzo di cristallo. Mi resi conto di quanto fossimo in alto quando attraverso una vetrata notai il profilo degli edifici più rilevati di Stanford: non si scorgeva asfalto da nessuna parte. Sembrava quasi di essere sospesi a mezz'aria.
«È davvero un bel posto...» sospirai mordendomi un labbro. Ero così vicina a un mio grande sogno che non mi sembrava reale. Avevo la paura che tutto potesse terminare da un momento all'altro e che quella vista l'avrei potuta solamente sognare tramite una cartolina.
«Lo so, modestamente ho buon gusto!» Dylan si appoggiò aderendo la parte bassa del suo tronco contro il muro intonacato. Iniziò a giocherellare con i gemelli della camicia, credendo di fare il figo, ma con scarsi risultati. Eppure dovetti ammettere che quel completo gli fasciava la figura meglio di quanto avessi mai pensato.
«So benissimo che non hai niente a che vedere con l'arredamento: non hai ereditato il buon gusto da tua mamma!» gli rivelai con un luccichio negli occhi. Era divertente stuzzicarlo e notare tutte le sfaccettature differenti del suo volto. Come piegava un labbro e corrugava il sopracciglio sorpreso: erano gesti che accompagnavano il suo stupore.
«Neanche tu lo hai ereditato, perché tua madre è una signora squisita, al contrario tuo.» Indurii il volto rimbeccato, ma quando mi avvicinai minacciosa pronta per dirgliene quattro, notai qualcuno alle sue spalle. Il battibecco che avrebbe tanto voluto assaporare e che non vedeva l'ora di affrontare sarebbe stato rimandato a un altro momento.
«Oh, mamma» soffiai a pochi centimetri da lui.
«Sì, tua madre...» Il moro non colse il perché di quella mia reazione, non subito almeno. Non avevo avuto tempo per comunicare, anzi, avremmo fatto meglio a tacere e a scomparire il più velocemente possibile. Avrei dovuto trovare un nascondiglio e l'unico disponibile era proprio quello offertomi dal corpo di Dylan. Mi acquattai al suo fianco cercando di rendermi più piccola di quanto non fossi già. Non volevo essere vista, non volevo che ci vedesse, non volevo...
«Lanny!! Sei tornato da me!» Troppo tardi.
Gli occhi di Dylan saettarono verso la non più bionda. Imprecando a bassa voce si rese finalmente conto che la giornata idilliaca si sarebbe presto trasformata in un incubo. Ma non solo per lui. Nel più improbabile degli scenari, venni presa di peso tra le sue braccia e stretta in una morsa così che la mia figura fosse visibile a chiunque passasse di lì.
Lo avrei ammazzato, era deciso.
«Oh, ci sei anche tu» sputò velenosa, Sophia. Il messaggio di Dylan era chiaro: se vado a fondo io, tu vieni con me. Non erano passati neanche due secondi e già gli acidi dello stomaco erano refluiti nel mio esofago. La gola mi bruciava per il nervoso e un brivido percorse la mia schiena ricordando gli spiacevoli momenti che avevamo condiviso in passato.
«Ti vedo... mmh, meglio» provai non trovando nient'altro di carino da dire. Di certo avrei voluto aggiungere che fosse solamente la condizione fisica di vicinanza a permettere che la sue forme e colori venissero impresse sulla mia retina. Il rosa shocking del suo vestitino non passava inosservato.
«Oh, ma grazie, Milly. Sai ho iniziato una cura detossificante a base di tisane. Rimuove impurità ed è base di alghe. Potrei metterti in contatto con un mio consulente, credo ne avresti bisogno visto quella pelle secca e squamosa. Guarda un po' quelle occhiaie e oddio, quelli sono brufoli?» Sophia si avvicinò pericolosamente al mio viso aguzzando la vista e puntando al mio naso. Il mio primo istinto fu quello di spingerla via, ma fui bloccata dalla mano di Dylan che intrecciò le sue dita alle mie, cogliendo l'irritazione che covavo.
«Sophia, lasciala stare. Io credo che sia perfetta così senza alcun trattamento. Evidentemente se ne fai uso vuol dire che non si possa dire lo stesso di te.» La ragazza divenne paonazza e fumantina di rabbia. Il suo incarnato era dello stesso colore dei suoi capelli rosso Tiziano.
Posai il mio sguardo su Dylan mostrando gratitudine. Non mi aveva mentito: non mi avrebbe lasciata sola tra quelle quattro mura. Intensificai la presa su di lui.
All'improvviso e con l'ingenuità di quei momenti, Hyna spalancò la porta dello studio di David. La donna ne uscì con la cartella sotto un braccio dandoci il permesso di entrare per conferire.
«Ma no, Lanny, non abbiamo finito!» si lamentò Sophia quando entrambi ci portammo dentro la stanza. Salutammo con un cenno della mano richiudendo la porta alle nostre spalle, non prima di aver sentito Hyna rimbeccare la ragazza per il suo comportamento poco professionale nei confronti del figlio del capo.
Quando la mia attenzione ritornò dove fosse veramente necessario, mi resi conto dello spettacolo di ufficio che avevo dinanzi gli occhi. Dylan scivolò al mio fianco dirigendosi spedito ad abbracciare i suoi genitori. Aspettai qualche passo indietro. Era un loro momento e glielo avrei fatto gustare senza intromissioni.
Fissai gli occhi sulle grandi vetrate contornate da un delizioso arredo minimale. Tutto in quella stanza aveva l'aria di essere moderno e perfettamente funzionale. I muri erano allestiti con manifesti e locandine delle "Corporation". Altrettanti attestati, oltre che la laurea di David in Economia e Management, troneggiavano alle sue spalle. Sulla scrivania vi erano adagiati portapenne contenti cancelleria di ogni tipo, fogli delle svariate dimensioni, carta stampata a suo nome e vari cornici contenenti foto di famiglia. Notai persino un tocco femminile dato dalla presenza di svariati mazzi di fiori inseriti in vasi di alluminio dalla forma allungata.
«Lilian, tesoro, fatti abbracciare! Da quanto tempo.» Lyanna mi accolse calorosamente in uno stupendo abito turchese. Il suo viso era incorniciato da una pettinatura anni cinquanta alta e vaporosa: quella donna aveva classe e raffinatezza in abbondanza. Eccitata di rimando iniziai il soliloquio che avevo provato fino allo sfinimento nella mia testa. Dovevo assolutamente ringraziare entrambi per l'enorme possibilità che mi stavano offrendo e, più parlavo, più notavo i volti di Lyanna e David addolcirsi.
«Suvvia, Lilian, vorremmo assumerti per il tuo eccellente curriculum, non facciamo favoritismi qui alle "O'Brien Corp.". Hai avuto delle ottime referenze, persino il professor Lynch era entusiasta di dare il suo contributo per immettere nel mondo del lavoro i suoi due pupilli.» David superò la scrivania venendomi incontro per porgermi la mano. Accennò un mezzo sorriso riserbando una sonora pacca sulla spalle a Dylan. «Vero, figliolo?» domandò retoricamente.
«Sì, certo papà. Pensa che non avrebbe assunto neanche me se non avessi ottenuto il posto da assistente!» mi informò il moro portandosi una mano dietro la nuca. Indagai con lo sguardo, mi riserbavo di chiedergli come mai si fosse irrigidito di colpo.
«Suvvia, sciocchezze. Non avevamo dubbi sulla tua assunzione. Sei sempre stato eccellente. Ora, però, ragazzi devo informarvi che abbiamo avuto un piccolo disguido. La stampante ha fatto i capricci e non siamo ancora pronti per il contratto, ci servirebbero un paio di ore. Io avevo avvertito Dylan che sarebbe stato molto più semplice inviare un fax, ma ha insistito per poter tornare a casa. Per quanto mi piaccia avervi qui, so che non avevate programmato questo ritardo.» A quelle parole qualcosa scattò nella mia mente. Avrei potuto evitare quel viaggio semplicemente con un fax?
Mi voltai solo per ricercare Dylan al di là della stanza. Il ragazzo, sentendosi colpevole, cercò di evitare i miei occhi, cosciente che lo avrei incenerito quanto prima. Prese a grattarsi nervosamente il collo ricoperto da un leggero strato di barba ispida: gli avrei rovinato quel bel faccino.
«Tranquilla, Lyanna... nessun problema, è stato un viaggio così piacevole. Sono certa che il ritorno lo sarà ancora di più.» Sperai con tutta me stessa che Dylan cogliesse la minaccia velata dal tono della mia voce. Sembrò afferrare.
«Quanto ti amo quando dici queste cose!» Inaspettatamente la maschera da torturatrice che avevo indosso, lasciò posto allo stupore. Mi limitai ad accennare con la testa un segno positivo. Dovevo ricordarmi che quelle parole erano prive di significato.
«Ma che dolci, fosse per me vi farei rimanere qui tutta la settimana.» Lyanna batté le mani ripetutamente e genuinamente si pose in mezzo a noi, stringendoci in un abbraccio. La mia testa si scontrò con quella di Dylan, facendomelo guardare sotto un'altra prospettiva. Il moro mi lanciò un occhiolino contornato da un risolino di vittoria: voleva solamente mettermi sotto scacco e c'era riuscito alla grande. Che bastardo.
Aprii la bocca per poter ribattere e riguadagnare terreno, ma al posto della mia voce, quella che udii fu il suono melodioso prodotto dalle corde vocali di Hyna.
«Signori O'Brien, mi dispiace interrompervi, ma sono arrivati gli azionisti e vi aspettano nella sala conferenza.» Scomparve nuovamente dopo un inchino.
Salutammo i coniugi O'Brien nella zona ascensori: i genitori di Dylan sarebbero saliti al piano superiore, mentre noi avevamo libero accesso a tutto il palazzo nell'attesa dei contratti.
Lyanna mandò un ultimo bacio volante prima che le porte scorrevoli in metallo si chiudessero ed io espirai tutta l'aria che avevo trattenuto fino a quell'istante. Appoggiai la mia fronte contro il freddo muro per qualche istante: e anche quella era fatta.
«Sei stata grande» Dylan fece eco ai miei pensieri indicandomi di seguirlo.
«Di certo non grazie a te, avrei potuto risparmiarmi tutto questo, ti rendi conto?» gli intimai a denti stretti seguendolo a ruota verso un corridoio inesplorato. A proposito, dove stavamo andando?
Gli uffici intorno a noi sembravano meno moderni e molto più abbandonati a loro stessi. Credetti fossero solo archivi o stanze spoglie.
«Non ti voglio rapire, sto solo vedendo se c'è ancora la stanza con le mie cose.» Sembrava quasi che mi avesse letto nella mente. Mi fermai di colpo intercettando tra le mie mani la cravatta di Dylan e arrestando la sua corsa.
«Hai un ufficio?» domandai incuriosita. Non era il momento di perderci in sciocchezze.
Dylan sorrise maliziosamente facendo scorrere le dita sul tessuto imbastito. Afferrò la mia mano costringendomi a lasciare la presa dall'accessorio di alta sartoria.
«È la mia stanza dei giochi!» Scossi il capo irrigidita, chiedendomi cosa avessi fatto di male per meritarmi tutto quello.
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