105. In trappola
♫ LiSA - Unlasting ♫
Avevo parcheggiato in un luogo poco lontano dall'entrata principale. Eravamo nel pieno del semestre, eppure, a quell'ora specie in prossimità del fine settimana non vi erano mai troppi alunni in giro. Tutti occupati a pensare a come trascorrere i giorni a venire.
Avevo tirato un sospiro di sollievo notando che fossi in perfetto orario. Salii le scale antiincendio che portavano al secondo piano. Era la strada più breve per arrivare allo studio ed io non ero più nella pelle. Magari lui mi aveva comprato delle rose, oppure, dei cioccolatini accompagnati a frasi sdolcinate.
Mi stavo facendo mille illusioni per qualcosa di intangibile come una "sorpresa". Ma non potevo farci nulla: semplicemente le adoravo. Le consideravo un gesto d'affetto quando le parole non bastavano. Che fosse una penna rosicchiata o un'asta di beneficenza, Dylan mi aveva fatto ricredere di quei piccoli gesti e la loro importanza: avevo sempre saputo di essere tra i suoi pensieri. Come lui era nei miei.
Rivissi nella mia mente tutte le volte che avevamo scalato l'edificio stuzzicandoci a vicenda o di quelle in cui sostavamo sugli scalini solo per chiacchierare. Ripensai anche a tutte le figuracce, le rincorse, le risate e gli abbracci per i corridoi. Sembravano passati eoni da quando lo avevo visto varcare per la prima volta la soglia dell'aula della Roberts. Quanto mi dava fastidio, all'epoca.
I messaggi durante le lezioni, le penne rubate e i sonnellini persi: ricordi di vite passate, arricchiti da altrettanti irriverenti e decisamente più intimi. Di certo non avrei potuto dimenticare di tutte quelle volte in cui mi trovavo costretta a scorgere i suoi occhi, ad apprezzare le sue labbra pulsanti a pochi centimetri e a udire le parole taglienti che mi rivolgeva quando con la mente vagava tra oscuri pensieri.
Tutto ciò faceva parte di me.
Avevo percorso il corridoio e osservato il silenzio che era intorno a me. I miei stessi passi risuonavano veloci dandomi la certezza della solitudine che avrei incontrato.
Giunta dinanzi la porta dello studio di Lynch notai un pezzo di carta attaccatovi con del nastro adesivo. Che fosse l'inizio della caccia al tesoro?
Con un sorriso afferrai il foglietto tra le dita tremanti, dispiegandolo per bene nonostante i bordi frastagliati. Tutto ciò che vi lessi erano delle banali istruzioni, ma nessun indizio.
"Entra dentro e chiudi gli occhi." Sbuffai stranita. Dylan era dotato di una fantasia inimmaginabile e non paragonabile a quella di chiunque conoscessi. La sua mente era come quella di un universo in espansione, eppure, non riusciva proprio a essere romantico. A malincuore dovetti dare ragione a Emma.
Afferrai la maniglia pronta per fare il grande passo, ma la trovai inspiegabilmente irremovibile. Che Dylan non fosse all'interno e che avessi dovuto aspettarlo?
Feci spallucce ringraziando il mio buon senso: trassi dalla tasca posteriore dei jeans la copia delle chiavi che avevo conservata in casa. Inserii il ferro nella toppa girandola fino a udire il caratteristico scatto dei cilindri.
Feci una leggera pressione sul vetro opaco per spalancare l'imposta e come avevo immaginato Dylan non era lì. Le persiane erano basse, impedendo alla luce di filtrare completamente, mentre il colore aranciato del tardo pomeriggio risplendeva sulle superfici in ciliegio. Era sempre un piacere ritornare nel luogo dove tutto era iniziato: neanche una virgola era cambiata.
Feci qualche passo verso il divanetto centrale sotto al davanzale, quante volte lo avevo sorpreso a dormire invece che a lavorare. Sorrisi istintivamente prima di abbassare le mie palpebre in attesa della sua rivelazione.
Una che mai mi sarei aspettata.
Il rumore secco della porta battente mi fece sobbalzare. Non vi era stato alcun suono ad anticipare quel momento e in un moto di strana consapevolezza spalancai gli occhi ritrovandomi di fronte ciò mi fece gelare il sangue nelle vene. Tutta la mia gioia si tramutò nel più assoluto terrore.
La gola divenne secca, mentre le pupille si dilatarono: avevo paura.
«La mia bambolina è sempre stata così ubbidiente... lo sapevo che sarebbe stato un gioco da ragazzi attirarti qui.»
Un sorriso bieco e insano nacque sul suo volto. Quel viso che credevo non avrei più dovuto rivedere in vita mia... lui che aveva fatto soffrire tutti coloro che amavo.
«Richard... ch-che cosa ci fai qui? Cosa vuoi? Dov'è Dylan?» pronunciai con un filo di voce, impaurita. Deglutii nervosa facendo un passo all'indietro incespicando contro la grossa scrivania in mogano centrale.
Tastai ossessivamente la superfice lignea in cerca di un qualche elemento che avrebbe potuto servirmi, ma non riuscivo a concentrarmi, non capivo cosa i miei polpastrelli tastassero.
Lui era dinanzi a me ed io ero completamente paralizzata. Ero in trappola.
Richard si mosse con flemma, ricurvo nelle spalle e gelido nello sguardo. Era un viscido, lo era sempre stato. Solo che in quel momento non aveva più alcun motivo per mascherarlo.
«È così che accogli il ragazzo che ti ha corteggiata per tutti questi mesi? Dove sono finite le tue buone maniere? Non mi chiedi neanche come sto o cosa ho fatto in questo ultimo periodo?» Si leccò il labbro inferiore, mentre avanzava fiero e sinistro. Mi spostai di corrispettiva verso il lato opposto al suo.
I muscoli della mascella erano bloccati in una smorfia di terrore e lui ne era ben consapevole: si beava del mio sguardo disperato.
Non emisi alcun suono, provando a inserire quanta più distanza tra i nostri corpi. Sapevo, però, che sarebbe stata solo questione di tempo prima di finire spalle al muro impossibilitata a sfuggirgli qualsiasi cosa avesse avuto in mente di fare. Ero in trappola, mi ripetevo.
«No? Non ti va di chiacchierare un po' dopo ciò che tu e i tuoi amichetti mi avete fatto?» domandò divertito non nascondendo un certo sadismo nella voce.
«Tutto ciò che è successo te lo sei meritato! Hai drogato me, Emma, tutte quelle ragazze e non solo!» gridai facendo così arrestare il suo passo. Avevo guadagnato qualche secondo.
«Oh, io me lo sono meritato?» Si mantenne la maglia a scacchi all'altezza del petto piegandosi in due dalle risate. Un suono sinistro e gelido. «Voi stupide puttane ve lo siete meritato! Prima siete tutte così fragili, poi tutte così forti e sai cosa siete anche? Siete tutte uguali: trovate un ragazzo, lo fate invaghire e poi vi tirate indietro sul più bello! Per questo dovresti ringraziarmi, faccio solo ciò che volete senza che voi ne siate coscienti. In quel modo siete delle bamboline perfette.» Le sue parole erano anche peggio di quello che mi sarei mai potuta aspettare.
Quella confessione aveva risvegliato in lui sentimenti assopiti di disprezzo. Con un balzo mi raggiunse, agguantandomi stretta. Non mi avrebbe lasciata andare: si prestava a sfiorarmi il volto con le dita.
Quel contatto mi faceva ribrezzo. Provai a sottrarmici, ma con uno strattone violento mi riportò in asse, costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. Le sue unghie infilzavano la carne delle mie guance come un rapace faceva con la sua preda.
Iniziò a schiacciare il suo corpo lurido contro il mio come se volessi, ignorando i miei gemiti di disprezzo. Si bagnò le labbra osservando il mio sguardo spaurito. Non volevo fissarlo, vederlo godere di tale marciume mi faceva venire voglia di vomitare. Richiusi le palpebre per provare a sottrare le mie iridi a tale scempio, ma l'unico risultato fu che Richard iniziò a urlarmi contro.
«Guardami lurida puttana che non sei altro!» Gli occhi mi si riempirono di lacrime, mentre non potevo fare altro che ubbidirgli. Tirando su con il naso mi resi conto di essere incapace di fare qualsiasi cosa. Ero stretta nella morsa tra lui e la scrivania.
«Lo sai che è stata tutta colpa tua, vero? Sei proprio una bambina cattiva... ti avevo promesso che se tu avessi parlato ti avrei rovinato la vita» sussurrò a un paio di millimetri dalle mie labbra prima di impossessarsi di esse con la sua viscida lingua.
La sentivo prepotente e invadente battere contro i miei denti che tentavano di tenere l'invasore più lontano possibile. Spalancai le palpebre, mentre copiose lacrime calde iniziarono a scorrere sul mio volto. Richard non si sarebbe arreso: voleva me e l'avrebbe ottenuto, se non avessi fatto qualcosa.
Le sue labbra non smisero di muoversi avide. Le avvertivo squallide e screpolate, quei due lembi di cute vermigli che giocavano con me come fossi un pupazzo incosciente. Era abituato ad avere il controllo.
E, mentre le sue mani decisero di insinuarsi sotto i miei vestiti estivi, una scossa attraversò il mio corpo: l'istinto di sopravvivenza venne fuori. Afferrai il porta penne tastato alle mie spalle assestandogli un colpo all'altezza del capo quanto più forte che potei.
Bastò affinché la sua presa si affievolisse per un istante, abbastanza tempo per permettermi di sfuggirgli, ma non fuggire. Ero a pochi metri dalla porta: se avessi avuto più forza ce l'avrei fatta.
«Aiuto!» gridai in preda al panico e guidata dall'adrenalina. Mi buttai sulla maniglia girandola prima di venire afferrata per la vita ed essere gettata all'indietro, cadendo rovinosamente a terra.
Cercai di riprendere coscienza delle mie azioni: Richard era più inferocito che mai. Iniziai a scalciare, credendo che così lo avrei tenuto lontano, ma era servito davvero a poco. Le mie braccia esili non riuscivano neanche a destabilizzarlo.
Mi costrinse alla sottomissione, sovrastandomi con il suo peso, mentre mi agitavo e gridavo di continuo che mi avrebbe dovuto liberare. La paura invase il mio corpo irrigidendolo. Che senso aveva continuare combattere allo stremo delle forze se non vi era più speranza?
I ciuffi biondi che incorniciavano il suo volto angelico erano più lunghi che mai, nascondendo in contro luce i suoi piccoli occhi vispi e ridenti. Sembrava senza anima.
Si sedette a cavalcioni su di me, tagliandomi di fatto ogni via di fuga. Allungò le sue mani sul mio busto segnando la mia figura per intero. Bloccò le mie braccia sopra la testa con un gesto rapido.
«Sai, mi hai fatto male. Ed io che credevo avremmo potuto risolvere la questione in un modo che appagasse entrambi.» Una goccia di sangue cadde sul mio viso. Lo avevo ferito per bene, sfregiandolo sopra l'occhio destro. Ma quel gesto più che salvarmi, aveva decretato l'effetto opposto.
Continuai a urlare e a scalciare, tirando via le mani, ma non ci riuscivo.
«E va bene, lo hai voluto tu...» iniziò convintosi che non sarei mai stata al suo sporco gioco di mia volontà.
Al che cinse la mia gola con le mani spesse, in una morsa tale da impedirmi di respirare. Faceva male, dannatamente male. Ed era così forte, mentre io al contrario non ricevevo più neanche l'ossigeno per pensare. Le cartilagini della trachea sembravano essere sul punto di collassare mentre esalavo il mio ultimo lungo respiro. Tutto ciò che sentivo erano i miei stessi singhiozzi strozzati.
Lentamente non solo venne meno la mia voglia combattiva, ma anche la mia coscienza. La mia luce si stava spegnendo.
Chissà come sarebbe stato morire.
Non avevo più neanche paura.
Provavo solo una immensa tristezza... per tutto ciò che avrei potuto ancora fare, per tutto ciò che avrei potuto ancora dire e per tutto l'amore che volevo ancora provare. Tristezza che culminò nell'ultima lacrima che riuscii a versare.
«Lasciala stare, bastardo!» Una figura scura si gettò su Richard facendolo cadere di lato dandomi finalmente pace. Non riuscii a capire immediatamente cosa stesse accadendo: approfittai del momento per riguadagnare tutto l'ossigeno di cui ero stata privata. Tossii avida di respirare rotolando su un fianco e mantenendo la maglia all'altezza del cuore.
Ero spaventata a morte.
La carne del collo pulsava dolente mentre i miei occhi cercavo di prendere visione dei contorni. Era ancora tutto sfuocato. Osservai spaurita il mio circondario per trovare le risposte alle mie domande. Con le labbra tremanti e strette tra di loro mi si riempii l'anima di una flebile fiamma di speranza quando lo vidi.
Mi aveva salvata ancora una volta, in tutti i modi in cui avrebbe potuto, lui mi avrebbe sempre trovata e protetta.
«Dylan!» gracchiai. La mia voce, cosa era successo alla mia voce?
Non avevo più forze e tantomeno lucidità. Allungai una mano verso di lui come per rendermi conto se fosse reale o solo un'allucinazione creata dalla mia povera mente privata di nutrimento.
Quel grido rauco, però, sembrò innescare la scintilla nell'animo di Dylan. Non ebbi più dubbi sulla sua presenza quando i suoi occhi iniziarono a bruciare di rabbia. I due ragazzi avevano ingaggiato battaglia e, grazie all'effetto sorpresa, il moro era riuscito a tenere stretto il viscido psicopatico portandosi sopra di lui. Sapevo che avrebbe voluto correre tra le mie braccia per assicurarsi che stessi bene, ma una sola mossa sbagliata e Richard avrebbe ripreso il controllo.
Dylan serrò la mascella resosi conto del dilemma, al che strinse maggiormente la morsa attorno al collo del biondo.
Una risata bieca fuoriuscì dalle labbra di Richard. «Uccidimi! Mostra a tutti chi sei veramente, O'Brien!» si divertì.
Oramai non si trattava più solo di orgoglio ferito, i due bruciavano per ingaggiare uno scontro mortale. Richard da terra assestò una ginocchiata all'altezza delle coste di Dylan, perdendo il vantaggio sul proprio avversario.
Il biondo ne approfittò per ribaltare la situazione cogliendolo alle spalle e bloccando il collo di Dylan in una morsa. Se solo avesse fatto più pressione lo avrebbe fatto svenire. Il moro tentò liberarsi, ma non ci riusciva. Da quella posizione Richard continuava a premere contro le giugulari. Era solo questione di secondi.
Gemente mi spintonai verso di loro. Avrei dovuto fare qualcosa.
«Sei patetico, come lo sei sempre stato! È così che vuoi proteggere la tua amata?» si divertì a provocarlo.
Dylan non poté rispondere alla provocazione, ma issando il bacino al terreno provò a fare leva per alzarsi, ma tutto ciò che ottenne fu qualche secondo di minor tensione.
«La storia si ripete. Ti dirò esattamente come andrà a finire: dopo aver fatto fuori te, mi scoperò Amanda...» sussurrò. Le pupille di Dylan si allargarono immediatamente. «Le sue labbra sono davvero morbide, sai? Quasi quanto quelle di Lydia.»
«Non nominarle!» urlò infervorato agitandosi sempre di più.
Strisciando ero riuscita ad arrivare alle loro spalle. Usai tutta la forza che mi era rimasta per mordere il braccio di Richard con cui faceva presa sul collo di Dylan, permettendogli di liberarsi.
«Stupida puttana!» Con una gomitata ricaddi a terra, mentre oramai ero certa che Dylan non lo avrebbe lasciato più scappare.
Senza neanche prendere la mira un gancio destro colpì il viso già deturpato dell'assassino. E non fu l'unico ad arrivargli. Il moro si portò a cavalcioni su di lui, infierendo contro quel corpo con tutta la rabbia accumulata nel tempo. Si stava sfogando di tutti gli anni di terrore, di paura e di vuoto. Si stava vendicando di tutto il male che ci aveva fatto... di ciò che Richard l'aveva costretto a diventare.
Un colpo dopo l'altro del sangue iniziò a zampillare dal suo volto mentre la risata bieca dello psicopatico riempiva la stanza allo stesso modo il cuore di Dylan si riempiva di oscurità.
Deglutii spaventata, incapace di muovermi e di farlo rinvenire. Ma fu proprio nell'attimo in cui i suoi occhi inquadrarono la mia figura che Dylan ritornò a intravedere la luce. Con il pugno a mezz'aria ricoperto di abrasioni e sangue secco si rese conto che...
«Forza! Finiscimi!» singhiozzò Richard ridotto a una mera carcassa umana. Ormai era finita, non avrebbe più potuto alzare un dito, figuriamo farci del male. La mano di Dylan incassò violentemente un pugno contro il suolo.
«Sei come me! Finiscimi!» ripeté esausto il primo. Ma non poteva immaginare che non fosse più nelle intenzioni del suo aguzzino.
«Non sono mai stato come te e mai lo sarò!» gli urlò afferrandolo per il colletto.
Richard spalancò le palpebre spaventato per la prima volta nella sua vita. Ciò che le iridi nocciola di Dylan riflettevano era la sua più grande disfatta... e ci avrebbe convissuto per sempre.
Il moro si levò da quel corpo eroso dalla rabbia e dal senso di sconfitta con un balzo. Era finita: aveva vinto la battaglia più importante dimostrandogli di essere sempre stato il migliore.
A tentoni provai ad alzare il busto da terra, mentre il calore di Dylan invase il mio corpo. Mi strinse a sé infondendomi tutto ciò che mi serviva: coraggio, fiducia e amore. I suoi polpastrelli sfiorarono il mio viso e le sue labbra le mie in un gesto che mi donò nuova linfa vitale.
Deglutii rasserenata. Avevo temuto di non riuscire più a stargli accanto.
«Io...» sussurrai cercando di spiegarmi a fatica, ma la gola bruciava. Le sue mani tremanti mi accolsero tra i singhiozzi e le lacrime.
«Shh... va tutto bene, va tutto bene. Non sforzarti. Mi dispiace...» inspirò con il naso tirando le labbra in una smorfia di dolore. «Avrei dovuto essere più veloce... io...» Lo bloccai passando il pollice sulle sue labbra. Il moro mi squadrò con i suoi occhi dolci e lucidi. Gli sorrisi poggiando la mia fronte contro la sua. Non importava più nulla, se non che lui fosse lì.
«Ovunque sarai, saprò sempre ritornare da te. È una promessa.»
***
Dopo pochi minuti, la polizia fece il suo ingresso in facoltà. Richard venne arrestato. Quella volta senza più possibilità di sfuggire alla legge e alle sue conseguenze.
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