106. Il filo di Arianna

Post Malone - Circles

Dylan mi osservava con i suoi occhi lucidi. Sfiorava la mia pelle tumefatta all'altezza del collo.

Eravamo stati in ospedale appena un'ora prima e anche in quell'ultimo accertamento i medici mi avevano rassicurato che non avrei avuto sequele. Sarei dovuta rimanere a riposo così da dare tempo ai segni violacei di riassorbirsi del tutto.

Lui si era preso cura di me per tutto quel tempo, senza mai lasciarmi sola. Mi aveva invitata nel suo letto con la promessa che mai più avrebbe permesso che mi potesse accadere qualcosa di male. Si incolpava per non essere riuscito ad arrivare in tempo.

«E se fossi...» gli occhi gli si riempirono di nuovo di lacrime. Gli posai un dito sulle labbra premendo dolcemente e sorridendogli.

«Niente se, come vedi sono qui con te.»

Alzai un angolo della bocca felice. La mia guancia premeva contro il cuscino di piume d'oca mentre il lenzuolo copriva parte del mio corpo nudo. La mano di Dylan scivolò in avanti per afferrare il mio capo e attirarmi a sé. Mi lasciò un delicato bacio tra i capelli.

«Ti amo così tanto» sussurrò. Mi feci strada dall'incavo del suo collo per mordergli la mandibola segnata da un leggero strato di barba ispida. Agganciai una mia gamba alla sua ignorando il cotone che scivolava sui nostri corpi.

«Io di più» scherzai riprendendo colore. Il moro mi bloccò da quel tentativo di persuasione fatto di morsi e carezze. Fissò il mio sguardo dritto nel suo con fare incattivito.

«No, io di più» si oppose scontento lasciandomi una sonora cinquina sul didietro. Roteai gli occhi al cielo.

«Vedremo» sussurrai spostando il mio peso sul suo corpo così che i miei ciuffi scuri ricaddero per effetto della gravità sul suo busto. Mi avvicinai affinché potessi ancorare le sue labbra alle mie. Più e più volte, mentre felici e imperterrite le nostre lingue si scontravano beandosi di quel contatto. Eravamo famelici e desiderosi di viverci quanto più avremmo potuto.

E, proprio quando tutto sembrava essere perfetto, il mio cellulare iniziò a squillare. Ignorammo i primi trilli senza pensarci due volte: io e Dylan eravamo avvinghiati e bramosi di altro. Purtroppo, però, le chiamate non cessarono nell'immediato e, seppur costernati, riprendemmo fiato, giusto il tempo di scoprire chi fosse il nostro disturbatore.

«Pronto?» domandai sconvolta, mentre con una mano tiravo le coperte che Dylan stava provando a sfilare. Iniziò a riempire il mio corpo di piccoli e caldi baci.

«Signorina Peterson, è lei? Ma questo cosa funziona?» Dall'altro lato della cornetta una voce matura rispose alla chiamata. Bloccai il moro mettendo il vivavoce. Avevo una mezza idea su chi fosse il mio interlocutore, considerando la poca dimestichezza tecnologica. Ciò significava che avremmo dovuto rimandare il nostro momento.

«Sì, sono io. Signor Lynch, è lei?» E, mentre Dylan continuava a giocherellare con i miei ciuffi ribelli e a toccare con la punta della lingua i lobi delle mie orecchie, io dovetti rimanere concentrata.

«Oh! Perfetto, allora questo cosa funziona! Senta, la chiamo perché sono nel mio ufficio e il mio nuovo assistente, il signor Brian Colt, ha ritrovato una cosa strana tra i miei cassetti, ecco. Volevo sapere se fosse sua o del signor O'Brien perché mia di certo non è.» A quel punto anche Dylan smise di fare ciò che stava facendo per pensare a cosa potesse essere quello "strano" oggetto nella stanza di Lynch.

«Come, Brian? Ah, sì, si chiama penna drive. Dice che si chiama così. È per caso vostra?» in quel preciso istante non mi venne in mente nulla. Vaghi ricordi presero possesso della mia mente. Con molta probabilità era la stessa pendrive che avevo trovato organizzando i cassetti della scrivania del professore. Ma non era mia.

Anche Dylan scosse il capo. Pertanto, come c'era finita lì dentro?

«Senta professore, le dispiacerebbe se in giornata io e O'Brien passassimo nel suo ufficio a controllare?» Attendemmo alcuni secondi prima di ricevere una risposta. All'inizio pensai che avesse riattaccato.

«Certo, certo! Allora vi aspetto nel mio ufficio per vedere questa penna. Ma non scrive, Brian, che penna è, sei sicuro?» trattenni una risata.

«Professore, non è che potrebbe dire a Brian di preparare il portatile per poter visionare il contenuto della pennetta?» azzardai. Probabilmente avrebbe travisato il contenuto di tutta la frase, ma sperai nel buon senso del nostro compagno di classe.

«Oh, sì. Brian devi preparare un qualcosa da portare così da poter vedere come scrive la penna.» La conversazione si interruppe all'improvviso. Io e Dylan ci scrutammo sbalorditi per poi scoppiare a ridere. Era stata la conversazione più surreale che avessi mai fatto. Eppure, c'era un qualcosa che sotto sotto non mi tornava.

«Sei sicura di volerci tornare?» mi domandò preoccupato. Asserii convinta.

Quel luogo era il teatro dell'orrore che invadeva i miei incubi da almeno tre settimane e Dylan lo sapeva bene. Mi aveva stretto a sé ogni qualvolta un brutto sogno mi faceva agitare, finendo quasi sempre per poi fare l'amore.

Sarei stata bene se ci fosse stato lui al mio fianco.

«A dire il vero sono curiosa di scoprire di chi sia» ammisi pensierosa. «Anche se in realtà non possiamo essere certi che quell'oggetto non stia lì da decadi e che non ce ne fossimo mai accorti visto che qui qualcuno non sempre faceva il proprio dovere!» accusai il moretto che di tutta risposta scrollò le spalle, mentre mi circondava la vita con un braccio così da far combaciare i nostri corpi.

«È colpa tua... mi distraevi parecchio» sussurrò irriverente e malizioso allo stesso tempo, con l'unico scopo di farmi arrossire. «E mi distrai tutt'ora.»

***

Una volta parcheggiata l'automobile nel piazzale principale dell'UCLA, ci incamminammo verso l'aula al secondo piano che avevamo tanto amato e odiato durante i mesi precedenti: teatro di guerra dei nostri cuori bellicosi e delle nostre anime piacenti.

«Qui... ero seduto proprio qui quando abbiamo litigato la prima volta» sospirò Dylan soffermandosi davanti l'ufficio di Lynch come se avesse visto un fantasma. Scossi il capo per ritornare alla realtà.

«Cosa, Dyl?» Lui mi guardò sorridendo, in maniera un po' triste e rammaricata.

«La prima volta in assoluto che abbiamo litigato... e non intendo un semplice battibecco. Mi riferisco alla prima volta che ti ho mostrato il vero me corroso dalla rabbia e dalla paura. La prima volta che ho tentato di ferirti. Volevo spegnere la luce nei tuoi occhi.» Indicò il muro prima di appoggiarsi spalle contro e braccia raccolte. Lentamente si trascinò a sedere. «Ti trattai davvero male all'epoca. Mi dispiace per come andò, non c'entravi nulla con il mio casino interiore. Non ti ho mai chiesto scusa a riguardo.»

Feci uno sforzo di memoria. Di certo rimembravo le circostanze del primo periodo, di come mi avesse additato a santarellina senza conoscermi, di come lo avessi considerato inopportuno in più di una occasione. All'epoca non era Dylan, ma solo "il cugino di Nathan". Era il ragazzo solitario, dalle battute taglienti che viveva con un alone di oscurità negli occhi. Quello cui "non avresti mai saputo cosa gli passasse per la testa". Lo osservai spiazzata, non sapendo come replicare. Si allungò quel tanto per afferrare la mia mano e portarmi verso di sé. Mi strinse forte tra le sue braccia. In quel momento eravamo due ragazzini tenuti insieme da promesse e ricordi e niente ci avrebbe dissuaso dal viverci.

«Era il nostro primo giorno. Non avevamo le chiavi dell'ufficio e stavamo aspettando Lynch già da un po'. Ti aveva accompagnato Eric ed io, non sapendo per quale motivo, ero più suscettibile del solito. Dentro di me avevo provavo una sensazione nuova che mi dava fastidio: curiosità. Ti conoscevo da forse tre giorni, eppure, avevo già fatto più pensieri su di te che su qualsiasi altra ragazza. E non sapevo che fare. Saremmo stati soli per la prima volta, come avresti reagito? Ma la cosa che più mi spaventava era capire come io avrei reagito. Ero stranito e anche maledettamente nostalgico. Perciò preso dal panico mi comportai nell'unico modo che conoscevo: quel pomeriggio avevo deciso che non avrei permesso a me stesso di commettere gli errori del passato. E così è stato, o almeno ci provai. Vomitai un fiume di cattive parole solo per allontanarti. Ti dissi che non avresti mai capito cosa provassi e che non ti avrei mai voluto rivelare nulla di me. Mi pento amaramente di averti fatta soffrire. Mi vergogno a dirti che volevo farlo: mi saresti stata alla larga e ti avrei persa ancor prima di pensare di averti, come era giusto che fosse. Avrei incolpato me stesso continuando a essere ciò che ero sempre stato... ma quella curiosità che volevo a tutti i costi acquietare iniziò a pungermi e a bruciarmi per tutto il corpo: tu "volevi capire" me. Ne avevo paura, anzi, ne ero terrorizzato. Chi avrebbe mai pensato che alla fine mi sarei completamente innamorato della perfetta sconosciuta che ha curato il mio cuore ferito?» avvertivo l'amaro nella sua voce e la speranza nei suoi occhi. Le sue dita percorrevano il mio corpo a velocità decrescente. Tutto intorno a noi aveva perso la sua accelerazione. Sembrava accadere ogni volta che ci guardavamo negli occhi. Non lo sapevo spiegare con le parole. Forse proprio perché non ce n'era bisogno. Bastavano i silenzi a riempire le nostre anime.

«Avevi anche detto che tutti sarebbero andati via... eppure, io sono qui tra le tue braccia. Mi sa tanto che sbagliavi.» Un angolo della sua bocca si aprì in un sorriso sincero.

A interrompere quel momento magico fu il signor Lynch comparendo da dietro la porta. Non ci scomponemmo più di tanto poiché non era la prima volta che ci beccava in atteggiamenti compromettenti. Ci distaccammo con calma, rimanendo comunque a un palmo di mano l'uno dall'altro. L'uomo sorrise calorosamente quando si accorse di noi.

«Avevo sentito bene, allora! Il mio udito è come quello di una volta!» esultò verso l'interno delle mura. «Forza, ragazzi, entrate pure. Brian ha detto che è quasi pronto.» Lynch ritornò nella sua tana e noi, dopo uno sguardo di intesa e d'amore, lo seguimmo.

Il professore era stato uno dei primi a essere informato degli atti osceni che erano stati perpetrati all'interno del suo studio. Si era mostrato di una dolcezza unica venendo a trovarmi in ospedale durante le ventiquattro ore di controllo. Aveva persino corroborato la mia testimonianza affermando che avessi tutte le autorizzazioni necessarie per essere lì, ma che invece l'altro studente si fosse impunemente introdotto senza alcun minimo scrupolo.

Mi aveva accolta come sempre, mettendoci tutta la premura necessaria affinché mi sentissi a mio agio. E stava facendo un ottimo lavoro.

Respirai a pieni polmoni quell'aria di carta straccia e pelle ruvida. La mano di Dylan strinse la mia per infondermi coraggio. Ce l'avrei fatta senza alcun problema con lui al mio fianco.

«Ciao ragazzi!» ci salutò energico Brian Colt. Era un ragazzo più basso rispetto la media, occhi scuri e tanti ricci mogano che gli pendevano della testa. Aveva un sorriso contagioso e tante lentiggini a costellargli il volto. Lo salutammo di gran lena. Il professor Lynch tornò a osservare il lavoro di Brian senza veramente capirci qualcosa. Ci portammo dietro il giovane che ci mostrò una schermata bianca e verdone.

«La chiavetta ha una password, perciò sono dovuto partire a ritroso cercando un programma che potesse decriptare il codice alfanumerico d'accesso. Siamo dentro al primo livello. Il problema è che sembrano esserci due compartizioni: una già accessibile e una seconda protetta da un'ulteriore chiave d'accesso. Questa cartella, vedete? Ha una password. Grazie al software sono riuscito a scoprire che è di nove lettere e inizia per "B". Se mi deste un altro paio di minuti dovrei entrare senza problemi. Sempre se questo rottame non si spenga prima del previsto.» Brian sorrise sarcastico dal basso dei suoi ricci ribelli, mentre noi altri ci sedemmo in attesa di un responso.

«Ma non potevamo semplicemente portare l'oggetto in una qualche associazione universitaria e lasciare le incombenze a loro?» domandò Dylan cadendo a peso morto sul divano centrale nell'esatto modo in cui aveva fatto in quegli ultimi mesi: senza compostezza o esitazione.

Il professor Lynch scosse il capo sconsolato. «Non mi piacciono quegli aggeggi strani, preferisco la vecchia carta e le buone maniere! Quindi trovo inappropriato che mi si affidino oggetti di cui non sono a conoscenza! Finché si tratta dei miei studenti non ho alcun problema a condividere questo spazio con loro, ma dato che non è vostro ho la responsabilità morale di trovare il proprietario e domandare come sia riuscito a intrufolarsi qui dentro! Ed è una accusa gravissima perché si tratta di violazione di proprietà privata e dell'università! Per questo il signor Brian si è offerto di aiutarmi con la ricerca.» La testolina del ragazzo comparve da oltre lo schermo del portatile dei primi anni duemila. La sua faccia pareva contratta in un'espressione di disappunto più che di sincera gioia. Sicuramente si era ritrovato incastrato nella faccenda.

Essendo il nuovo assistente di Lynch sapeva anche lui degli ultimi avvenimenti, per quello cercava di non fissarmi troppo o troppo a lungo. Apprezzavo la sua riservatezza.

«Ho un'altra lettera, "BA", sempre nove caratteri, si potrebbe iniziare a tirare a indovinare ci sono circa ventisette miliardi di combinazioni» commentò sarcasticamente, mentre sbuffava per la lentezza dovuta alla vecchia CPU.

«C'erano altre copie delle chiavi dell'ufficio, professore?» domandò argutamente Dylan. Mi posizionai al suo fianco. Aveva deciso di prendere la faccenda un po' più seriamente anche lui, mentre il vecchio canuto si sedette dietro la centrale delle due scrivanie. Si lisciò la barba prima di proferir risposta. Dylan appoggiò il palmo della sua mano sulla mia coscia.

«Solo quattro copie. Le mie...» commentò mostrando un taschino interno con un porta chiavi decorato a mano «Quelle che ho dato di recente al signor Brian e le vostre» borbottò.

«Siamo a "BAM" signori! Io puntavo su "Barcellon", ma a quanto pare devo scommettere su qualcos'altro.» Brian stava smorzando la tensione come meglio poteva. Era ovvio che lui non c'entrasse nulla.

«Non penso che qualcuno abbia potuto prelevare le mie chiavi. Le tenevo in un cassetto a casa mia. Non le portavo neanche in giro per paura di perderle; perciò, sono a posto» annunciò Dylan stiracchiandosi.

«E lei, signorina Peterson, niente di insolito?» chiese speranzoso Lynch. Non che io ricordassi.

«Penso... anzi, credo che non abbia avuto modo. Cioè, le portavo con me, ma... penso di non averle mai perse... ecco... non credo io abbia mai avuto vuoti di memoria!» risi divertita, ma in realtà il suono della mia risata parve più isterico del previsto. Dylan di colpo si irrigidì. Che avessi detto qualcosa di sbagliato?

«"BAMB" se non sapessi che fosse di nove lettere avrei sicuramente aggiunto "Bambi" come possibile soluzione.»

«Lil, portavi le chiavi in università tutti i giorni? In una borsa? Le tenevi nel maggiolino di Emma? E se sì ti rendevi conto di averle o non ci hai mai fatto caso?» Dylan mi riempì di domande, ma non sapevo cosa rispondere. «Le tenevo semplicemente nello zaino. Qualora mi fossero servite le avrei potute utilizzare, se necessario. Tranne quella volta che non le ho trovate per un'intera giornata e credevo di averle perse fino a che... fino a che lui non me le ha ridate il giorno successivo. E se fosse questo il motivo per cui...?» Dylan deglutì nervoso. Strinse i pugni.

«Brian!» chiamò all'improvviso. Il fulvo per poco non cadde dalla sedia. Alzò la testa per ascoltare le parole di Dylan. «Prova "BAMBOLINA". Dovrebbe entrarci.»

Spalancai gli occhi. Che fosse la pendrive di Richard? Che si fosse appropriato delle chiavi della stanza con lo scopo di avere un posto sicuro in cui nascondere delle prove? E che mi avesse condotto lì solo per riappropriarsi di ciò che era suo fin dall'inizio e non per vendetta come mi aveva fatto credere? Mi aveva usata, come sempre, come aveva fatto fin dal primo giorno.

«Nada. Niet. Niente» sentenziò sconsolato Brian.

Persino il professore ci aveva sperato.

Deglutii a fatica, bruciando la gola come se non fossero passate tre settimane da quell'avvenimento funesto. Se fosse stato veramente un oggetto di Richard allora avrebbe potuto essere... se quella fosse stata la soluzione all'enigma allora in circuiti si nascondeva la verità.

La vera password poteva essere soltanto una sola.

«Brian, inserisci "BAMBOLINE". La password è al plurale.» Abbassai le palpebre verso il pavimento di granito in attesa del responso. Avevo colto di sorpresa anche Dylan. In fondo, era nello stile di Richard catalogare le donne come meri oggetti. E, purtroppo per noi, ci eravamo cascate innumerevoli.

«Oh, caspita! Funziona, sono dentro! Venite qui!» esordì entusiasta. Osservai gli occhi Dylan, il quale pareva più risoluto di me. Che avessimo finalmente trovato ciò che avevamo cercato così avidamente? Dovevamo solo accertarcene.

Ci portammo ai lati di Brian: persino Lynch si era mostrato interessato. Lui voleva il suo colpevole allo stesso modo in cui noi volevamo quelle dannate prove.

«Allora, sembrano essere tutti video. Sono datati. Chissà... potremmo aprirne uno per vedere-» Dylan bloccò immediatamente la mano di Brian prima che facesse qualsiasi mossa: fu colto alla sprovvista. Il ragazzo levò le braccia al cielo. «Come non detto!» commentò.

Dylan prese il suo posto scrollando velocemente le icone che si riflettevano sulle sue iridi scure. Sembrava sapere cosa cercare. Scrutò i vari numeri per poi rimanere immobile quando le sue pupille misero a fuoco l'ultimo della serie. Ci pensò qualche istante prima di pigiare per due volte il tasto sinistro del mouse producendo un suono tanto incerto quanto sofferto.

Data: venti marzo.

E fu così che avemmo la certezza di avere tra le mani il più grande di tutti i testimoni. Dylan si staccò dal monitor girando su stesso e poggiando le mani al capo, mentre le immagini sfocate inquadravano ondate di ragazzini urlanti. Brian pareva perplesso, come anche il signor Lynch, ma non dissero una parola.

Rimanemmo immobili, mentre dentro di me il dolore stava iniziando a farsi strada. Pochi frame, ma fu chiaro per noi che l'adolescente biondo al bancone degli alcolici fosse Richard. Certamente più giovane, ma con lo stesso carisma spicciolo. Sorrideva alla telecamera entusiasta, come se fosse il padrone del mondo, mentre platealmente gettava due pasticche grigiastre in un bicchiere. Sorrise ancora prima di lanciare un occhiolino al regista.

Lasciò il contenitore ripieno di alcol accanto al tavolino di una coppia senza farsi accorgere. I due si tenevano stretti, mentre in sottofondo una canzone fin troppo sdolcinata faceva da padrone. Non passò molto prima che le luci stroboscopiche illuminarono il volto del ragazzo costellato di nei e con il naso all'insù. Mi voltai per osservare Dylan mirare il sé stesso di sei anni addietro. Aveva gli occhi rossi e le labbra serrate tra di loro come se volesse essere ancora più forte di quello che già non fosse. Mantenne lo sguardo saldo anche quando il volto della ragazza fu visibile, seppur per pochi istanti. Una folta chioma rossa e dei grandi occhi verdi incorniciavano un viso raggiante di felicità. Il sorriso di chi stava vivendo appieno la sua vita tra le braccia della persona che amava.

Fu allora che la vidi. La lacrima che lentamente si versò dall'occhio di Dylan. Mi avvicinai a lui, stringendo a me le sue mani e suggerendogli che avremmo potuto interrompere in qualsiasi momento. Ne ricavai solo un sorriso un po' infelice.

«Voglio, anzi, devo continuare a vedere» constatò risoluto.

E così avvenne. Le scene si susseguirono come Emma ci aveva riportato. Un gruppo di ragazzini, cui era difficile dare un volto iniziò a muoversi verso l'esterno. Salirono su un'automobile per montare all'inseguimento di una Camaro azzurra. Sapevamo come sarebbe andata a finire, eppure, eravamo lì, immobili, speranzosi che qualcosa sarebbe cambiato, magari per sempre. Magari eliminando tutto il dolore causato.

Dylan afferrò la mia mano ancor più saldamente. Era il momento. Dopo il parco. Dopo la curva. Dopo Kobe che pregava di smetterla. Dopo le urla divertite. Non c'era più niente da fare. Nulla. La tragedia si sarebbe consumata da lì a pochi attimi.

La Camaro andò fuori strada. Il suono del contatto tra il veicolo e l'albero centenario fu assordante. Qualcosa si ruppe dentro di me. Le lacrime segnarono veloci e irrefrenabili il mio volto, mentre in sottofondo la voce di Richard annunciava di gran lena come "O'Brien te la sei proprio cercata! È quello che ti meriti".

Una volta capito la gravità delle immagini, Brian stoppò il video. Il signor Lynch chiese spiegazioni a riguardo.

«Parlava di te, vero? Eri tu?» lo interrogò provando a essere meno invadente possibile. Dylan tirò su con il naso prima di rispondere.

Asserì con il capo. Per poi ritrovare dentro di sé tutta la risolutezza di cui disponeva.

«In quell'incidente, professore, morì una persona. La donna che amavo. E questa pendrive appartiene proprio al suo sadico assassino. Il colpevole che si è introdotto qui dentro cercando di nascondere le prove delle sue malafatte si chiama Richard Whitemore e sta tutt'ora marcendo in prigione in attesa del processo finale. E quello che abbiamo tra le mani, tutti questi video, saranno la sua condanna a vita e la nostra giustizia.»

Mi voltai verso Dylan. Le sue parole parevano ispirate. Per la prima volta dopo tanto lo potevo sentire. Finalmente avevamo tutto ciò che ci serviva per porre la parola fine a quella stramaledetta storia.

Lui ricambiò il mio sguardo annuendo con frequenza crescente, nonostante le lacrime rigassero ancora il suo volto innocente. Intrecciai le mie dita con le sue, mentre un calore intenso pervase il mio cuore.

Era la speranza. Non c'era più posto per i sentimenti negativi. E, con quella nuova consapevolezza, la paura che infestava i nostri animi scomparve per sempre lasciando posto al puro e semplice amore.



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