01. Lilian e migliori amici
♫ Cesare Cremonini - "Buon Viaggio" ♫
Fissavo l'interno semivuoto del frigorifero già da un bel po'. Il risveglio di quella mattina non era stato dei migliori: l'ansia e l'inquietudine avevano preso il sopravvento sul sonno ristoratore. Picchiettavo l'indice smaltato contro il freddo metallo a ritmo dei miei pensieri. Non riuscivo a diminuire l'intensità della presa sul maniglione, poiché il mio cervello faticava a inviare impulsi.
Pensavo. Non facevo altro da troppo tempo.
Come sarebbe stato il mio futuro, a cosa sarei andata incontro, quali vette e traguardi avrei raggiunto. Tutte questioni da "grandi", ma che dentro di me non trovavano ancora allocazione. L'indomani sarebbe stato un nuovo giorno: il primo del mio ultimo anno di università. Ciò mi avrebbe permesso di spiegare le ali e spiccare il volo verso mete lontane, eppure non mi sentivo lontanamente pronta.
Avvertii una fitta allo stomaco. A metà strada tra un conato di vomito e un dolore colico. Era solo ansia, intangibile eppure così reale. Afferrai il davanti della mia casacca come palliativo, sentendomi immediatamente meglio. Forse era solo fame.
Continuavo a non smettere di pensare. Avevo vent'anni. La mia famiglia era orgogliosa dei miei traguardi. E lo ero anche io. Un'altra Peterson si sarebbe presto laureata all'University of California, Los Angeles. UCLA.
Scossi il capo. Non valeva la pena perderci troppo tempo: prima o poi tutto sarebbe avvenuto senza che io avessi potuto farci nulla.
Ero in ritardo. Mi sarei dovuta sbrigare per poter raggiungere Nathan.
Agguantai il bottiglione con il latte per poi richiudere con un gesto deciso lo sportello dell'elettrodomestico.
Urlai dallo spavento quando quel deficiente di Eric mi arpionò in vita l'attimo prima che entrasse nel mio campo visivo.
«Diamine, Eric! Perché devi farmi questi scherzi ogni volta?» Non abitavo con la mia famiglia dall'inizio dell'università, per esigenze organizzative. Quasi ogni mattina il mio risveglio era contrassegnato da quei piccoli atti puerili che l'amichetto di Emma, la mia co-inquilina nonché migliore amica, era solito fare.
Lo sorpassai con passo svelto e deciso afferrando una tazza dal bordo del lavello e riempiendola con il latte residuo del bottiglione. Pensai che sicuramente nessuno lo avrebbe ricomprato se non la sottoscritta. Mi sedetti incrociando le gambe sul freddo alluminio del tavolino in attesa di una risposta. Lo facevo spesso, era per la circolazione, oltre che per comodità. Iniziai a sorseggiare la mia bevanda guardando di sottecchi il biondino in maniera interrogativa.
«Buongiorno anche a te! In realtà, volevo solo mangiare qualcosa. Emma di là era abbastanza affamata e io di conseguenza...» per poco non sputai quel che avevo appena sorseggiato, non mi interessava affatto conoscere i dettagli delle loro performance notturne.
«Fermo, non voglio sapere altro. Serviti pure» lo incitai allungando la mano e indicando la dispensa, mentre con l'altra tenevo ben salda la tazzina colorata di azzurro.
«Come preferisci, Lilian» pronunciò ammiccando nella mia direzione. Un brivido percosse la mia schiena curva.
«Sai che detesto quel nome, chiamami Amanda, ti prego.» Lui scrollò le spalle non curante di ciò che gli avessi appena rivelato. Mi si avvicinò mostrandosi in tutto il suo portamento. Era a torso nudo: indossava solo dei pantaloni della tuta. La maggior parte delle volte che era ospite da noi, il suo outfit prevedeva un singolo capo di abbigliamento che fosse maglietta o degli shorts non importava, bastava che mettesse in mostra i muscoli. Mi ci ero quasi abituata del tutto.
«Come vuoi, Amy» mi fece il verso. Scomparve qualche istante dopo aver rovistato tra i cartoni semivuoti di cereali integrali.
Dileguatosi verso la camera da letto di Emma avvertii distintamente la porta aprirsi e richiudersi velocemente per ben due volte. Probabilmente la mia amica avrebbe fatto la sua comparsa al più presto.
In fondo, Eric, non era così male. Biondo, bel fisico, occhi eterocromatici sul blu e marrone. Davvero un bel tipo, se non fosse stato per l'atteggiamento da sbruffone patentato che me lo faceva decisamente riconsiderare.
«'Giorno, Amy!» la mia amica bionda aveva indosso una maglietta slargata e grigia, probabilmente il pezzo mancante della tuta di Eric.
«Emma, quando diventerete ufficialmente fidanzati?» chiesi senza mezzi termini tornando a sorseggiare quello che rimaneva del mio latte ormai tiepido. Lei sembrò pensarci inclinando il capo e volteggiando vicino il lavabo.
«Direi... mai, è perfetto così. Ognuno ha quello che vuole senza complicazioni» rispose facendo spallucce e sedendosi sul tavolo al fine di infastidirmi.
«Perché ho scelto di vivere con te?» domandai retorica appoggiando la fronte contro il muro della cucina e allontanando la tazza dal bordo.
«Perché da piccole ce lo siamo ripromesse ed eccoci qui, due fantastiche coinquiline da sole contro il mondo.»
«Avrei dovuto chiuderla quella dannata finestra, così non saresti mai entrata e non saremmo diventate amiche» mi lamentai provando a guardare Emma negli occhi: mi feci un gran male al collo per nulla.
«Eravamo vicine di casa, ci saremmo incontrate prima o poi» gongolò scendendo dal tavolo e portandosi alla mia altezza. Ricordai quel periodo di dieci anni prima, quando la sua famiglia si trasferì nel mio quartiere e di come un giorno di ritorno da scuola me la ritrovai in camera da letto perché lei era troppo curiosa di sapere chi fossero i suoi nuovi vicini.
«Devo andare da Nathan a pranzo. Mi spieghi perché non ci sarai anche tu?» domandai con il labbruccio da cucciolo, quello funzionava sempre con lei. O con Nathan che poi avrebbe convinto lei a fare quello che volevo io.
«Perché ho da gestire delle faccende per la sfilata di moda che si terrà tra qualche settimana e non posso perdere tempo!»
«Pff, tu e questa tua ossessione per la moda» mi lamentai alzando il capo, mentre con una mano mi massaggiavo il collo dolente. Avrei giurato che vista da lontano sarei sembrata la perfetta incarnazione del disagio e della tristezza che sfociava nella rabbia mattutina.
«È il mio lavoro! Tu segui corsi di mifaròunfuturograzieallalaurea, io faccio la stessa cosa. Solo che il mio mondo è pieno di bei ragazzi.» ammiccò in direzione della sua camera da letto in fondo al corridoio, come avrei potuto darle torto. Sbuffai sonoramente.
«Ah, e per stasera tieniti libera.» Scrollai le spalle non capendo dove volesse andare a parare.
«Ma ti devo spiegare tutto? Eric mi ha informata di una festa in spiaggia. Ci saranno un bel po' di persone, porta anche Cassidy magari, noi ci andremo e chi lo sa, potresti trovare qualcuno con cui divertirti.» sorrisi arrendevole dopo la sua affermazione.
«Lo sai che non cerco il divertimento, vorrei avere qualcosa di più, tipo non lo so, utopicamente parlando, vorrei provare amore, cara la mia biondina stupida» la apostrofai nonostante sapessi fin troppo bene che lei detestasse quell'epiteto. Incurvò un sopracciglio sorridendo malefica.
«Puoi darmi tutti i soprannomi che vuoi, ma tu ci verrai con me a quel falò ed eccome se ti divertirai. Ci siamo intesi, Lilian?» Mi aveva appena reso pan per focaccia.
Chiamatemi Amanda, lo preferisco, grazie.
«Ti odio» bisbigliai trascinandomi verso la porta d'ingresso della sala. Emma si avvicinò per lasciarmi un caldo bacio su una guancia.
«Ti voglio bene anch'io. Ti vengo a prendere da Nathan alle otto, non fare tardi. Torno nella tana a giocare con l'orso.» Non chiesi altro, anche se rimasi a bocca aperta. Aspettai che la camera di Emma fosse chiusa per andare in bagno, fare una veloce doccia e vestirmi per il pranzo. Osservai i miei capelli castano scuro scendere morbidi e seguire le curve del seno. Ero pronta.
Durante il tragitto verso casa di Nathan ripensai a come mi avevano chiamato quei due biondini in casa mia.
Lilian.
Lo detestavo, non sapevo dire con certezza quale fosse il motivo, ma ogni volta che lo sentivo storcevo il naso. Mia madre, all'epoca, aveva pensato che il nome della mia defunta bisnonna fosse un tocco di classe per la sua secondogenita. Avrebbe fatto meglio a evitarlo.
Lilian Amanda Peterson.
Per gli amici, quando non venivo sgridata, ragguardata o presa in giro, ero semplicemente Amy. Più corto, incisivo e di classe. Decisamente meglio.
Impiegai i soliti quindici minuti buoni per raggiungere casa di Nathan a piedi. Non abitava in un appartamento come i comuni mortali, ma era proprietario di una villa. Era anche vero che fosse più ricco di chiunque conoscessi: il padre, infatti, lavorava e dirigeva le "O'Brien Corp.", una società per azioni, insieme allo zio di Nathan. Possedevano molteplici edifici in città, ma non era per quello che gli ero divenuta amica.
Ci conoscemmo alle elementari e allora non ne capivo nulla di soldi, conti in banca e vincita in borsa. Lui si era fin da subito dimostrato gentile, simpatico e semplicemente... Nathan! Un ragazzo dal cuore d'oro.
Suonai alla porta. Lo stile della casa era molto moderno. Finestroni giganti ricoprivano il perimetro che si affacciava sul giardino rigorosamente curato nei minimi dettagli. C'era anche una piscina. Le pareti erano rivestite in marmo le cui venature tracciavano un disegno psichedelico. All'interno, inoltre, erano presenti generi di conforto di tutti i tipi. Persino la melodia del campanello era personalizzabile. Recentemente aveva impostato il tema della famiglia Addams.
Feci amicizia con Nathan il primo giorno. Mi cedette metà del suo tramezzino poiché avevo dimenticato la mia merenda a casa. Da quel momento mi prese sotto la sua ala protettiva. Aveva sempre avuto cura di me e non ci eravamo più lasciati. Uniti nonostante il tempo. Era come un fratello, quello che non avevo mai avuto nonostante una sorella in carne e ossa ce l'avessi. Lei, però, era sposata e aveva una tenera peste come figlio. Era molto più grande di me e, purtroppo, non avevamo avuto il tempo di vivere insieme se non per pochissimi anni. Ero il risultato di una gravidanza inaspettata: un secondo figlio all'età di quarantacinque fu una vera sorpresa per i miei genitori.
Tanto quanto la mia quando dovetti ripremere quel dannato campanello per la quinta volta.
La porta si aprì nell'esatto momento in cui schioccai le dita a ritmo di musica.
«Ce ne hai messo di tempo, Kingstone» ironizzai sorpassandolo e facendomi strada da sola verso la sala. Due serie di divani e sofà separavano la zona relax dalla cucina retrostante. Una scalinata in marmo partiva dall'alto aprendosi nella porzione finale. Era una reggia a tutti gli effetti.
«Per punizione mi preparerai un ottimo pranzo, mentre io mi faccio fare un massaggio da questa poltrona» decisi risoluta avviandomi verso la seduta in questione. Ma qualcosa mi trattenne: la forza del mio migliore amico contro il mio braccio. Occhi azzurro ghiaccio, viso squadrato e capelli scuri sparsi qua e là come se si fosse svegliato da poco. Pensai fosse proprio così dopo aver constatato che avesse indosso solo dei boxer. Se con Eric avevo avuto qualche attimo di esitazione e un leggero moto di vergogna, in quel momento con lui mi sentivo totalmente in famiglia. Era quasi normale.
«Ferma tigre, dammi un abbraccio prima.» Mi strinse tra i suoi addominali contratti e le braccia.
«Se stai cercando di uccidermi per non farmi arrivare a quella poltrona, sappi che non funzionerà» mi schiarii la voce. Lui lasciò la presa.
«Scusami, è che sono solo felice di vederti» confessò imbarazzato portandosi una mano dietro alla nuca. Lo conoscevo da anni e un suo tratto caratteristico era la timidezza sotto quella montagna di capelli.
«Sei perdonato solo perché ti voglio bene e non vorrei interrompere anni di lunga amicizia» commentai accennando il capo per darmi un atteggiamento solenne.
«Come vuoi tu, Amy.» Bravo ragazzo. Si allontanò con le mani in aria e la faccia colpevole.
«Vado a vestirmi e poi iniziamo a cucinare.» mi lanciò un occhiolino prima di scomparire verso le scale che conducevano al piano superiore. Tutto sommato il mio amico era proprio un gran figo.
***
«Quindi non vuoi venire? Ma non ti vergogni ad abbandonarmi così?» replicai disperata, mentre con la mano giravo la forchetta cercando di avvolgerci un paio di noodles. Alla fine avevamo optato per un piatto già pronto da riscaldare, facile e veloce e soprattutto senza rischio di incendi.
«Te lo ripeto per la terza volta. Non è che non voglia venire, ma non posso. Arriva mio cugino da Stanford per finire gli studi all'UCLA e io l'ospiterò per l'intero anno. Dato che devo organizzarmi in casa, e considerato il poco preavviso datomi dai miei zii, devo necessariamente rimanere qui. Non ho una colf che faccia le cose al posto mio nel caso te lo stessi chiedendo» spiegò strabuzzando gli occhi e ingoiando la pasta precotta. E io che credevo di sì.
«Che damerino» scimmiottai. «Tuo cugino, cioè il figlio della sorella di tua madre o quello strano con gli occhi storti figlio del fratello di tuo padre che mi scrisse una poesia d'amore appiccicandoci una caccola sopra? Se ci ripenso mi viene ancora da vomitare.»
«Ma se avevamo sei anni» rispose trattenendo una risata.
«Non fa niente, sono cose che non si fanno! Ti prego, dimmi che non lo rifarà» lo supplicai ingoiando gli ultimi spaghetti speziati allo zenzero e lasciando la posata nel piatto.
«Certo che sei cocciuta! Comunque non è lui, ma l'altro. Il figlio di zio O'Brien per intenderci. Sono più di dieci anni che non mette piede a Los Angeles, sarà per questo che non te l'ho mai presentato.» feci un sospiro di sollievo.
«Meglio così. Ti assomiglia un po' caratterialmente?» volevo avere qualche informazione vinta dalla curiosità.
«Non proprio. Non saprei come spiegartelo... ha un modo di approcciarsi. Non convenzionale. È introverso e chiuso. Una brava persona, ma ne ha passate tante, potrebbe volerci un po' per diventare amici...» si portò una mano sotto al mento, dubbioso. Riguardo cosa?
«Se lo dici tu» commentai facendo spallucce, mentre sparecchiavo la tavola. Portai i coperti in cucina. «A ogni modo sarà una serata noiosa senza di te» gridai così che avesse potuto udire perfettamente.
«Lo so!» replicò e a me venne da sorridere per la sua arroganza.
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